CAPITOLO 81

 

 

 

 

 

 

 

Füssen, Baviera, Germania,

venerdì 28 febbraio, ore 09:15

 

La notte precedente, sulle montagne circostanti era nevicato. Quella mattina il cielo era grigio e una fitta nebbia avvolgeva le case e i campanili del piccolo paese ai confini con l’Austria.

Il professor Armin Schollen, terminato il breve giro di conferenze, era rientrato nel suo castello fatto di guglie, torri ed elementi gotici. Si era svegliato tardi: la governante aveva aperto le tende della camera da letto, che si affacciava su una splendida vallata imbiancata, e aveva spalancato le finestre. La colazione gli era stata servita sul tavolo della stanza, grande come un appartamento di medie dimensioni. Il professore si era seduto di fronte al camino e aveva addentato i bretzel dolci.

Aveva superato gli ottanta da diverso tempo ma, nonostante l’età, il vizio del vino e una vita sregolata, era ancora in discreta forma.

Viveva nel castello di famiglia, costruito nel XIX secolo su un complesso montano di tre ettari, da quando aveva avuto la sua crisi.

Non era nato come Schollen, ma con un cognome ben più blasonato e conosciuto. La sua famiglia era una delle più ricche e di maggior successo della Germania. Gestiva attività che andavano dall’editoria all’edilizia, dal commercio d’oro e di diamanti fino al sistema bancario.

William Schollen, il suo progenitore più famoso e conosciuto, aveva fatto fortuna attorno al 1760 ereditando dal padre un monte di pietà. Da quella attività estremamente redditizia, che aveva gestito sempre con volto umano, cercando di aiutare la gente quando poteva, aveva fondato una piccola banca. In seguito, con il progredire degli affari, aveva incrementato la sua fortuna intrattenendo rapporti commerciali ed economici con il principe Guglielmo I d’Assia. Tutto ciò era accaduto poco prima dell’invasione di Napoleone, dopo la quale il principe era dovuto scappare in esilio.

A William era stato così affidato il compito di gestire, in assenza del legittimo proprietario, uno dei patrimoni più consistenti d’Europa. In poco tempo, il progenitore di Schollen era diventato egli stesso ricchissimo, avvantaggiandosi anche dell’importazione abusiva di merci, aggirando i blocchi imposti dall’imperatore.

William Schollen aveva poi cambiato il suo cognome in Altenburg, più altisonante e più adatto al suo nuovo lignaggio. Era vissuto fino a ottantanove anni, e nonostante avesse accumulato una fortuna inestimabile, era passato alla storia come benefattore e filantropo. Ebbe otto figli che espansero il suo impero economico e bancario in tutta Europa.

Armin Schollen, come discendente di William, era nato come Armin Gotha Altenburg. Era cresciuto nell’agio e con un destino predeterminato: quello di gestire, insieme ai suoi fratelli, il ramo tedesco delle banche di famiglia.

Ma Armin non era come gli altri: il padre non faceva che ripetergli che era una testa calda. Lui voleva fare le sue esperienze. Nel 1939, contro il volere della famiglia, si arruolò come ufficiale nell’esercito del Terzo Reich, credendo che la guerra voluta da Hitler fosse giusta. Nell’estate del 1942 fu inviato sul Volga, ma un mese dopo fu catturato dall’Armata Rossa. Rimase prigioniero, in una stanza di due metri per due condivisa con altre quattro persone, per oltre un anno. Poi, una montagna di denaro proveniente dagli Altenburg gli permise di essere rilasciato.

Fu portato, gravemente malato e deperito, in una delle residenze di famiglia in Sud Africa, lontano dalla guerra che stava distruggendo la Germania. Tornato a casa, recuperò gradualmente la salute, ma quando si fu ripreso del tutto era una persona totalmente diversa. L’esperienza della guerra e della prigionia lo avevano sconvolto a tal punto da indurlo a un totale ripensamento della sua vita: da lì iniziò un cammino di conversione, che col tempo lo portò a rinnegare tutto ciò che gli Altenburg rappresentavano.

Era stato il denaro a causare la guerra e lui avrebbe combattuto quel sistema iniquo con tutti i mezzi che aveva a disposizione: la parola, la cultura e i libri.

Cambiò cognome, per non essere in alcun modo accomunato alla famiglia Altenburg, e decise di ritornare al vecchio Schollen.

«Ci sarebbe un ospite, professore», fece la governante, mentre gli versava una tazza di Earl Grey fumante nella tazzina di ceramica.

Schollen inarcò il sopracciglio. Di fronte a lui il caminetto a muro scoppiettava e fuori dalla finestra la nebbia sembrava un muro invalicabile. «Ah sì? Con questo tempo?»

«L’attende nella biblioteca. Dice che è urgente!».

Il professore annuì. Si infilò la vestaglia in broccato, le pantofole e si diresse verso lo scalone centrale.

 

Eva era in piedi, con un fascicoletto in mano, davanti a una libreria con rotoli antichi a vista.

Il locale era alto, con un soffitto a volta affrescato. Sulle pareti erano addossati scaffali in legno massiccio carichi di manoscritti. Al centro della stanza c’era un imponente camino acceso, sopra il quale erano appese due teste d’alce. Sulla parete opposta, tra due librerie, facevano bella mostra di sé alcuni dipinti: il primo raffigurava un gentiluomo del Settecento, stempiato, dai capelli bianchi e con un foulard al collo: William Schollen. Per consentire l’accesso ai libri più in alto, a circa metà dell’altezza della stanza era stata costruita una balaustra in legno alla quale si arrivava attraverso una scala a chiocciola vicino alla finestra ad angolo.

La donna scrutò il dorso delle pubblicazioni una per una, ma nessuno di quei testi superbamente rilegati, alcuni in tedesco, altri in inglese, destava il suo interesse. Si accomodò sul divano in pelle sistemato di fronte al camino e chiuse gli occhi.

Era stata una settimana terribile. Era stata una settimana nella quale aveva preso una delle decisioni più sofferte e difficili della sua vita: abbandonare Lorenzo Fossati. Dopotutto, per lui era meglio così. Non sapeva esattamente cosa avesse cominciato a provare per quell’uomo o forse lo sapeva e non era in grado di accettarlo. Alla fine, però, era scappata.

Non era pronta. O più probabilmente non voleva esserlo. Lei aveva già una vita ed era incompatibile con l’amore. E con Fossati. Per giorni si era fatta del male ripensando all’ultima volta che lo aveva visto, mentre scappava su per le scale della casa dei Defour con la bambina tra le braccia. Non pensava ad altro che a salvarsi e a salvare lui.

A un certo punto aveva sentito il rombo delle pale di un elicottero, vicine, sempre più vicine. Poi c’era stato un rumore al piano superiore. Voci, passi, spari. E poi nulla.

Da sola aveva annientato la metà del commando. L’uomo aggredito dal cane era immobile da diversi minuti, poco distante ce n’era un altro, crivellato di colpi, anche lui in fin di vita. Dietro la porta dell’ingresso ne aveva visti altri due, ma sembravano non avere intenzione di uscire allo scoperto.

Fuori dalla finestra aveva notato una corda penzolare avanti e indietro. A un certo punto l’aveva vista salire: gli altri soldati erano tutti atterrati al piano superiore e l’elicottero si stava alzando. Improvvisamente Eva aveva preso una decisione. Non poteva lasciarsi scappare l’occasione. Aveva sistemato meglio il fascicolo nei jeans, per evitare che le sfuggisse accidentalmente, e aveva puntato la pistola mitragliatrice verso gli aggressori.

Era corsa verso la finestra: come un lampo aveva attraversato il soggiorno tenendo premuto il grilletto. Una serie di calcinacci misti a legno erano saltati via. Non aveva colpito nessuno ma il fuoco di copertura le aveva permesso di raggiungere la portafinestra. Aveva serrato gli occhi e quando era stata davanti all’apertura aveva fatto appello a tutte le forze e spiccato il salto più lungo che poteva.

Il vetro si era frantumato ed Eva si era ritrovata a volare nel vuoto a un piano di altezza. Con la mitragliatrice a tracolla, i palmi delle mani aperti, aveva cercato di aggrapparsi alla corda che stava risalendo con l’elicottero.

L’aveva afferrata con le dita di una mano e con l’altra aveva cercato subito un appiglio. Aveva avuto la sensazione di non riuscire a mantenere la presa, era rimasta penzoloni, con gli stivali che sfioravano le punte degli alberi lungo Avenue Molière. Poi, dando fondo alle sue ultime riserve d’energia, si era lasciata ondeggiare come un alpinista sulle Dolomiti e si era tirata su. Con le gambe si era avvinghiata alla grossa corda e la carrucola alla quale era legata la cima nodosa aveva fatto il resto.

Dopo pochi secondi si era trovata sopra i tetti del quartiere, a pochi metri dalla cabina del velivolo. Ma quando il pilota, con i comandi tra le mani, l’aveva vista attraverso il vetro sulla pancia dell’R66, aveva estratto una pistola.

Eva però era stata più veloce. Aveva recuperato la MP7 dalla cintola e aveva fatto fuoco. Il vetro del velivolo era andato in frantumi e uno dei proiettili aveva centrato il pilota proprio sul mento.

All’improvviso, il velivolo aveva cominciato a roteare vertiginosamente. Ma Eva non si era fatta prendere dal panico: si era arrampicata sull’ultimo tratto di corda e si era infilata nella cabina dell’R66 in volo. Spostato il pilota con uno strattone, aveva afferrato la cloche. L’elicottero aveva continuato a scendere come una trottola. Eva aveva armeggiato con i comandi tirandoli avanti e indietro. Poi, finalmente, il volo si era stabilizzato. Aveva tirato la cloche a sé, e una volta sulle case di Ukkel aveva aperto il portellone e lasciato cadere nel vuoto il corpo del pilota.

Una settimana più tardi era seduta sul divano di Schollen. Quell’uomo le era sembrato molto strano fin dal primo momento, ma ripensando alla conversazione avuta nella bettola di Aix, aveva avuto un’intuizione.

Zorzi era andato da lui la notte prima di essere ucciso. Il vecchio aveva detto «per conoscerlo», ma Eva non gli aveva creduto.

A incuriosirla di più però erano state frasi come: «Li conosco bene i Tredici», «Io non mi mischio più con quella gente», «Io non faccio più parte dei Tredici». Schollen le aveva ripetute più volte, forse per caso, o più probabilmente a causa del suo narcisismo. Per il desiderio di distinguersi, di far conoscere la verità.

Così Eva si era documentata e aveva avuto la conferma. Zorzi non era andato da Schollen solo per conoscerlo. Tutt’altro.

«Mia cara Eva, che bella sorpresa». Il professore, entrando nella biblioteca, tese le mani come per abbracciare una vecchia amica.

Eva estrasse una Glock e, rimanendo seduta, la puntò verso Schollen. «Fossi in lei non sarei così felice».

 

 

 

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