Ballo di Carnevale
Già alla porta del teatro, sono accaduti i primi incidenti. Il cronista del giornale locale ha la brutta abitudine di domandare ai signori in frac il nome della loro gentile signora. La cosa è andata liscia per qualche tempo; ma alla fine, un cavaliere basso, scuro in faccia e sudato già prima di iniziare il ballo, alla solita domanda del cronista s'è voltato come a una stoccata ricevuta in pieno fianco e ha gridato, alzando le mani:
"Domandi il mio, Lei! Domandi il mio! E lasci stare le signore!"
L'ingresso di alcune maschere ha interrotto felicemente questo dialogo pericoloso. Ma il cronista mondano ha ormai lasciato il suo posto, e per i palchi di primo e secondo ordine circola la voce che domani il giornale non porterà i nomi degli intervenuti. Le signore dicono a voce alta che la cosa le lascia perfettamente tranquille, anzi le rallegra, perché toglie l'unica nuvoletta di questa loro notte di carnevale; ma in realtà il pensiero del domani, col giornale a pie del letto, non è più seducente, e il loro nome, adesso che non andrà a finire nelle cronache mondane, ha un suono inutile e triste: Giovanna Roccaraso, Luisa Stefanini, Anna Percolla... Povero, modesto nome, che serve soltanto negli usi casalinghi, come una spazzola o un arnese da cucina!
Intanto, all'orchestra del palcoscenico succede l'orchestra della sala, e i balli si seguono l'un l'altro, senz'alcuna interruzione. Peccato che a dirigere le due orchestre sia stato chiamato un vecchio compositore locale, il quale ha messo nel programma tutte le arie di ballo che egli ha composto da quando aveva vent'anni. Gl'inediti del maestro riempiono la sala del teatro settecentesco; i balli sono molti, ma uno è lo stile, una l'ispirazione; quella folla variopinta, quella ruota di braccia e di teste, ignora di essere mossa dalle fatiche musicali di tutta una vita d'artista.
I discorsi che si fanno nei palchetti sono quelli che i palchetti hanno ascoltato ogni anno, nel veglione di carnevale. Se i tempi sono nuovi, e il mondo, come afferma l'architetto Leopoldi in maschera di paladino - e non di accademico, come sostengono i maligni che conoscono le sue segrete aspirazioni - e il mondo corre, se tutto è veramente cambiato, nel carnevale sembra che tutto si ritrovi e torni al punto di partenza.
Soltanto la signora Luigini scandalizza le amiche del palchetto accanto con le sue teorie sul modo di vivere. Ella sostiene di aver dato un'educazione energica anche alle spazzole; che suo marito, da che s'è sposato con lei, è un altro, è veramente un uomo; e che il piccolo figlio, Ninnì, che ha appena cinque anni, terrà fra poco in pugno una pistola e sarà addestrato al tiro. "Uccidi, se non vuoi essere ucciso!" afferma, questa volta sorridendo, la signora Luigini. In verità, ella non arriva agli estremi di quel suo paradosso, ma crede che la violenza ci salvi e protegga dai pericoli e ci faccia passare sulla vita come un aeroplano sopra una città in preda al terremoto.
Eccolo, sul palcoscenico, Ninnì, il minuscolo Ninnì, vestito da Napoleone, che balla impacciato dalla spada e dal cappello a tre pizzi. La signora lo indica col braccio teso, e le ragazze del palchetto accanto aggiustano i binocoli di madreperla per osservarlo. "E' un amore!" esclama una di esse. "Un vero amore!"
Sul palcoscenico, ballano i bambini. Le arie che il vecchio maestro ha loro destinate non sono meno inedite, meno tristi e pesanti di quelle che ha destinato ai grandi. Ai bambini come ai grandi, la musica parla di tutta una nobile vita d'artista che non è mai riuscita a creare nulla, nemmeno una discreta aria di ballo, e che tuttavia ha prodotto note su note ed è ora in grado di far muovere, con la sua numerosa nullità, la folla elegante di un'intera città, per un'intera notte di carnevale.
Damine veneziane, piccoli negri, indiani graziosi come pulcini, scimmiette che non vedono più dagli occhi, vecchietti che non hanno ancora appreso a camminare, fatine, paladini, farfalle, tutta una folla minuta che vorrebbe di tanto in tanto piangere, ma quando sta per togliersi la maschera viene di nuovo urtata dalla musica del vecchio maestro, risospinta a roteare e a ripetere meccanicamente i gesti che ha imparato, in un mese di esercizi, fra lo specchio e gli occhi della mamma. Ninnì, vestito da Napoleone, raccoglie sul cappello a tre pizzi gli urti di chi gli sta davanti, di chi gli sta dietro e di chi gli sta a destra. A ogni urto, il cappello cambia posizione e Ninnì non capisce più dove vada, donde sia partito e se il palchetto della mamma sia dal lato del cuore o da quello in cui è un vero sbaglio cercare, con la manina, il cuore. Sa che deve stare col capo dritto e d'ora in ora battere il calcagno; sa infine che, nelle pause, deve incrociare le braccia e guardare a destra e a manca, con cipiglio severo. Ma è stanco da morire e vorrebbe che qualcuno lo portasse a letto. In una pausa, esce dalla fila dei bambini, si fa sulla ribalta e chiede alla madre, con un gesto espressivo, se può buttare la spada giù in orchestra. Ma la signora Luigini, in piedi sul palchetto, gli fa cenni larghi e severi: no, con la spada perderebbe il decoro e tutto! no, bisogna conservare la spada!
Ninnì si passa una mano sugli occhi arrossati e preme con l'altra sull'elsa, in modo che la spada gli si mette fra le gambe come un cavalluccio. Intanto, l'orchestra ricomincia a suonare, le piccole coppie si dispongono in ruota, Ninnì tenta di aprirsi un passaggio e raggiungere la sua damina, ma la ruota fitta lo respinge e gli fa fare ogni volta due, tre passi indietro, verso la ribalta. Come una trottola, che urti contro una parete e allarghi via via il suo giro, Ninnì arriva sempre più vicino alla ribalta. La spada, non appena egli riceve l'urto, gli si pone in mezzo ai piedi e lo fa barcollare. Ninnì vorrebbe spezzarla, ma ha paura della mamma. Così armato, continua nei suoi tentativi, finché un grosso scimmione non gli dà una manata sul petto. Ninnì si piega indietro, si risolleva, si afferra alla spada, ma questa scivola giù come se avesse le ruote, ed egli la segue per tre o quattro passi. Ora, egli gira come un bicchiere su di un piano inclinato, gira e scende verso la ribalta in modo pauroso.
"No! no!" grida qualcuno.
Il vecchio professore d'orchestra lascia il podio per ricevere il bambino sulle braccia; ma Ninnì è andato a finire a destra, sicché, quando egli cade giù, trova soltanto un leggio che gli si conficca nell'occhio.
Grida e urla; il ballo dei grandi s'è arrestato, ma sul palcoscenico molte scimmiette e molti piccoli indiani continuano ancora a saltare, lieti che la calca si sia diradata. La signora Luigini è ancora mezza finita dallo spavento, e bacia e stringe e riscalda con la guancia Ninnì.
Il quale adesso non vuole lasciare la spada e non vuole nemmeno che gli sia tolto il cappello a tre pizzi. Denunzia però di avere la bua e un grande dolore.
La signora Luigini guarda esterrefatta quel volticino insanguinato, quel po’ d'occhi chiusi e di labbra stanche ch'è rimasto fra il cappello, il collare, le spalline e la sciabola, come un pulcino fra i denti della ruota che l'ha stritolato.