CAPITOLO 21

 

 

 

 

 

 

 

Roma, ore 13:10

 

All’ora di pranzo l’edificio di via Tuscolana si svuotava.

Quel giorno di lutto nazionale, in molti avevano preferito restarsene a casa per assistere in TV ai funerali di Zorzi.

La morte del presidente, per quanto drammatica, aveva avuto l’effetto secondario di riavvicinare un’intera nazione da anni in perenne lotta e competizione.

Pioveva e i due agenti arrivarono a piedi protetti da un grande ombrello nero. Mostrarono il tesserino di riconoscimento al piantone, svoltarono a sinistra in un corridoio illuminato da qualche lampada al neon e si diressero verso il seminterrato.

Negli uffici alla loro destra, quelli che davano sul parcheggio, non c’era nessuno. Superarono la fotocopiatrice, posizionata nel vano scala, e scesero le due rampe che li portarono al piano di sotto.

L’accesso ai locali della Scientifica era riservato solo agli addetti o agli autorizzati. Loro lo erano.

Uno dei due agenti fece passare una tessera magnetica nell’apposito slot e la serratura si sbloccò.

Si trovarono in un grande atrio illuminato da una luce bluastra. Si sentiva della musica, ma nessuno sembrava muoversi all’interno del locale.

Erano in una stanza che faceva da archivio e da anticamera. Di fianco a loro c’era un armadietto di acciaio semiaperto, dal quale si intravedevano fascicoli polverosi che chiunque avrebbe potuto prendere. Dalla parte opposta, sulla sinistra, costruito davanti a un’arcata di mattoni a vista, c’era un vetro scorrevole. Oltre la porta si aprivano i laboratori.

«Se siamo sicuri che è un indirizzo Internet ne manca un pezzo». Le voci provenivano dall’interno del locale.

«Diciamo che il boss ha ragione: la virgola diventa un punto. L’ultima lettera invece è una E incompiuta». Valerio Pina era ancora seduto alla consolle. «Siamo a WWW.GRE. Ne manca sempre una parte sostanziale!».

«Guarda!», annunciò Cécile, con un tono di soddisfazione. «È arrivata una email del perito linguistico…».

Pina si alzò in piedi e raggiunse la postazione della giovane agente; lesse ad alta voce il messaggio e sorrise: «“Vi confermo che il tatuaggio è scritto in alfabeto abjad. Il testo che mi avete inviato sembra incomprensibile perché, purtroppo, il traduttore automatico dall’ebraico all’italiano non funziona un granché. La prossima volta, vi consiglio una traduzione automatica dall’inglese…”».

«“Vi allego entrambi i testi così potrete verificare…”». Pina proseguì la lettura e la prese a ridere. «L’avevo detto io che il traduttore automatico non è molto accurato. Il testo dall’inglese almeno si capisce!».

«Cigno grigio?». La ragazza rilesse meglio la traduzione ma la sua espressione rimase dubbiosa. «E chi è Eliah?»

«Sarà una frase biblica… Inoltra l’email a Lupatelli».

Cécile eseguì. Poi si voltò verso la porta a vetri e vide i due agenti immobili che li osservavano. «Avete bisogno di qualcosa?».

Le porte scorrevoli si aprirono. Uno teneva una ventiquattrore in mano, l’altro aveva le mani in tasca.

«Buongiorno. Il cadavere trovato nel Tevere dovrebbe essere qui!», disse il primo. Era il più alto, capelli neri, occhi scuri, corporatura imponente.

L’altro, più basso del primo e più vecchio di almeno vent’anni, rimase impassibile.

«Sì!», confermò Pina, stupito. «È dietro quel vetro. Ma voi come siete entrati? Non vi ho sentito suonare».

Non arrivò nessuna risposta.

L’uomo si mosse velocemente ed estrasse un oggetto dalla tasca.

Premette il grilletto e sparò senza che Pina si rendesse conto neppure di ciò che stava accadendo.

Il proiettile sibilò nell’aria. La pistola argentea e il silenziatore scomparvero sotto l’uniforme con la stessa velocità con la quale erano apparse.

Pina, incredulo, si toccò lo stomaco e cadde in ginocchio.

«Si sente male?», fece l’altro agente, avvicinandosi furbescamente al giovane crittografo.

La ragazza, che stava ancora alla sua consolle, non si era accorta di nulla. Si voltò di scatto. «Valerio!».

Improvvisamente però, con la coda dell’occhio, mentre osservava la scena, vide la mano dell’agente sotto la giacca. Stringeva il calcio di una pistola?

L’aggressore non perse tempo a dissimulare l’arma. Vistosi scoperto, estrasse una Beretta Modello 71 con canna allungata.

Cécile, senza esitare, si buttò per terra oltre la scrivania.

L’agente sparò un colpo silenzioso nell’aria ma la mancò. Dal muro dietro la ragazza si staccarono alcuni calcinacci.

Lei non si fermò a riflettere. Come un ragno, si infilò carponi dietro al tavolo. Passò veloce sopra un groviglio di cavi e si ritrovò dalla parte opposta rispetto al collega.

Pina, nel frattempo, era riverso sul pavimento in un lago di sangue. Cercava di parlare ma dalla bocca uscivano soltanto rantoli confusi.

«Vieni fuori!», ordinò l’altro agente che stava girando attorno alla fila di scrivanie. Aveva una voce tranquilla e decisa allo stesso tempo.

Cécile non rispose. Ansimava.

Avevano sparato a Valerio. Non riusciva a crederci. Abbassò lo sguardo. Dalla sua posizione, sotto la scrivania, riusciva a vederlo bene. Stava a pancia sotto, immobile. Teneva le mani grondanti di sangue premute sullo stomaco e muoveva le labbra senza riuscire a emettere alcun suono.

«Non ti faremo niente!», sussurrò una voce.

La ragazza non vi badò. Raccolse tutte le sue forze e fece un balzo di un paio di metri. Ogni fibra del suo corpo era impegnata nel tentare di evitare di fare la stessa fine di Pina. Andò a infilarsi sotto un mobile attaccato al muro. Poi strisciò lungo la parete e, raggiunta una colonna di mattoni rossi, si fermò di colpo e si acquattò.

Dalla sua posizione riusciva a scorgere la porta blindata della sala autoptica. Era a pochi passi da lei, ma in mezzo c’erano due armadietti bassi che le impedivano di arrivarci. Si toccò la tasca dei pantaloni per verificare…

Un sibilo sopra la testa, ancora polvere e calcinacci nell’aria.

Si voltò di scatto: l’altro uomo in uniforme era lì davanti a lei, immobile. Non l’aveva sentito arrivare: era passato attorno alle scrivanie facendo in piedi lo stesso percorso che lei aveva fatto carponi. E adesso era a meno di cinque metri, senza nulla che si frapponesse tra loro.

Lo vide bene in viso: aveva uno sguardo sadico. Teneva il braccio teso con la pistola salda in pugno. Se avesse sparato non l’avrebbe mancata. Ma non lo fece. Perse una frazione di secondo per guardarla e sorriderle.

Troppo tardi. Cécile si mosse improvvisamente, balzò dalla parte opposta e rotolò dietro una credenza in legno. Un istante dopo, udì lo sparo che la mancò di pochissimo. Almeno così credette, in un primo momento…

Mentre era in ginocchio si portò la mano alla coscia. Sanguinava. Era stata colpita di striscio.

Altri spari silenziosi. Questa volta contro il metallo di uno scaffale.

Si alzò di scatto e cercò di raccogliere le ultime forze. Provò a spostare l’armadietto di metallo aggrappandosi con entrambe le mani minute. Lo fece oscillare con tutta la forza che aveva. Prima in avanti e poi all’indietro. L’aggressore era sempre lì ma, con lei seminascosta, non poteva avere la visuale libera.

Alla fine ci riuscì. L’armadio di ferro, che conteneva apparati informatici e scatoloni, si rovesciò. Cadde sopra una scrivania che si ribaltò a sua volta. Il vetro andò in frantumi e si sviluppò un principio d’incendio.

Fu l’attimo di distrazione di cui lei aveva bisogno.

La ragazza fece l’ultimo salto e andò a sbattere contro l’ingresso blindato della sala autoptica. Cécile, le mani sudate, estrasse la tessera magnetica dalla tasca dei pantaloni; la fece scorrere nel lettore e riuscì ad aprire. Si intrufolò all’interno e si richiuse la porta alle spalle.

Era salva.

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