Una sera d'oscuramento

 

 

Intorno al 1935, una signora di Nataca, una vecchietta magra e di fini capelli color tabacco, mise in imbarazzo con le sue visite le famiglie più facoltose della città. Ella chiedeva di parlare con la madre, o col padre, o con la zia; e quando s'era seduta nel salotto, aggiustandosi a destra e a manca le pieghe della veste con colpetti della mano ossuta, alla porta del salotto, ch'era stata diligentemente richiusa, si precipitava ad incollare l'occhio la giovane figlia del padrone di casa. Attraverso il buco della serratura, ella vedeva la vecchia dama parlare e con mille moine di scimmietta, aprire in punta alle braccine strette nel crespo nero le grandi mani ossute che poi ella portava sulle guance e quindi sulle ginocchia e poi di nuovo nell'aria; infine la vedeva tacere con la testa piegata a sinistra e gli occhi levati pudicamente sul viso del proprio ospite.

A questo punto l'ospite cominciava a masticare con molta fatica dei no, dei dinieghi, dei sospiri. La vecchia si alzava compunta, col muso stretto, la borsa di cuoio contro il seno e a piccoli passi, curvandosi da tutti i lati come a rispondere a saluti che le facessero i lampadari, i ritratti di famiglia, gli arazzi e gli specchi, lasciava il salotto e la casa. Quando ella era uscita, il padre si allentava il colletto, apriva le braccia sbuffando e "Al diavolo!" diceva. "Che faccia tosta! Egli è che siamo diventati tutti vigliacchi, perché se no avrei dovuto buttarla dalle scale!"

"E' una donna!" osservava la moglie. "E poi, non ti ha mica offeso!"

"No, ma insomma..."

In quello stesso momento, il telefono squillava nell'interno di un altro palazzone di Nataca, e la vecchia dama annunziando la sua visita per il domani gettava nella costernazione un'altra famiglia gentilizia.

Perché? Qual era la ragione che le visite di questa piccola signora fossero così conturbanti? La ragione era la seguente: ella andava chiedendo da un mese, per conto del segretario federale di Nataca, la mano delle più ricche e nobili ragazze della contrada: ricche, nobili e anche belle, ma soprattutto ricche.

Questo segretario federale era un uomo di trentacinque anni, appartenente a una famiglia di persone rozze, grasse, con pupille turgide e inespressive. I fratelli, i genitori e gli zii avevano tutti dei nomignoli ricavati dagli animali a cui sfacciatamente somigliavano. Essi ignoravano questi nomignoli, una sola cosa sapendo e vedendo nel buio in cui per loro, era ravvolta la terra: che dovevano farsi avanti, che testardamente, cocciutamente, socchiudendo appena una palpebra alle bastonate che talvolta gli cascavano sulla testa, dovevano farsi avanti. Il primogenito, Enrico, a venticinque anni aveva chiesto la mano di tutte le ragazze ricche della sua città. I padri, gli zii, le madri gli avevano risposto in malo modo.

Egli non se ne diede per inteso: vendette un piccolo podere; si stabilì a Roma; s'infilò a forza nel giuoco di talune amicizie; fu servizievole, adulatore, fastidioso e utile; spinse per le salite le automobili di cui non si accendeva il motore; andò a riprendere a mezzanotte nelle case da tè la chiave di casa che il potente amico aveva dimenticato su un comodino; pianse la morte di sconosciuti insieme al ministro che li conosceva e amava; fu sincero nemico dei deboli che sinceramente odiò fino al punto di percuoterli; si mise con tanta abilità entro le fantasticherie comiche di segretari di partito e ministri che, finalmente, per ridere essi lo immaginarono segretario federale di una qualche città; egli portò le risate alle stelle recitando in una casa d'appuntamenti alcune scene della parte che gli assegnavano i suoi autori; e fra giuoco e imbroglio, una bella sera di novembre, fu veramente nominato segretario federale di Nataca.

In sette giorni, Enrico smontò la casa di Roma, imballò i mobili, ingrassò di sei chili, e parti per Nataca ove, agli amici e conoscenti che lo aspettavano sotto la pensilina della stazione, presentò dal finestrino un viso ampio, tetro, sordo ed esangue, intanto che il padre andava ripetendo a ciascuno dei presenti: "Oggi, mi creda, non ho potuto posare, con rispetto parlando, le natiche sulla sedia, tante le telefonate!" Tutti ruminavano nella mente il nomignolo di Enrico: "U Zuccu" (Il Ceppo) e avrebbero voluto ridere alle sue spalle, ma presto si accorsero che sul conto di questo nuovo Enrico c'era poco da ridere, che anzi egli era, per la mancanza totale di collera, passione, fantasia, ragione, un personaggio severissimo, e che la grassezza, di solito compagna della giovialità, vestita da lui incuteva paura come un costume da carnevale indossato in una circostanza terribile.

Subito egli si mise al lavoro. Trattò male gli amici per scoraggiarli dal prendersi confidenza e uccise nella loro memoria i giorni della prima giovinezza quando, fingendo di parlargli all'orecchio, gli facevano pipì sulle scarpe; scelse i suoi collaboratori tra gli oscuri e gl'intontiti, li fece salire ai più alti gradi, e quando li rese scintillanti di autorità agli occhi di tutti, cominciò a posare su di loro l'occhio di chi guarda pensando ad altro e non vede, accostò l'orecchio alle loro bocche mentre cantavano in coro gl'inni della rivoluzione, e borbottò: "Lei stona!" E se alcuno di loro, così punto, osò storcere il muso, lo ricacciò nella miseria e nella noia, lo mandò al confino, ne disperse la famiglia.

Un anno dopo, avendo egli, per primo in Sicilia, indossato gli stivali e la divisa del partito, i mondani, che sostavano davanti la dolceria principale, impararono a non ridere quando un uomo grasso scivolava per terra battendo il muso. Enrico, con quegli stivali luccicanti e come unti d'olio, prese a fare scivoloni solenni; ma ovunque egli cadde, nessuno rise, nemmeno i bambini. Proprio in questo periodo, egli incaricò la vecchia dama di chiedere per lui la mano delle più ricche ereditiere della città. Le famiglie, che, dieci anni avanti, avevano detto no in malo modo, furono costrette a inventare mille frasi per dire, nel modo più dolce, che la ragazza sarebbe stata felice di accettare una simile proposta, se non avesse avuto il cuore "già occupato da un sentimento" In quei giorni, si vide Enrico cambiare divisa ogni tre ore, e scivolare ogni momento rialzandosi sempre più buio in faccia. Tutti temevano un qualcosa di funesto dai pensieri di quella fronte su cui cadeva ora la nappa del fez ora la visiera del chepì. Le famiglie, che avevano detto no, vivevano nell'orgasmo; qualcuna si domandò se non fosse il caso di tornare su quel no e dire sì... quando, la notte del 3 maggio, durante un ballo sotto il cielo scoperto, una giovane ereditiera gli disse a voce alta: "Lo sa lei come viene chiamato in città?"

"No!" fece egli, guardando preoccupato il prefetto, il questore, gl'ispettori federali, le ispettrici, le signore che stavano ad ascoltare.

"U Zuccu!" fece la ragazza.

Tutti arrossirono di vergogna, tranne lui che divenne pallidissimo.

Da quella sera, la storia di Enrico cambiò. Una settimana dopo, facendosi in città le prove di difesa antiaerea, egli passò ferocissimo per vedere se i portoni fossero tutti aperti e i cittadini addossati al muro. Lo seguiva un luccicante corteo di gerarchi con faccia umile e servile. Ma non appena le lampade si spensero cento voci chiamarono: "Ohé, Zuccu!" e mille rumori volgari fecero eco nel buio. Pare che gli stessi gerarchi abbiano rumoreggiato con la bocca. Enrico mandò una staffetta presso la centrale elettrica perché subito si riaccendessero le lampade, la città tornò a sfolgorare, egli gettò intorno uno sguardo di fuoco, ma i volti dei gerarchi erano ridiventati umili e servili, e i cittadini addossati ai muri salutavano col braccio teso.

Senonché, non appena le lampade tornarono a spegnersi, di nuovo fu chiamato "Ohé, Zuccu!" e di nuovo mille rumori lacerarono l'aria. Egli rimandò la staffetta; ma subito ne mandò una seconda a richiamare la prima: aveva stabilito di profittare del buio per rincasare non visto. Sfortunatamente, nella fretta di rincasare, andava più che mai scivolando con un rombo di placche e medaglie che lo faceva riconoscere perfino dagli ubriachi. E per tutte le vie e vicoli che percorse, egli fu chiamato col nomignolo e salutato con rumori sempre più triviali, anche perché l'amara sorte gli fece sbagliare strada e lo ingolfò tra le taverne e le sale di biliardo.

Sogno di un valzer e altri racconti
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