Poche e molte parole
Il silenzio, in Sicilia, non è stato distribuito con equità. Ci sono uomini che parlano sempre, ed altri che tacciono sempre.
Di questi ultimi, era mio cugino Alberto. Lo zio e la zia avrebbero pagato chissà quale somma per sentirgli dire una parola, impacciati com'erano di versare il loro enorme affetto su un uomo che, senza dubbio, aveva una profonda vita interna, ma che dal di fuori sembrava fatto di stoffa e di gomma.
Alberto non si svegliava tardi, ma si alzava dal letto tardissimo, perché nessuno spettacolo piaceva ai suoi occhi come quello del buio fitto. Egli spingeva lo sguardo nella tenebra che gli stava davanti, ignorando se guardasse lontano o vicino, e rovesciava la bocca per toccare con l'interno delle labbra l'orlo del lenzuolo che gli copriva anche il naso. Così passavano due ore. Poi si alzava in pantofole, e permetteva l'ingresso nella camera di un piccolissimo raggio di sole. Aggirandosi nudo in questo barlume, cercava nei cassetti e negli armadi, rovesciava gli ingombri che stavano sulle poltrone, finché socchiudeva la porta e gridava: "Un paio di calze!" La sua voce giungeva molto gradita in cucina, dove la madre si asciugava lesta lesta le mani, e mormorava: "Alberto!" Nello stesso momento, il padre, dallo studio, gridava alla moglie: "Chiama Alberto!" La cameriera, posata la scopa, usciva dal corridoio dicendo: "Chiama il signorino Alberto!" La portinaia suonava il campanello dell'atrio per avvertire, con una mano attorno alla bocca: "Mi pare che chiami il signor Alberto!"
Tutti speravano che, quella mattina, Alberto avrebbe detto qualche parola in aggiunta alle solite; ma poco dopo, la speranza era svanita: Alberto prendeva in silenzio le calze dalle mani della madre e, masticando amaro, faceva capire che non gli piacevano. Se la madre domandava: "Ne vuoi un altro paio?" Il figlio dava una spallucciata e sporgeva strette le labbra.
A mezzogiorno, rincasando, Alberto non veniva subito a tavola, ma andava a sdraiarsi sul letto, con un piede sul pavimento e un giornale sportivo aperto dinnanzi agli occhi. Se qualcuno bussava alla porta, egli non rispondeva. Infine, bisognava entrare e domandargli con garbo: "Alberto, perché non rispondi?"
Allora, per non rispondere, Alberto andava a tavola e sedeva al suo posto, coprendosi col giornale rosso ove sembrava che guardasse senza leggere.
Di pomeriggio, chiedeva le scarpe, con la stessa voce con cui, al mattino, aveva chiesto le calze. Era il solo momento in cui la madre si augurava ch'egli non dicesse nulla, perché, se diceva sei parole, queste erano infallibilmente: "Che razza di vernice usate qui!"
Rincasava nel cuore della notte, quando tutti erano a letto. Se nel corridoio, appendendo il cappello all'attaccapanni, faceva cadere un ombrello, la madre dalla sua camera domandava: "Alberto?" E Alberto rispondeva con un rumore sordo della gola molto simile a un colpo di tosse.
Così, da ventisette anni, viveva nel più assoluto silenzio, quando s'innamorò.
Il segnale di quello strano avvenimento fu dato da una canzonetta, precisamente "Non partir!" che non abbandonò più le labbra di Alberto. La madre ascoltava stupefatta questo insolito e continuo suono che veniva dalle labbra del figlio. Pochi giorni dopo, una vecchia signora svelò il mistero: "Ah, questi ragazzi! Come fanno presto a perdere la testa! Io ho promesso di non parlare..." E disse il nome e il cognome di una ragazza, la dote, l'indirizzo e l'età.
Cominciò per Alberto una vita singolare. Si alzava alle otto e andava a rifugiarsi nello stanzino buio in cui era impiantato il telefono. Lo stanzino faceva parte di un corridoio, ma Alberto rimise nei cardini una vecchia porta a vetri, attraverso la quale chi passava per il corridoio lo vedeva curvo sul microfono e debolmente illuminato dal balcone che dava nel cortiletto. Parlava fino alle nove, poi si recava all'ufficio. Dopo il pranzo, tornava a chiudersi nello stanzino e ivi rimaneva a parlare dall'una alle quattro. La sera, spegneva la lampada centrale del corridoio e, confortato dal chiarore rosso di una lampadina di tre candele, sempre accesa davanti a una immagine sacra, parlava per altre due ore.
Calcolammo che questo giovane taciturno produceva continuamente parole per sei ore al giorno. Lo stupore crebbe col passare del tempo; egli sosteneva già da tre mesi una simile vita. In giugno, si combinò un lettuccio sul cassone che stava sotto il microfono, e, sdraiato su quello, con una tazza di caffè sopra una sedia accanto e la sigaretta in bocca, continuava a parlare sommessamente. Coloro che entravano nel corridoio vedevano per ore e ore la punta delle sue ginocchia mossa da un leggerissimo dondolio. Poi egli apriva la porta a vetri, e usciva insieme a una densa nuvola di fumo, con un aspetto di vecchio gatto bruciacchiato.
Una sera, mi avvicinai alla porta a vetro, e, nascosto nell'angolo più buio, drizzai l'orecchio verso il telefono. Alberto, sdraiato sul cassone, con le gambe ripiegate dinnanzi, teneva stretto il microfono fra l'orecchio e la spalla, e agitava continuamente le labbra. Egli parlava in un modo così sommesso, che neanche una sillaba raggiungeva il mio orecchio. Per un momento, dubitai che una di quelle strane manie, che sogliono impossessarsi dei vecchi, spingesse precocemente mio cugino ad agitare le labbra vicino ad un microfono senza parlare a nessuno.
Ma pochi giorni dopo, incontrai la fidanzata. Essa m'informò che Alberto le parlava al telefono per sei ore al giorno, e che vivevano felici di questa conversazione. La madre di Alberto, quando io le riferii queste parole, impallidì per una casta e profonda gelosia; e la sera, uscito il figlio dallo stanzino, andò ad immergersi in quella nuvola di fumo, come se ancora vi sentisse il calore delle parole.
Dopo un anno dal matrimonio, incontrai la moglie di Alberto e seppi ch'egli era tornato, nella nuova casa, al mutismo in cui era vissuto nella casa paterna. Confrontammo le poche parole, che egli diceva alla sposa, con quelle che aveva detto alla madre. Ed erano le stesse. Al mattino: "Un paio di calze!" Di pomeriggio: "Che razza di vernice usate qui!"