Senza divisa
Un giorno del 1942, a Catania, fu sguinzagliata la polizia per i viali del cimitero: si cercava una tomba, che, secondo la denuncia di una spia, portava questa lapide:
Carlo Marucchio
1866-1942
Nell'epoca delle divise
visse senza divise
La lapide essendo stata trovata dai questurini che non credevano ai loro occhi, subito fu arrestata una nipote del morto, la quale, a giustificazione della scrittura funeraria, presentò queste pagine di "diario"
Nel 1866, il conte Carlo Marucchio aveva sei mesi. Quando lo zio, barone Giovanni Marucchio, tenente di cavalleria, raccontò gli episodi di questa guerra, il contino dormiva con le gambe fasciate. Le parole: cannonate, cariche, assalto, bandiera, riempirono la sua culla, ma egli vi dormì nel mezzo serenamente. Lo zio, un po’ contrariato per il fatto che la scarsa età e il sonno gli toglievano un ascoltatore, toccò il nipote con un dito sulla pancia, ed esclamò: "Vedremo cosa farai tu!"
Purtroppo quel bambino di sei mesi aveva uno strano destino. Nel 1911, quando scoppiò la guerra d'Africa, il conte Carlo Marucchio, già canuto, si trovava in una landa desolata dell'America del nord, e apprendeva gli avvenimenti con un ritardo di sei mesi. Anche questa piccola guerra non riuscì a trovare il suo orecchio finché non appartenne al numero dei fatti compiuti.
Nel luglio del 1914, egli fu operato di appendicite. Una operazione da nulla. Tuttavia il chirurgo riuscì a complicarla dimenticando un po’ di bambagia nello stomaco del suo paziente. La febbre risalì la sera stessa dell'operazione, e il conte rimase per molti giorni fra la vita e la morte.
I parenti lasciavano nell'anticamera i giornali coi grossi titoli di scatola, in cui si annunziava l'ultimatum dell'Austria alla Serbia. Il Corriere della Sera, con le notizie sulla battaglia della Marna, fu steso sul ventre del conte per coprire una sorta di cataplasma fumante.
I parenti leggevano meccanicamente qualche parola o sillaba che pendeva fuori dell'involucro: Marn, battaglia, fr, ted; ma nessuno le pronunciava a voce alta, e del resto, se lo avessero fatto, l'ammalato delirante non avrebbe capito.
In settembre, il conte uscì fuori di pericolo, ma con una tale debolezza di nervi che tutti, nel parlargli, furono costretti a misurare le parole e a scegliere, fra le notizie, le più scialbe e comuni. Ciascuno aveva sulla lingua: "La guerra!" e nella mente: "Tu non sai nulla, e intanto c'è il finimondo!", ma nessuno si permise di pronunciare una sola sillaba di queste parole.
Presto fu necessario trasportare il conte sull'Etna, in una località deserta e priva di sentieri, detta il Pomiciaro, entro una casa che riceveva, ogni domenica, la visita di una mula con le provviste per la settimana.
Qualunque notizia, ormai, anche la più normale, metteva il conte in un orgasmo penoso. Bisognava che non fosse accaduto nulla, nulla nel senso più estremo, perché egli dormisse la notte. La migliore medicina era non dirgli nemmeno una parola e lasciarlo a letto, fra quattro pareti nude, a cercare invano un pretesto per essere inquieto.
Lo assisteva un estraneo, perché il conte non poteva reggere il peso degli affetti. Nella debolezza in cui era caduto, le emozioni che gli dava il solo ricordo dei parenti erano più grandi di quelle che darebbe a un uomo sano il rivedere la moglie creduta morta per dieci anni.
Il barone Rosario Marucchio (figlio di quel barone Giovanni, che aveva inutilmente raccontato, alla presenza del piccolo conte, gli episodi della guerra del '66) per visitare il cugino dovette lasciare la divisa di capitano, alla quale si era molto affezionato, e presentarsi nel più goffo degli abiti borghesi.
Il barone Rosario squadrò il conte, l'unico uomo del mondo, dopo i morti e i pazzi, che ignorasse la terribile guerra, che ormai volgeva al suo termine, e si sentì subito legato a lui da un'antipatia smisurata come il più ardente degli amori: un'antipatia anche sfortunata perché non era corrisposta. Gli veniva voglia di gridare in quell'orecchio di cera: "Imbecille! C'è la guerra! C'è la guerra, stupido! E se vuoi morire di emozione, crepa!" Ma si tenne. E ridiscese lentamente la montagna, sputando fiele sulle ginestre e i rovi.
Finalmente il conte guarì. Ma si era già nel '19. La guerra gli fu raccontata come un romanzo: naturalmente, prima gli fu detta la fine, e poi il principio.
"Adesso," gli ripeteva il cugino con odio, "valla a trovare un'altra guerra! L'hai perduta, mio caro! L'hai perduta! Sono grandi esperienze! Tutti c'eravamo, anche le donne e i bambini, e tu no!"
"Che ci posso fare?" mormorava il conte, con la sua debole voce.
Quando s'incontravano, il che accadeva spesso, perché l'antipatia genera anche il bisogno di vedersi, i due cugini parlavano sempre di guerra.
"E' stata terribile!" diceva il barone. "Non ce ne sarà mai un'altra simile!"
Il conte s'era guarito completamente, aveva acquistato una bella cera e una voce robusta, e per le strade si sentiva sempre qualcuno che mormorava alle sue spalle: "Ecco un uomo che dev'essere stato molto bello, vent'anni fa!" Amava i cibi forti, i vini forti, e le conversazioni rumorose. La natura gli dava tardi quello che gli aveva negato in gioventù. Avviandosi verso i settant'anni, egli minacciava di rimbambire più per un eccesso di forza che per debolezza di nervi. Anche nei giorni in cui non beveva, conservava nel viso l'espressione ilare dell'ubriaco, e diceva frasi volgari.
Nel 1938, queste frasi divennero così frequenti che non era esagerato domandarsi se non fosse del tutto rimbambito.
"Eccolo!" esclamò il cugino quando, nel 1939, dopo un anno di assenza, tornò da Bologna con la notizia della guerra di Polonia. "Eccolo! Non capisce più nulla. Eccolo, è rimbambito! Che gli dici di guerra e di Polonia? Se non sa nemmeno come si chiama?"
Il conte lo guardava con la solita espressione ilare che gli ingrandiva il bianco degli occhi. "Ehi?" faceva, "Ehi?"
"Sì, ehi! Come vuoi tu: ehi!" Qui il barone alzava la voce: "E' scoppiata la guerra!" La riabbassava sfiduciato. "E' meglio dirlo al muro!" Poi gridava come un ossesso: "C'è da impazzire, a pensarci! C'è da impazzire!"
Uscì sbattendo la porta, e la sera stessa ripartì per Bologna.
Oggi il vecchio conte è totalmente istupidito. Collocato, come un idolo, in una sedia alta e chiusa anche davanti, nei pomeriggi di estate viene portato al balcone, ove rimane ore intere a posare gli occhi sui passanti che non vede.
Il suo viso di legno tarlato sopporta il sole e il vento senza riscaldarsi né scomporsi minimamente. Quando, la notte, tre colpi di sirena fanno scendere dai piani elevati, con le pantofole o le scarpe male allacciate, centinaia di migliaia di persone, come le formiche che fanno ressa attorno a un buco per rintanarsi, il vecchio conte viene anche lui nel rifugio, domandando: "Che ora è? Usciamo? Che ora è?" Lo fanno sedere in un angolo, e gli stendono una coperta sulle ginocchia.
Egli non dice nulla, non scorge le persone lontane e vede confusamente le vicine, e quando uno scoppio fa tremare le viscere della terra, domanda: "Che ora è?" Sebbene parecchie persone, anche dei bambini dalla voce squillante e capaci di ripetere la stessa parola mille volte, si siano accanite a spiegargli che c'è la guerra, il conte non l'ha capito. Il cavallo della carrozza da nolo, che, abbandonato dal suo cocchiere, rimane in piazza durante le incursioni, ha della guerra un concetto più chiaro che non il conte Carlo Marucchio (settembre 1941)
Letto questo diario, i poliziotti si morsero le labbra. Ma la spia, che era fra di essi, si morse addirittura una mano. Nelle domande, con cui chiedeva un aumento di stipendio, egli soleva firmarsi: "Un combattente di tutte le guerre"