CAPITOLO 18
Rishon LeZion, Israele
nello stesso istante
L’Israeli Institute for Biological Research, la struttura dove Israele sviluppa le sue armi chimiche, è un imponente edificio in cemento armato, con torrette di sorveglianza e muri alti sei metri. Sorge tra i cespugli rinsecchiti della periferia di Rishon LeZion, la quarta città più grande del Paese. L’autostrada che da Tel Aviv si dirige a Sud, passa vicino al complesso, ma l’uscita sulla carreggiata che lo costeggia è chiusa.
Yuval Shalom lavorava al sesto piano.
Chiamò l’ascensore con la tranquillità di ogni giorno. Era un uomo mite, scapolo e poco attento ai dettami della sua religione. Portava degli occhiali con una vistosa montatura e indossava una camicia bianca a maniche corte e una cravatta nera. Dietro al suo aspetto comune si nascondeva, però, un’intelligenza fuori dall’ordinario.
Lavorava al dipartimento nucleare da otto anni. Come tutti, in quell’edificio, aveva firmato un accordo di riservatezza severissimo che gli impediva di parlare delle ricerche che stava svolgendo. Quando, all’atto dell’assunzione, l’allora direttore gli aveva imposto la firma sul documento, gli aveva anche raccontato un aneddoto che lui non conosceva: «Il comportamento che noi auspichiamo è quello tenuto da un nostro dipendente durante una visita di Moshe Sharett». Il tono era stato serio e solenne come se l’aneddoto si riferisse al giorno prima. «Ebbene, egli si scusò con il primo ministro per non potergli mostrare i progetti ai quali stava lavorando!».
Moshe Sharett? Il primo ministro degli anni Cinquanta? Le cose non erano cambiate poi molto. Internet e le innovazioni tecnologiche non avevano scalfito l’aura di segretezza dell’IIBR.
Yuval Shalom entrò in ufficio e appoggiò la tazza di caffè sulla scrivania: era in anticipo di almeno mezz’ora per il turno del pomeriggio. Quello era un giorno strano visto che, a causa del lutto in Europa e delle Borse chiuse, non aveva trovato il solito traffico attraversando il distretto finanziario.
E così era arrivato in anticipo e si era seduto alla scrivania senza sapere che quella sarebbe stata una giornata speciale.
Il lavoro non era affatto semplice e certamente non era alla portata di tutti, però gli piaceva. Studiava l’insieme dei processi fisico-atomici attraverso i quali alcuni nuclei instabili decadono. In parole povere studiava il cosiddetto decadimento radioattivo, ovvero quel fenomeno che, con le giuste analisi, permette di rintracciare una particolare “impronta” nucleare.
Era quello il motivo per cui si trovava lì.
Il polonio in natura è un elemento molto raro. Si trova nei minerali dell’uranio in concentrazioni molto limitate. Talmente limitate che può essere estratto soltanto con potenti e costosi macchinari.
La sua missione, insieme ai servizi segreti, era trovare il polonio scomparso. Gli agenti operativi avevano attivato tutti i canali informativi disponibili, legali e non solo. Le squadre informatiche avevano sguinzagliato per la rete i cosiddetti spider per cercare flussi di dati compatibili e gli informatori erano stati allertati.
Ovviamente, Yuval Shalom non conosceva tutti i dettagli di un’operazione che coinvolgeva decine di uomini in tutto il globo. Non aveva neppure informazioni sullo smarrimento di una certa partita di polonio 210 estratta dall’IIBR qualche mese prima. Lui era soltanto un fisico, l’uomo che aveva a disposizione uno specifico e unico schema di decadimento radioattivo e che doveva confermare che fosse identico a un altro.
Appena il computer si fu collegato alla rete, avviò Thunderbird e cominciò a sfogliare le nuove email. Ce n’erano sedici, ma una soltanto attirò immediatamente la sua attenzione.
L’allegato era la parte che gli interessava di più. Lo lesse con molta attenzione.
Lo paragonò a un file che già aveva nel disco rigido e poi si alzò di scatto dalla sedia.
“Possibile?”.
Non perse tempo; cercò un numero di telefono e lo compose con un’ansia crescente.