Studi per un romanzo (Rodolfo)

Presentazione di un personaggio

 

 

Tutti coloro che uscivano dalla stanza, in cui la signora Luisa Berrini Dentelli riprendeva lentamente i sensi, guardavano Rodolfo che, seduto presso una finestra, coi piedi sul muro e la testa rovesciata sulla spalliera, fissava gli occhi ora sul pavimento ora sulle nuvole che s'avvicinavano come lente vacche alla scalinata della chiesa madre. E tutti, anche i più semplici, anche la vecchia contadina Rosaria, che da dieci anni soleva arrossire allorché qualcuno le chiedeva l'età, guardavano Rodolfo con un'aria severa e ironica. Come per dire: "Quando c'è un ragazzo come te in casa, con quelle idee per il capo e quel maledetto sorriso appiccicato sempre alle labbra, i guai non si fanno aspettare. Guarda adesso tua madre, cosa le succede! Che fai tu? Vuoi continuare ad essere calmo e contento?" E sguardi cattivi si posavano rapidamente sulla faccia di Rodolfo, che, in realtà, nella sua calma aveva una semplicità tale da rendere inspiegabile tanta mal celata acredine contro di lui. Eppure questa acredine esisteva, e lo aveva seguito per tutta la vita. Egli, o ci fosse abituato, o non riuscisse a sentirla, rispondeva sempre con un giro d'occhi estremamente mansueto e dolce.

Rodolfo era nato il 4 novembre 1891 a Catania, da Luigi Berrini e da Luisa Dentelli. Egli era nato con una forte vocazione a credere, ad aver fede. Questa tendenza s'era manifestata in lui prima quasi della parola, allorché col ditino disegnava sulla parete della culla figure vaghe, indistinte, con cui subito troncava i suoi terrori, perché quelle figure, nella loro indecisione, erano piacevoli, incoraggianti, e via via col tempo si fecero anche potenti: erano le avversarie delle forme brutte e paurose, erano un primo accenno di Dio. Quest'ultima parola arrivò alle orecchie di Rodolfo, quando egli aveva quattro anni. Subito egli se ne impossessò con la trepidazione e la cautela del bambino che ha commesso un furto. Non la pronunziò mai apertamente, non la ripeté a voce alta, nemmeno quando altri gl'insegnava a pregare, ma la sua intimità cominciò subito a risuonare di questa parola, alla quale, verso i diciassette anni, se ne sostituì un'altra più confidenziale: il Padre.

Rodolfo era nato gracile, e si trascinò gracile fino all'adolescenza. Le notti dei suoi primi anni non furono mai liete: nei sogni, vedeva sempre poca luce e figure ributtanti. Il vento lo atterriva e, nelle giornate di marzo, si faceva di tutto in casa Berrini: si suonava, si cantava, si gridava, per non far udire l'urlo del vento al piccolo Rodolfo; la frutta della nuova stagione, che agli altri portava la salute, a lui bruciava lo stomaco; la primavera e l'autunno minacciavano ogni volta di farlo sparire per sempre. Egli ricordava ancora i pomeriggi di settembre, interminabili e plumbei; talora strisciava, come un piccolo cane, fuori del circolo che facevano la mamma, lo zio e le amiche, e andava a rifugiarsi dietro un armadio nero per soffrire, in silenzio e non visto, i crampi dello stomaco.

Rodolfo aveva vergogna del male fisico e non confessava mai di avere la febbre: anzi, quando si sentiva accaldato, evitava i parenti e si bagnava il viso con l'acqua fredda. Naturalmente, la febbre aumentava subito ed egli era costretto a sedere con gli occhi così intirizziti da non poterli né volgere né sollevare; cercava di darsi un contegno e richiamava alla memoria i suoi gesti di quando stava bene, per poterli imitare; ma non era passato un minuto che egli vedeva una mano lunga, lugubre, come di uno che volesse raccattarlo e, via, buttarlo in un cesto, lentamente avvicinarsi alla sua fronte. Rodolfo non avrebbe mai dimenticato la sensazione di freddo, che gli dava la palma, e il tremito che lo colpiva alle ginocchia. "Hai la febbre!" mormorava una voce. Ma egli non voleva avere la febbre, non voleva morire, e voleva presto guarire. Dio lo avrebbe aiutato: Dio era suo amico, lo amava, gli carezzava i capelli la mattina per svegliarlo dai brutti sogni; Dio non poteva lasciarlo sotto le coltri.

E infatti egli guariva. Tutti i ritorni alla salute avevano, per il piccolo Rodolfo, le complicazioni spirituali di chi ha subito un miracolo.

La morte del padre, nel 1898, e quella dell'unico fratello, Giovanni, nel 1895, per il modo con cui avvennero, repentino e quasi irreale, furono per Rodolfo come i colpi di fucile sparati da vicino su un vetro: che fanno un buco rotondo, perfetto, nel punto preciso dove son passati, e lasciano intatto il resto del vetro. Furono dei dolori profondi, ma limitati. Rodolfo continuò a vivere e a crescere, con la madre, la signora Luisa Berrini Dentelli (donna semplice e buona che, dal 1890, soleva ripetere continuamente che il Novecento non era un secolo per donne piccole e deboli, e ch'ella sarebbe morta al più tardi la notte del 31 dicembre 1899) e col fratello di lei, Giacomo Dentelli. La famiglia viveva di minuscole rendite e del guadagno che lo zio Giacomo ricavava dalla mediazione fra una grande Casa di tessuti e i piccoli negozianti della provincia. La sua intimità disponeva comunque di due case, acquistate, l'una, quella di Zafferana Etnea, dal padre, e l'altra, quella di Catania, dallo zio Giacomo. La casa di Zafferana era circondata da un vigneto che dava il vino per tutto l'anno e una modesta rendita; la casa di Catania, l'unica di una stradetta che era nata a fianco di una grande piazza, fu sempre danneggiata dalla sua solitudine: essa vide presto i due fanali a gas della sua stradetta spezzarsi e non venir più rinnovati, e attese invano che dalle palizzate, erette al suo fianco, uscissero altre palazzine.

Rodolfo, dalla sua cameretta, vedeva delle finestre lontane a cui si affacciavano testine tanto minuscole da sfuggire a qualsiasi affezione e abitudine di vederle. Egli aveva tredici anni, e non era portato all'amore. Il suo cuore continuava a battere per febbri violente e a languire durante le convalescenze. A quattordici anni, però, le malattie si fecero più rare. A quindici, Rodolfo si diede tutto alla vita fisica. La sua camera si riempì di anelli e di sbarre fisse; un punch-ball venne fissato tra una libreria e il letto: ogni pugno faceva cadere dei libri e minacciava di tirar giù la volta; lo zio protestava, la madre gridava che i pugni ammazzano chi li dà; ma Rodolfo non diede ascolto, e fu presto un magnifico ragazzo, alto, largo di spalle, con due avambraccia che parevano aste di carri. Una peluria fitta gl'inondò il corpo come una vegetazione di primavera; la sua faccia acquistò una bellezza straordinaria, per la robustezza del mento e del collo, e per l'espressione di gracilità che aveva conservato in fondo agli occhi e in una parte misteriosa delle guance, come un'ombra di malinconia e di tenerezza.

A diciassette anni, il suo aspetto era oltremodo florido: i compagni, nel collegio di Acireale, gli sollevavano, con quell'affetto e ammirazione particolari che si hanno, non per una persona, ma per le varie parti del suo corpo, le grosse mani e le facevano ricadere come delle pietre legate a una corda. Egli lasciava fare, e sorrideva. Ma in realtà, se i suoi muscoli e le sue ossa erano sviluppati, la sua sensibilità era rimasta quella di un tempo. Egli aveva ancora bisogno di ripetere furiosamente che la vita è bella, e i suoi colloqui col Padre erano così frequenti da non distinguersi più dal fatto, continuo e normale, che egli viveva. Rodolfo, per esempio, guardando la luna, provava un'impressione che, tradotta in parole, avrebbe suonato così: "La tua luna è graziosa, sai?" E ascoltando l'urlo del vento, un'impressione che avrebbe suonato in quest'altro modo: "Vuoi farmi paura, ma lo so che mi vuoi bene!" La sua vita interiore aveva, in quel periodo, la forma di un bisbiglio commosso, continuo, in cui la parola Padre e l'accento d'invocazione: "O mio piccolo fiore... o mio povero piede..." tornavano ogni momento.

Che religione era la sua? Egli non se l'era mai domandato. Non per paura o per pigrizia, ma perché reputava affatto inutile una domanda di questo genere.

Egli credeva, e questo per lui era tutto. Egli cercava con tutte le forze la felicità, e questo per lui era bene. Egli aveva ripugnanza per gli increduli, e questo per lui era santo.

Gli sfuggivano qualche volta dei segni di croce, e dinnanzi a un altare, una volta, s'era perfino inginocchiato. Ma erano segni che non si riferivano a nulla di preciso e si perdevano nella grandezza della sua fede, come i richiami che gli uccelli lanciano al mattino, solo perché intorno ad essi c'è molta luce.

Verso i vent'anni, la ripugnanza per gl'increduli suscitò in lui una singolare energia polemica; egli stava per inacidirsi e guastarsi. Ma questo pericolo fu di breve durata: il suo carattere ebbe presto il sopravvento; il furore, ereditato dalla fanciullezza piena di malattie, col quale soleva ripetere che la vita è bella, si calmò a poco a poco; e tutto prese in lui un'aria infinitamente semplice e quieta. Con questo, egli non evitò di suscitare un certo fastidio e quasi un allarme in coloro che gli stavano vicino; il sorriso, con cui assisteva o partecipava ad avvenimenti poco lieti, uno strano sorriso, come di chi, in un duello mortale, sia il solo a conoscere che le pistole sono scariche, irritava, chi più chi meno, tutti quanti. Egli non reagiva mai e si abbandonava alle mani vendicative degli altri, rimanendo a un tempo pieghevole e invulnerabile, come un fantoccio di gomma fra le zampe di un leone. Gli altri si stancavano presto e, non essendo possibile rompere i rapporti con lui, si rassegnavano ad amarlo. A poco a poco, trovavano in quell'amore una certa letizia; però non cessavano di sottoporre Rodolfo alle più dure prove; perché, dinnanzi a una fede così ingenua e infantile, ciascuno sentiva rimescolarsi, nella propria persona, qualcosa del diavolo tentatore.

Quando l'Italia entrò in guerra, Rodolfo aveva ventiquattro anni. La sua classe fu subito chiamata alle armi. La vigilia della partenza, egli sedette, in maniche di camicia, al balcone della sua cameretta e, come tutte le sere, si mise a fumare, col mento poggiato sulla ringhiera e le braccia penzolanti sulla strada. Di tanto in tanto, poggiava sulla ringhiera la guancia e guardava il fumo della sigaretta salire verso la luna. Fuori delle impalcature, che fiancheggiavano la stradetta, era finalmente uscita una palazzina con poche finestre e due terrazze. Da una delle finestre, illuminata di luce blu, una ragazza mandava da qualche mese il suono dei suoi primi esercizi di pianoforte: erano tocchi pesanti, staccati, che alludevano a un'aria di valtzer e, prendendo la foga al principio del ritornello, si fermavano bruscamente e finivano nel confuso balbettio di chi ha sbagliato e cerca di riparare fuori tempo. Rodolfo si era abituato a quei tocchi aspri e a quello sbaglio, e li ascoltò anche quella sera con un vago compiacimento. Lontano, si profilava la piazza Esposizione, grande come un porto, senza negozi, senza vetture, deserta; e più lontano le case nere, smorte, regolari che attendevano, come spugne asciutte, lo scirocco della lunghissima estate. Il mare brillava ancora più lontano, al di là dei camini e dei fari, al di là delle lanterne rosse di cui brulicava la linea ferrata. Dall'altra parte, il cielo, rotondo e blu, veniva interrotto da un fantasma sconfinato, più blu dello stesso cielo e più profondo: l'Etna, sulla cima del quale talvolta si accendeva una fiamma color d'arancio, vaga, lenta, dolce, come il riflesso di un lampo estivo. Un grande benessere penetrava, come ogni sera, nelle vene di Rodolfo. Se egli pensava che una pallottola potesse spezzare la sua vita, la cosa gli appariva facile e chiara; ma se egli pensava che la stessa pallottola dovesse interrompere quel profondo, largo, duraturo, benessere che aveva nel sangue, la cosa gli sembrava sciocca e puerile. Dietro di lui, nella stanza buia, egli sentiva la madre che, non sapendo cosa fare, spostava le sedie, i ninnoli, gli abiti, e li rimetteva allo stesso posto. Da due giorni ella ripeteva piangendo: "Lo sapevo! Lo sapevo! Questo secolo non avrebbe portato nulla di buono! Tre volte, mi è caduto di mano l'olio, l'ultima notte del '99!" Poi, avendo appreso che i generali non corrono in guerra molti pericoli, chiamò in disparte il fratello e gli domandò in qual modo potesse far nominare Rodolfo generale. Il fratello uscì dalla stanza, sbattendo la porta. Giacomo Dentelli era un uomo collerico, capace di trasformare qualsiasi dolore in irritazione, e questa irritazione in uno sfogo clamoroso che lo lasciava del tutto libero e tranquillo. Attraverso queste trasformazioni, molti dolori erano fuggiti dalla sua anima, lasciandolo mezzo addormentato e vicino a russare, in fondo a una poltrona. Anche ora egli cercava "un responsabile", e questo responsabile, cosa molto strana lo aveva trovato in Rodolfo. Era costui, in fondo, che si attirava ogni guaio, con la sua aria di "sonnambulo contento": adesso, per esempio, che era lì lì per mettere il piede nell'inferno, cosa faceva? Calmo, bello e stupido come un cigno, sedeva al balcone e guardava la luna. Durante la giornata, parlando a quattr'occhi col nipote, lo zio aveva fatto cadere parecchie volte il discorso sulla guerra, sulle trincee, sulle granate, non per mettergli paura, è inutile dirlo, ma per strappargli dal viso quell'aria così placida e disattenta che, fra l'altro, era di pessimo augurio. Rodolfo aveva cercato, anche quel giorno, di far piacere allo zio, mostrandosi d'accordo con lui su tutto, ma in questo modo aveva preso un'espressione ancora più sorridente e fastidiosa. Adesso s'era tolto d'imbarazzo, rifugiandosi nel balcone ove, le sere precedenti, nessuno lo aveva mai raggiunto. Ma quella sera, sentì la piccola tosse dello zio e, alla fine, alcune parole: "Importante è non morire! Almeno questo: non morire!" Lo zio calcava la voce sulla parola morire. Rodolfo, con la guancia sulla ringhiera, fissava un quadrato di luce lunare, che stava nel mezzo della strada, fra l'ombra di una palizzata e quella di una casa; e la luce era così fitta, chiara e pronta a rinnovarsi per migliaia d'anni, che Rodolfo si sentì in diritto di porgervi un'allusione precisa al suo avvenire, come un allegro mendicante che, vedendo molti frutti nei giardini degli altri, pensa che per quell'inverno, nemmeno lui morirà di fame. Presto egli si addormentò, con la guancia sulla ringhiera, e lo zio, che se ne accorse, tornò indietro allibito. "Quel ragazzo," disse alla sorella che s'aspettava dal colloquio chissà quali decisioni. "Quel ragazzo, io non lo capisco!" E fra i denti: "Si farà ammazzare!"

Rodolfo non si fece ammazzare. Passò un anno in una trincea del Trentino, sparando qualche fucilata sui tronchi degli alberi e ascoltando il grammofono rauco di una trincea austriaca. Quel grammofono riempiva la notte dei suoi: trau... traullein!

E Rodolfo, avvolto in un sacco di pelo, pensava di non aver mai avuto una signora per amante e di non aver mai baciato la bocca di una ragazza. "Perché?" si domandava. Egli non era puro, aveva commesso da molto tempo il primo peccato ed era perfino sensuale. Ma nella donna, che non fosse pubblica, aveva sempre temuto qualcosa di esagerato e pericoloso: ella chiedeva troppo tempo della vita per lei: due anni, tre anni, vent'anni, in cui Rodolfo avrebbe dovuto rinunziare ai piaceri della fede, a quel profondo gusto di credere con tutto il proprio intimo libero da legami e da pensieri dominanti. Forse questa era la ragione, o forse la pigrizia, o forse la timidezza. Le nuvole dell'autunno, gettando rapide ombre sui monti del Trentino, consigliavano qualcosa di vago che metteva nei nervi di Rodolfo un'inquietudine e un'eccitazione com'egli non le aveva mai provate. Nel "sedici", fu mandato in pianura e vide i primi morti. Quella vista, da principio, lo atterrì, egli stava per perder la calma; ma poi la paura di perdere la calma divenne così grande da schiacciare tutte le altre.

Nulla era importante, né la vita, né la giovinezza, né la vista degli occhi, ma quella calma sì, quella fiducia sì.

Dopo un bombardamento di tre giorni, divenne anche loquace e confidò a un tenente piemontese quanto fosse contento di non aver perduto la fede in mezzo a quell'inferno. Con parole confuse e incerte, e un timbro di voce singolarmente acuto, come di chi ha bevuto parecchio o è scampato a un inseguimento, riuscì a far capire all'amico ch'egli resisteva così bene perché si sentiva, in una maniera intima e profonda, "amato da Dio": il solo fatto di esser nato, di avere una volta, per circostanze misteriose, aperto gli occhi, gli dava dei diritti; egli apparteneva alla schiera privilegiata di coloro che sono nati. "Esser nato, è una cosa molto, molto importante!" L'amico non rispose nulla; ma la sera, ritornando insieme a Rodolfo verso le retrovie, scostò col piede un cadavere e mostrò la sua guancia fangosa:

"Questo," disse, "non era amato da Dio?"

Rodolfo alzò bruscamente gli occhi e, guardando il cielo che non era meno puro e infantile delle sere in cui si balla all'aperto, o nasce un bambino, disse:

"Anche lui, certo!"

"Ma mi pare che sia morto!"

"Non significa nulla, non significa nulla! Andiamo!"

In quei momenti, le labbra gli tremavano, egli arrossiva fino ai capelli e doveva nascondere le mani perché gli erano diventate magre come quelle di una vecchia. Ma fu un disordine che durò pochi minuti; egli si riebbe presto e tornò a sorridere: negli occhi chiusi, nella guancia fangosa di quel cadavere, aveva percepito la solita allusione misteriosa e amichevole, come quando, in calce a una lettera piena di tristi notizie, si trova un piccolo impercettibile segno d'intesa, una virgola più lunga del solito, una macchiolina, dalla quale uno solo capisce che la lettera non dice la verità. In ogni modo egli si pentì di essere stato così loquace sull'argomento della sua fede, cosa del resto che non gli era mai accaduta e che forse doveva attribuirsi a un'esaltazione nervosa prodotta dal bombardamento. Strinse le labbra, e non disse più nulla, nemmeno quando lo interrogavano. Questo silenzio e una settimana di riposo a Udine lo rimisero nelle condizioni di una volta.

Nel '17 Rodolfo tornò sul Trentino, ove si distinse per aver tenuto testa, insieme a quindici soldati, a un intiero battaglione austriaco che forzava un passo fra due colli; e nel '18 fu trasferito in un paesetto della costa adriatica, ove dormì i suoi sonni migliori.

Finita la guerra, tornò in famiglia. Le novità che vi apprese non erano perfettamente felici: lo zio aveva venduto la vigna di Zafferana e conservato solo la casa, dalla quale, affacciandosi al balcone, vedeva le sue vecchie terre in mano ad altri; le ditte più importanti gli avevano tolto la rappresentanza perché lo giudicavano troppo vecchio per un incarico così faticoso; la rendita, che un giorno era quasi invidiabile, ora bastava appena per i vestiti e le scarpe dell'annata. Giacomo Dentelli s'era dato ai proverbi, al pessimismo e alle abitudini meccaniche. Alzando la mano, diceva:

"Non bisogna credere nulla, nemmeno che queste sono cinque dita!"

In simili condizioni, l'immagine di quel nipote lontano, che mandava delle lettere tranquille, gli era diventata insopportabile e affascinante, come per uno che abbia chiuso i vetri e gli scuri e spento tutte le lampade e si accinga a dormire, un fulgore mobile e bianco che non si sa donde venga e in che modo spegnere. Lesse dei libri sulla guerra, i primi tetri romanzi, e conobbe con piacere quelle figure di soldati che avevano sofferto molto e perduto ogni gentilezza. Cominciò ad aspettare il ritorno di un Rodolfo annoiato e stanco che, non appena arrivato, chiedesse dell'acqua e, dopo aver bagnato le labbra screpolate, dicesse amaramente:

"Tutto fa schifo, zio! Stasera usciremo insieme e parleremo di questo!"

Naturalmente, le speranze di Giacomo Dentelli andarono deluse: egli vide entrare un Rodolfo stanco, polveroso, pieno di sonno, ma tranquillo e sorridente come una volta. E allora pensò di non aver fatto male a riempirgli lo studio di libri "seri", annotati con degli esclamativi e segnati con l'unghia nei punti più dolorosi o cinici.

Rodolfo entrò nella sua camera, insieme alla madre che non gli lasciava la mano e non pronunziava una parola.

"Mamma, parla!" disse egli non appena l'ebbe dinanzi sola e freddolosa, e poté volgerle la faccia, ora a destra ora a manca, con la mano ruvida.

La madre scoppiò in singhiozzi, e Rodolfo mandò un sospiro di sollievo. Si sdraiò sul letto; la madre, più calma, gli rincalzò le coperte e, dopo averlo baciato sulla fronte, uscì in punta di piedi come se egli già dormisse.

Rodolfo, invece, tenne gli occhi aperti nell'ombra, per quasi due ore. S'industriò a decifrare il silenzio della casa e le grida incomprensibili dei venditori ambulanti. L'indomani, alla stessa ora, sdraiato sullo stesso letto, e sul punto di confessare che non riusciva più a prender sonno, udì quel suono di pianoforte che, prima della guerra, aveva ascoltato puntualmente ogni pomeriggio e ogni sera, per alcune stagioni. La pianista non aveva fatto un passo avanti; erano sempre quei tocchi pesanti, staccati, che alludevano a un'aria di valtzer e, prendendo la foga al principio del ritornello, finivano nel confuso balbettio di chi ha sbagliato e cerca di riparare fuori tempo. Quattro anni erano passati! Un nulla in realtà, come dicevano le dita di quella ragazza. Sulla lampada del capezzale, c'era ancora accartocciato, in servizio di ventola, un vecchio giornale del '14: non si poteva dirlo sciupato; nel titolo, che nereggiava più grande e si perdeva in una piega, spiccava ancora una parola: marzo.

Gli uomini facevano un grande schiamazzo per dire che il mondo era del tutto cambiato: essi non volevano ammettere che tante fatiche, tanti dolori e cinque milioni di morti fossero appena visibili, nell'aspetto totale della terra, come cinque minuti d'insonnia nel viso di una ragazza.

"Tuttavia si può ammetterlo," pensava Rodolfo. "Che c'è di male? La nostra anima è come un mare, e cinque anni di guerra, può inghiottirli tranquillamente."

Non sospettando per nulla che tutto questo potesse accadere a lui solo, e a pochi altri come lui, si sentì felice, e si addormentò.

Ma lo zio non era disposto a lasciarlo dormire serenamente per molti giorni. Malgrado la sua debole vista, era riuscito a scovare sul cranio del nipote una diecina di capelli bianchi.

"La guerra ti ha invecchiato!" gli diceva. "Eh, lo capisco!... Voi durerete meno di noi. D'altronde, non sei più un ragazzo."

E ora mostrandogli la madre che lavorava in cucina senza l'aiuto di altre donne, ora dicendogli che anche la casa di Zafferana avrebbe seguito la sorte delle terre, e che non era possibile continuare a quel modo, e che a ventotto anni, in altri tempi, un uomo avrebbe saputo accollarsi il peso di un'intera famiglia, che intanto era molto difficile trovare un impiego con una "laurea di guerra" come quella che Rodolfo aveva ottenuto in Giurisprudenza, e tossendo e sbuffando e sbattendo le porte, era riuscito a mettere nel nipote un disagio di animale che ha avuto inondata la tana.

Giacomo Dentelli avrebbe volentieri procurato da vivere a Rodolfo per molto tempo ancora, se in costui avesse trovato un compagno di conversazione, un giovane che annuisse alle sue idee sulla vita e sui tempi, il che sarebbe stato come, per un violinista, trovare un amico che lo accompagnasse al piano. Ma lavorare per un nipote silenzioso, fastidioso e sorridente, era più forte della pazienza e dell'affetto di Giacomo Dentelli.

Così nel marzo del 1919 (epoca in cui s'inizia il nostro racconto), fu deciso di mandare Rodolfo a Roma, presso la famiglia del professor Guglielmo Parini, la cui moglie, Silvia Dentelli, era cugina di Giacomo e di Luisa.

Rodolfo sosteneva ch'era molto facile trovare un posto remunerato, e che gli uomini non sono poi così fitti da coprire tutta la terra e non lasciare un angoletto al sole, per lui. Lo zio gli aveva dato dell'imbecille ("Vi vedremo alla prova, uomo forte, uomo sicuro, uomo ridicolo!"); la signora Luisa, durante una di queste liti, aveva perduto i sensi ed era rimasta soggetta a degli strani deliqui che la colpivano d'un tratto e la lasciavano con una vista debolissima attraverso la quale tutte le persone, anche il fratello, le somigliavano a Rodolfo.

Anche quella domenica di marzo, vigilia della partenza di Rodolfo per Roma, la signora aveva patito una crisi, ma era riuscita, mercé le finestre spalancate sull'aria molto fine della montagna e il desiderio di non perdere nell'incoscienza quelle ultime ore di Rodolfo presso di lei, a superarla più facilmente che le altre volte.

 

Sogno di un valzer e altri racconti
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