CAPITOLO 44
Altopiano del Renon, Bolzano,
ore 06:50
Padre Claudio Germini si era alzato all’alba come ogni mattina, esattamente come faceva da molti anni. Si era infilato il saio marrone, allacciato i sandali di cuoio e stretto in vita il cordiglio. Poi, dopo aver detto le sue preghiere, era sceso nel refettorio vuoto, l’aveva attraversato in silenzio ed era uscito nel porticato che dominava la vallata dall’alto.
Sulle ruvide montagne di granito l’aria del mattino era fredda e rarefatta. Alcuni l’avrebbero definita gelida. Una pallida nebbiolina si stava alzando dall’altopiano, lasciando intravedere i prati imbiancati da un sottile strato di neve. Sullo sfondo, oltre i pini, il paesaggio era dominato dal massiccio del Rosengarten Latemar.
Era nato settantasette anni prima a Grauno, un minuscolo agglomerato di case, stalle e chiese della Valle di Cembra. L’educazione religiosa l’aveva ricevuta dalla madre Angelina, che gli aveva trasmesso la sua intensa fede. Il padre, Ludovico, socialista e anarchico, gli aveva trasmesso la passione per l’arte e l’invito costante a ragionare sul perché delle cose.
Padre Claudio aveva ascoltato e appreso da entrambi, poi, quando aveva potuto decidere da sé aveva messo i consigli dei genitori sul piatto di una bilancia immaginaria. Il responso aveva privilegiato quelli di mamma Angelina.
A sedici anni era andato a Trento per chiedere di essere ammesso tra i frati cappuccini.
Non gli mancava una preparazione scolastica, sia pure rudimentale, ma gli avevano assicurato che sarebbe stata sufficiente per essere ammesso agli studi. Non fu così semplice.
Quando, mezzo secolo dopo, raccontava il suo primo incontro con i frati, si ricordava tremante, imbarazzato e soprattutto deluso dal sentire le parole dell’arcigno priore dei cappuccini: «Siete troppo gracile per la nostra vita austera; dovete mangiare ancora polenta!».
Ma la madre, che lo aveva accompagnato, era intervenuta in sua difesa e in dialetto aveva risposto: «Padre, è magrolino ma è sano! E vuole stare con voi!». E così era stato accettato.
Da quel giorno erano passati diversi decenni. Padre Claudio era rimasto sano e magro e la voglia di stare con i frati non gli era mai passata.
Aveva sempre accettato di buon grado la vita austera del convento e dopo averne girati molti, sia in Italia che in Sud America, era tornato tra le sue Dolomiti, sull’altopiano del Renon, non troppo distante da Bolzano.
Padre Claudio respirò a fondo. L’aria del mattino e le prime luci dell’alba erano la parte che preferiva dell’intera giornata.
«Ti fanno sentire più vicino a Dio», diceva sempre ai suoi allievi. Amava insegnare. Fin da subito, infatti, oltre alla vocazione francescana ne era nata in lui un’altra, in armonia e sintonia con la prima.
«Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato», diceva Gesù. E quella era la sua innata vocazione, mostrare agli altri “il sentiero”.
Ma ormai non erano più i tempi in cui i giovani si rifugiavano tra le quattro mura del convento per cercare Dio. A occuparsi dell’orto, del giardino, del refettorio e delle camere di un severo edificio di pietra, con dieci secoli sulle spalle, era rimasto soltanto lui.
Alla sua morte, probabilmente, il convento sarebbe stato messo all’asta, ristrutturato e acquistato da qualche star della musica o del cinema. Chissà, al posto delle celle e del refettorio, sarebbe forse nata una spa.
Padre Claudio si piegò sul parapetto e osservò il cielo grigio senza sole. Aprì il breviario e prima che riuscisse a leggere un solo passo, una nuvola di fumo attirò la sua attenzione.
In fondo alla valle, sulla strada tutta curve, si era alzato un cumulo di neve fina come farina. Solo dopo pochi attimi udì un rumore, un rombo.
Si tolse gli occhiali, per riuscire a vedere lontano, e individuò una motocicletta scura che saliva veloce verso il convento.
La osservò per diversi istanti, più si avvicinava più il rumore cominciava a rimbombare nella vallata silenziosa.
Si mosse verso il piazzale coperto da un sottile strato di coltre bianca, scese i gradini scoscesi e scivolosi che dividevano il porticato dal passo carraio e attese con i sandali immersi nella neve e le braccia lunghe sui fianchi. Non aspettava nessuno.
Il motociclista superò il cancello, spense il motore e si tolse il casco di fronte al suo sguardo incredulo.
Il frate sorrise di gusto. «Lorenzo Fossati! Che piacere, qual buon vento?».