CAPITOLO 84
Rodi, Grecia,
lunedì 10 marzo, ore 09:45
L’odore della lavanda la fece sentire finalmente a casa.
Quel lunedì mattina di inizio marzo la temperatura era piacevole e sopra i tetti di Lindos splendeva un sole scintillante. Solo un lieve meltemi fuori stagione, il caratteristico vento proveniente dal Nord, le ricordò che l’estate era ancora lontana.
Eva attraversò a piedi le viuzze del paese. Poco lontano dal portone di casa, un fruttivendolo stava alzando la serranda e un barista con un secchio in mano era indaffarato a lavare i ciottoli davanti al suo locale.
Era stata lontana soltanto tre settimane ma le sembrava trascorsa un’eternità. Quell’isola le dava tranquillità. Dopo ogni incarico tornava lì, nella splendida casa di vetro e cemento a strapiombo sulla baia resa famosa dal film di Anthony Quinn. Lì, ogni sguardo, ogni respiro, ogni odore e ogni sapore la riconciliavano con la vita.
Dopo la visita ad Armin Schollen aveva deciso di prendersi un lungo periodo di vacanza. Di sicuro, dopo quello che aveva detto al professore, non avrebbe più dovuto guardarsi le spalle e preoccuparsi di trovare un commando pronto a ucciderla ovunque avesse messo piede.
Prima di tornare a Rodi si era fermata in una banca di Ginevra e aveva depositato il fascicolo che Jean François Defour aveva lasciato alla moglie. Era la sua assicurazione sulla vita e, anche se era una copia, era stato fotocopiato dal funzionario sulla carta filigranata del Segretariato Generale del Consiglio dell’Unione Europea: una garanzia in più circa l’attendibilità. Come aveva garantito a Schollen, Eva aveva predisposto il software che, qualora lei non avesse inserito settimanalmente un apposito codice, avrebbe provveduto a distribuire su larga scala tutti i documenti del progetto di Alberto Zorzi.
La donna scese i dieci gradini della stradina che si affacciava sulla recinzione posteriore della villa e inserì la chiave.
Dopo l’aggressione la polizia aveva sigillato tutti gli ingressi in attesa di completare le indagini e, quella mattina, al di fuori di uno erano ancora intatti. Eva, che aveva molti conoscenti sull’isola, non aveva avuto difficoltà a ottenere l’autorizzazione a rientrare in possesso della casa: tutti i rilievi erano stati completati e, anche se nessuno degli aggressori era stato catturato, l’indagine non aveva più bisogno che la villa rimanesse sotto sequestro.
Naturalmente, quando era arrivata sul posto, la polizia non aveva trovato né sangue né cadaveri – che erano stati portati via dal commando dopo la fuga di Eva – e quindi il reato era stato presto archiviato.
Appena Eva vide il sigillo rotto sul portone d’ingresso si irrigidì. D’istinto portò le dita sulla Glock e, lentamente, mise la mano sulla maniglia. Entrò senza far rumore.
La casa era esattamente come l’aveva lasciata. Sul pavimento del grande soggiorno erano disseminati i vetri del tavolo di cristallo. Qualche sedia era ribaltata. Sul caminetto si vedevano alcuni fori di proiettile e il televisore al plasma appeso alla parete aveva lo schermo incrinato in più punti.
Eva camminò circospetta, le spalle rasenti al muro, e arrivò ai tre gradini che separavano il soggiorno dalla cucina.
Anche lì, la grande vetrata che si affacciava sulla splendida terrazza e sulla baia era andata in frantumi per metà sotto i colpi di mitra. I vetri erano in parte sparsi dentro il locale, in parte fuori. C’era anche una macchia d’acqua, segno inequivocabile che in quelle tre settimane aveva piovuto.
Nonostante il sigillo rotto sembrava non ci fosse nessuno.
Eva proseguì l’ispezione. Si incamminò lungo il corridoio sul quale si aprivano le camere da letto. I paramilitari avevano lasciato il segno: fori di proiettile e ante di un armadio a muro lasciate aperte, abiti e carte sul parquet.
Ma non c’era nessuno.
Estrasse la pistola, che fino ad allora aveva tenuto chiusa nella fondina, e si introdusse nella stanza da bagno.
Nessuno.
La ragazza scosse la testa. Non si sbagliava, lì c’era qualcuno. O più probabilmente c’era stato…
La casa, adesso, sembrava vuota. E sicura.
Cominciò lentamente a rilassarsi. La sua soglia di attenzione si abbassò, come un cane da guardia che torni nella sua cuccia dopo avere abbaiato al postino. Ripose la Glock ed entrò in camera da letto. Il caminetto sospeso al centro della locale era ancora sporco di fuliggine e le lenzuola sul letto in disordine. Era tutto come lo aveva lasciato quasi un mese prima.
Senza neppure pensarci estrasse alcuni fogli dalla borsa, si sedette sul letto, accarezzando le lenzuola con il palmo della mano, e accese distrattamente la TV. La CNN trasmetteva il discorso di Luca Zorzi della sera precedente.
Aveva ancora il respiro affannoso, ma l’istinto di sopravvivenza le diceva che era al sicuro. Si alzò di scatto e si diresse alla cassaforte a muro, inserì la combinazione e l’aprì.
Piegò le pagine contenenti la lista di Zorzi e le ripose delicatamente nel piccolo vano. Le avrebbe rese pubbliche entro pochi giorni, per far capire agli “amici” del professore che non scherzava.
Osservò l’ultima, quella riempita solo per metà di nomi, proprio mentre alla televisione udì una frase che la lasciò senza fiato: «Come tutti sapete, se io sono vivo, oggi, il merito è di mio fratello Alberto, che con un supremo atto di generosità mi donò uno dei suoi reni».
Eva rimase folgorata.
Davanti a lei c’era la pagina del diario di Zorzi e nella parte finale si leggeva una frase che si era fatta tradurre da Fossati alcuni giorni prima.
Di chi? Di chi? Di chi?
Ci sono proprio tutti! Di chi mi posso fidare? Su chi posso contare? E se c’è, o ci sarà, anche una parte di me?
Quelle parole adesso cominciavano ad assumere un significato… c’è, o ci sarà, anche una parte di me? «Il merito è di mio fratello Alberto che con un supremo atto di generosità mi donò uno dei suoi reni».
Anche una parte di me!
Finalmente, tutto le fu chiaro.
Nel frattempo, però, Eva udì un rumore. Quella storia sembrava non finire mai
Il suo istinto di sopravvivenza si riattivò all’istante. Per un attimo sospirò. Poi chiuse velocemente la cassaforte ed estrasse di nuovo la Glock.
Tornò in soggiorno attraversando silenziosamente il corridoio. Sembrava non esserci nessuno.
Salì verso la cucina. Nemmeno dietro la rientranza nella quale erano sistemati i monitor di sorveglianza c’era movimento.
Camminò lentamente, tenendo la testa bassa e strisciando accanto mobile sul quale c’erano ancora i resti della sua colazione. Infine vide qualcosa.
Non capì subito cosa stava guardando. Il ramo di un oleandro in giardino, dietro il muro che cingeva il lato nord della villa, si muoveva in modo innaturale. Di certo non era il vento: qualcuno lo stava agitando, forse per nascondersi.
Puntò la pistola davanti a sé e attraversò di corsa la veranda.
Sotto di lei il mare era una tavola immobile e azzurra. Il meltemi si era fermato di colpo, Eolo stava improvvisamente riprendendo fiato.
Eva appoggiò le spalle al muro e proseguì strisciando.
Ancora un movimento sul ramo dell’oleandro. Dal punto in cui si trovava non riusciva a vedere bene, doveva proseguire ancora per qualche metro.
Con la pistola tra le dita, a piccoli passi, raggiunse lo spigolo del muro. Dalla sua posizione, appena si fosse mossa, avrebbe avuto sotto tiro l’intruso.
Decise. Si sporse, tese le braccia e puntò l’arma.