Felicità
In "La Stampa", 9 dicembre 1933.
Nel luglio del '33 Brancati riceveva da Giuseppe Antonio Borgese una lettera in cui l'autore del Rubé, replicando all'invito rivoltogli dal più giovane scrittore di schierarsi col regime, dichiarava di non voler "perdere l'anima" compromettendosi col fascismo e ne denunciava anzi le persecuzioni. Confesserà Brancati ne I fascisti invecchiano (Milano, Longanesi, 1946): "La risposta mi giunse quando la mia ubbriachezza di stupidità era per dissiparsi, lasciandomi fra sofferenze e disordini morali talmente forti da non far capire che cosa andasse alla malora, se le mie larve o la mia gioventù o la mia vita stessa." Alla fine di quell'anno Brancati ha consumato dunque la sua crisi di valori politici ed è entrato in un vuoto ideologico che lo induce a respingere con sempre maggiore decisione le scelte della giovinezza, costringendolo ad una radicale revisione del suo mestiere di scrittore; l'attivismo, la morale eroica, l'ottimismo di regime gli appaiono consunti miti. Si fanno strada nella sua narrativa le costanti della malinconia, della precarietà, della gioia intesa come momento sfuggente di grazia, insidiata dalla tetraggine e semanticamente esprimibile attraverso la metafora della luminosità solare. La coppia oppositiva luce-tenebra diverrà dominante negli Anni perduti, ma già in questa novella si delinea come topos spirituale. Felicità si segnala inoltre per il suo notevole andamento stilistico, che non concede spazio all'artificio ma utilizza un lessico piano, semplice, altamente denotativo; e per l'attenzione alla costruzione sostenuta ed elegante del discorso: si consideri la disposizione melodica della frase trimembre con lo stilema degli aggettivi disposti a climax e la costante ripresa anaforica della congiunzione iniziale. Ripetizione e collegamento polisindetico contribuiscono all'analisi degli stati d'animo del protagonista, registrati in un crescendo di sensazioni accuratamente descritte nei singoli trapassi.