CAPITOLO 20
Tel Aviv, Israele,
pochi minuti dopo
Prima che il telefono della sua villa suonasse, Lior Ghadir era impegnato in un’operazione che aveva sempre considerato delicata.
Avvicinò le forbici e recise con decisione il sottile stelo di una rara orchidea, la Neofinetia falcata.
Al mondo esistono ottocento generi e ventimila specie di orchidee. Per tutte, la fase della potatura è fondamentale. Ghadir sapeva che la fioritura non è una scienza esatta: è la pianta che decide se rifiorire più volte sugli stessi steli oppure rifiorire sui nuovi. Il taglio selettivo poteva indirizzare questo fenomeno, ma non c’erano garanzie.
«Se rifioriscono più volte nello stesso punto, secondo me lo stelo non andrebbe tagliato!». Quando affrontava quell’operazione, le parole di Yaniv Eliyahu gli tornavano spesso in mente. «Almeno fino a quando il fiore non abbia compiuto il suo ciclo vitale».
Sbagliato.
Yaniv Eliyahu sbagliava. Non era così che si indirizzava la fioritura.
A Lior Ghadir, però, Yaniv piaceva. Le sue idee sui fiori, a distanza di dieci anni, lo facevano ancora riflettere.
Poco importava la quantità di denaro che aveva speso per quella serra sul lato orientale della villa. Poco importava la climatizzazione che impostava la temperatura notturna a tredici gradi (anche quando fuori ce n’erano trenta), oppure l’illuminazione costante per favorire la fioritura. Yaniv Eliyahu aveva le sue idee. A volte sbagliate, altre volte giuste.
Ghadir si alzò. Era stato in ginocchio per diversi minuti prima di decidere il punto in cui intervenire. Cominciava a diventare vecchio. Anche se i suoi settantasette anni erano ben portati, le articolazioni delle ginocchia sembravano non considerare che il cervello era ancora quello di un trentenne.
Aveva una pelle rubizza e capelli di una colorazione grigio cenere. Ma erano così da quando aveva trent’anni, cioè da quando lavorava come fedele servitore dello Stato d’Israele.
Quel giorno indossava un cardigan di cotone e pantaloni larghi, esattamente gli stessi abiti che portava l’ultima volta che aveva visto Yaniv.
Senza volere, tornò con la mente a quell’incontro avvenuto nella serra.
«So che vuoi crescere. È giusto. Fai bene». Il tono di Ghadir era serio, quasi paterno, però non aveva un’intenzione amichevole.
«C’è un uomo che vive a Londra. È un russo!».
Yaniv aveva sorriso. «Come posso essere utile?».
Ormai erano diversi anni che aveva abbandonato il giardinaggio e lavorava per lui. Non era un’agenzia ufficiale, e non aveva un contratto vero e proprio, ma sapeva che il suo Paese aveva bisogno delle sue abilità. C’erano troppi nemici di Israele in giro per il mondo e lui faceva in modo che ce ne fosse qualcuno di meno.
«Quel russo qualche anno fa lavorava per il KGB. Adesso, per così dire, si è messo in proprio e ha chiesto asilo in Inghilterra».
Yaniv era rimasto in silenzio. Non era la prima volta che Ghadir partiva da lontano per spiegare le ragioni delle sue azioni. Forse, raccontare i motivi rendeva le sue decisioni più facili. Negli anni il giardiniere si era però convinto che fosse solo una facciata: quell’uomo dava un certo tipo di ordini con la stessa facilità con la quale potava i suoi fiori.
«Poi, per qualche tempo, ha vissuto qui in Israele. Adesso ha scritto un libro che si intitola Terra rubata. Non è necessario che ti spieghi quanto è seccante…». Ghadir aveva fatto una pausa. Gli dispiaceva per ciò che stava per dire? «Ci accusa di aver organizzato gli attentati di Hamas dell’anno scorso…».
Yaniv lo ricordava: in tre attentati di fila avevano perso la vita diciannove israeliani. A causa di quegli atti terroristici il governo d’Israele, che stava per abbandonare alcuni insediamenti in Cisgiordania, era tornato sui suoi passi. «È vero? Li abbiamo organizzati noi per giustificare il mancato ritiro?».
Ghadir aveva sospirato. «È importante?».
Yaniv era rimasto in silenzio.
«Lo puoi fare? L’uomo si chiama Dimitrij Rusakov». Un fascicolo all’interno di una busta passò di mano. «L’ideale è che sembri una cosa fatta dai russi. Rusakov ha qualche problema con il suo Paese».
«Ha già in mente un modo?»
«Quando sarai a Londra avrai i dettagli».
«E poi sarò un effettivo?», aveva domandato Yaniv. «Questa volta sarà davvero l’ultima?».
Ghadir aveva risposto con un cenno d’assenso.
Non mentiva, ma non significava certamente ciò che credeva Eliyahu.
«Una telefonata!», dichiarò una donna con viso sorridente.
Ghadir tornò al presente.
L’aria climatizzata era fresca e i suoi fiori splendidi come sempre.
La donna era sulla porta della serra con un telefono in mano.
«Entri o esca!», ingiunse l’anziano. «Lo sbalzo di temperatura non fa bene alle orchidee!».
Lei gli porse il telefono e poi voltò le spalle.
Lior Ghadir ripose, le cesoie delicatamente appoggiate su un vaso bitorzoluto, e aspettò finché l’inserviente non fu uscita.
«L’abbiamo trovato!», balbettò una voce attraverso la cornetta. «È morto…».
Lui fece un sospiro. Gli dispiaceva, ma dopotutto era la fine naturale per un uomo che non si era mai accontentato di quello che era.
«E abbiamo trovato anche l’altra cosa, quella che era stata smarrita! Purtroppo l’ha assunta prima di morire».
«È rintracciabile?», azzardò Ghadir, con tono sereno.
«Purtroppo sì. Il decadimento non è concluso». La voce fece una pausa. «E c’è anche un altro problema: aveva un documento israeliano!».
Il vecchio sorrise. Un sorriso amaro. Se lo aspettava.
Il passaporto sul cadavere di Yaniv avrebbe dovuto essere un altro… ma purtroppo non era andata così.
«Quindi è possibile fare uno più uno?», chiese con calma.
«Temo di sì!», concluse la voce.
«Fate quello che è necessario per evitarlo, allora!».