Il duello
Tutta Catania parlò di questo duello, e Tobaico gettava sguardi ansiosi ai vetri del palazzo Chiarella per indovinare se uno di quei veli, che talvolta li appannavano, fosse dovuto a un fiato che aveva pronunziato il nome di lui.
I lettori diranno: "Ma non aveva paura della morte?"
No, non ne aveva... O meglio: ne avrebbe avuta una da seccargli il sangue, se avesse pensato alla morte, ma la sua totale mancanza d'odio nei riguardi dell'avversario gli faceva vedere il duello sotto una luce assai mite. Infatti la cosa che lo preoccupò maggiormente, nell'imparare il modo di mettersi in guardia, fu il saluto all'avversario.
"Non vorrei," diceva sempre, "che fatto in questa maniera, il tenente se l'abbia a male!"
"E allora fa così!" correggeva Enrico Guzzardi, brandendo un fioretto.
"Così può sembrare che io saluti con maggiore cortesia i padrini invece che il mio avversario!"
"Fa così allora!"
"Così non mi pare nemmeno tanto bello perché io faccio fischiare la lama come a dire: col solo vento della mia spada, ti getto per terra, cosa che è le mille miglia lontana dai miei propositi, e che, d'altra parte, non sarei in grado di fare!"
"Io non so più che diamine consigliarti!"
"Non potrei stringergli la mano?"
"Andiamo, mano! Che mano!" smaniava il Pizzaro, che sedeva tutto gonfio d'ira e di sciarpe, in un angolo della sala. "Dove andiamo a finire? Così la gente ci caca sulla faccia?"
Il Pizzaro non vedeva di buon occhio il duello, lo reputava un gioco da bambini, e voleva che almeno Tobaico imparasse a saltare sull'avversario per dargli un morso nella gola.
"Signor Pizzaro, Lei scherza!" faceva Tobaico, che stimava ogni giorno di più il suo nemico. "Non è un duello rusticano, il nostro, e il tenente è un gentiluomo squisito che, ho saputo da altri, non fa che parlar bene di me!"
"Sarà che il tenente parla bene di te, io le cose, se non le sento con le mie orecchie, non ci credo!" gli disse un giorno Enrico.
"Ma i suoi padrini si sono incaponiti che il duello dobbiamo farlo seriamente..."
"Certo, seriamente!" interruppe il Pizzaro. "Non dobbiamo farci il solletico con le sciabole, ma lasciarci dei buoni segnali nella faccia!"
"Lei ce l'ha sempre con la faccia!" disse Tobaico molto seccato. "Lasci stare! Ma in fine," domandò a Guzzardi, "come si batte, questo tenente?"
"Pare che sia abilissimo nella botta dritta alla figura!"
"Che vuol dire, alla figura?"
"Alla faccia!" spiegò il Pizzaro.
"E dagli!" brontolò Tobaico. "Lei è noioso davvero!"
Da quel momento, a dir la verità, il pensiero, non diremo della morte, ma del sangue, appannò gli occhi di Tobaico, e una sera, in un vicolo semibuio, urtato che ebbe con la testa in un capretto appeso a un gancio e stillante sangue, dovette appoggiarsi a Enrico per non svenire. Per colmo di misura, un pittore, al quale certo prudevano le corna, non sapendo che fare, mise su una mostra di quadri, uno dei quali, alto due metri, raffigurava il tenente Gorgone bellissimo, fortissimo, accigliato da un colpo di luce che pareva un riverbero di collera. Questo ritratto, esposto in modo che fosse visibile ai passanti di via Etnea, specialmente di prima sera, quando la bottega era illuminata come un presepe, portò la trepidazione di Tobaico a tal punto che il Pizzaro andava mormorando nelle bettole: "Quel ragazzo mi farà cascare la faccia a terra."
Ma il giorno del duello, cento fortune impensate aiutarono Tobaico. La prima fu che la giornata era mirabile, e la campagna, destinata allo scontro, tutta sparsa di meli e mandorli fioriti, di margherite, cardi, erba medica, e di papaveri che, agitati all'interno dai calabroni, si muovevano in qua e in là come se parlassero, suscitò una grande allegria nei padrini che non si sapeva più se fossero venuti per un duello o per un matrimonio. Gli occhi di quegli uomini barbuti e vestiti di nero scintillarono gaiamente, e il direttore dello scontro nascose il bastone del povero medico che non ci vedeva a un palmo dal naso e salutava gli alberi come se fossero persone. Lo stesso Pizzaro, che in un primo momento era "male intenzionato", gli venne poi un tale appetito che si fregava le mani e diceva continuamente: "Spicciamoci, via, e andiamo a mangiare la ricotta!"
D'altro canto, era accaduto questo: il tenente Gorgone si sentiva, quella mattina, "peggio della merda" Come mai? Le ragioni sono difficili a dirsi, ma noi le diremo lo stesso. Quel giovane elegantissimo e bellissimo, amato dalle migliori ragazze dell'aristocrazia catanese, e innamorato a sua volta nel modo più fine di una signora svizzera, era spinto, da qualcosa di nero e unto che gli stava appiattato nei sensi come una blatta, a provare capogiri di voluttà per le donne vecchie, grasse e sudice. Egli si era sempre vergognato di questa tetra inclinazione che, manifestatasi una sola volta nell'adolescenza, gli era poi rimasta latente e gli riempiva i sogni di cenci; comunque l'aveva sempre repressa. Ma la vigilia del duello, fosse la collera, o l'emozione, o il malumore, rimasto in casa... Andiamo! Che malinconia! Ci ripugna ammettere nel nostro racconto una vecchia portinaia, una vera balla di carne e stracci, che scende mezz'ora dopo, per le scale del tenente, facendosi più volte la croce con la mano destra, ma ripetendo fra sé allibita: "Una si fa la croce con la mano manca!"
Agli occhi di Tobaico si presentò in tal modo come avversario un uomo che desiderava ardentemente il male di una sola persona al mondo: se stesso. Tanto era il disprezzo che il tenente aveva per sé che quando i padrini, un attimo dopo aver comandato l'"a voi!", gli proposero di conciliarsi con Tobaico, egli arrossì di gratitudine al pensiero che un altro uomo consentisse a stringergli la mano. Quella stretta fu seguita da molte altre; ad esse si aggiunsero i complimenti e le dichiarazioni di simpatia, e tutto finì sotto lo sguardo di un vecchio pappagallo, che assisteva da settant'anni ai pranzi dell'osteria intesa "La lorda", gracchiando un insulto che tutti gli perdonavano perché pare che l'avesse detto anche a Garibaldi. Tobaico, i padrini, i medici e il Pizzaro, che (sia detto di passata), brillo com'era, voleva tagliare il collo al pappagallo, "Perché," diceva, "a me cornuto non me l'ha detto nessuno! Garibaldi era padronissimo di farselo dire, vuol dire che a lui gli piaceva, ma a me no!", banchettarono per quattro ore, riempiendo il pavimento di ossi, lische, resti che i cani non mangiavano più, tanto erano sazi: il tenente invece preferì bere, divenne loquace, parlò con tanto garbo dei suoi pomeriggi di bambino, trascorsi insieme alle sorelle, di cui mostrò le fotografie, che Tobaico, anche lui un po’ brillo, si mise a piangere.
"Perché piangete?" gli disse il tenente in un orecchio.
"Penso che... che... che."
"Dite, per favore!"
"E se, Dio liberi, Le avessi fatto del male con la sciabola?"
Il tenente gli gettò le braccia al collo, e tutti applaudirono alzandosi rumorosamente da tavola e cercando i cappelli e i bastoni, perché ritenevano che il pranzo non potesse concludersi con una cerimonia o un brindisi che andasse più a proposito di quell'abbraccio.
Tornarono in città al crepuscolo quando nelle strade buie rilucevano solamente alcune ringhiere di balconi gentilizi su cui era stesa come un tappeto la luce dei retrostanti saloni.
Tobaico, rimasto solo, pensò quanto sarebbe stato dolce rientrare, come padrone di casa, nel palazzo dei Chiarella e pranzare a quattr'occhi con Giuseppina, scostando il candeliere che gl'impediva di vederla. Ma il sogno non ebbe alcuna conferma e conforto dalla realtà, incarnata in un portiere nerboruto che lo seguiva con lo sguardo, come un buldog che stesse per abbaiare.
Da quel giorno, comunque, il Divino, che Tobaico si sentiva dentro, come in generale tutti gli uomini di quel tempo, ebbe il sopravvento. Egli acquistò alcuni libri di Platone, Vincenzo Morello, Goethe, d'Annunzio, Bergson, e quando il pipistrello abbassò il suo volo, ingolfandolo nei vicoli, Tobaico accese la lampada e lesse, lesse... lesse dovunque di sé e di Giuseppina, trovando perfino nell'antico filosofo greco allusioni molto strane ed evidenti al bel palazzo dei Chiarella. Pensò alla morte, ai fiumi di silenzio che scorrono al di là di questa terra rumorosa, e più credeva nell'immortalità dell'anima e meno desiderava di morire, perché la vita, illuminata in tal modo dal pensiero, gli riusciva sempre più di suo gusto. Insomma la morte gli piaceva assai come parola dei testi filosofici (e anche come parola delle canzoni: gli pareva anzi che la musica a quel punto diventasse più dolce che mai: "Morte, morte, oh morte! Oh, lasciatemi morir!"), ma niente come fatto.
Purtroppo una sera, rincasando felice perché aveva appreso che la vertenza fra Laprua e l'ingegnere Garozzo si era anch'essa conclusa con un brindisi, giunto nel corridoio gli toccò di trasalire. Sulla lavagnetta stava scritto: "Ho il cancro allo stomaco. Devo operarmi o no? La prego di darmi il suo consiglio!"
"Non è cancro!" disse, l'indomani, don Gildo a Tobaico ch'era andato a visitarlo in vestaglia. "E' cirrosi epatica!"
"Mio Dio!" fece Tobaico. "Com'è noiosa la vecchiaia! Non solo che uno è vecchio, ma gli devono venire anche tutti i malanni!"
"La cirrosi può venire anche a un giovane di vent'anni."
"Ne è proprio sicuro, don Gildo?"
Il vecchio sorrise con la mestizia di chi è stato costretto dagli anni ad acquistare una sapienza che volentieri regalerebbe a chiunque altro; e Tobaico non ebbe animo di fiatare.
Divenne malinconico, assorto, pensava sempre che anche un giovane può trovarsi di punto in bianco un sasso nello stomaco, si toccava piano piano la pancia sotto la giacca per sentire se fosse ancora molle, non vedeva più le persone, e non ricambiò il saluto all'onorevole Lamarca che si mise a borbottare: "Si sente già carcioffo, quella testa di manzo!"
Il malumore durò due mesi, il tempo che don Gildo impiegò per ridursi con la candela al capezzale, ed entrare in quel silenzio che egli, pazzo per le voci basse e i suoni spenti, avrebbe dovuto amare e invece, negli ultimi giorni, aveva temuto come un bambino il buio. Al funerale, tra le orfanelle del Sacro Cuore, i trovatelli, i preti, la gente vestita di nero, i cavalli che cascavano di vecchiezza, e il conducente del carro funebre che aveva la sbadigliarella nervosa e si portava sempre la mano alla bocca spalancata, fu visto un uomo marciare fra i parenti come il dolore in persona, poi d'un tratto accendersi di allegria come un razzo e gettare faville di sorrisi anche sui pastrani di coloro che gli camminavano davanti: era Tobaico, al quale un vecchio medico, trottandogli vicino, aveva improvvisamente detto, giurato e spergiurato che la cirrosi non può venire prima dei cinquant'anni.
"Ma me lo assicura?"
"Perdio, mi fa perdere la pazienza: le dico di sì!"
Luigi rientrò nel portone, socchiuso per il lutto e infrascato di bende nere e annunci mortuari, con un salto di allegria: aveva ancora trent'anni davanti a sé prima della cirrosi epatica!
Quindici giorni dopo, la sua vita aveva raggiunto quella perfezione di tranquillità per cui può essere citata come modello perfino di quei tempi così tranquilli. Naturalmente, quando una vita d'uomo ha la fortuna di perfezionarsi in un modo simile, diventa subito povera di fatti, in quanto che la preoccupazione di turbarsi la rende sospettosa riguardo alle novità, e molto cauta nell'augurarsi un domani diverso dall'oggi.
Con grave disappunto dobbiamo confessare che, dal 1912 al 1914, il nostro personaggio non fece nulla che fosse degno di essere raccontato. Le stesse violente discussioni, che scoppiarono al tavolo della Birreria Svizzera nel 1914 sull'opportunità per l'Italia di entrare in guerra o meno, lo lasciarono abbastanza tranquillo: il suo pensiero, come le sere degli anni precedenti, vagava per i lampadari e le tende di casa Chiarella; e quando Laprua lo chiamava a dire la sua, rispondeva imperturbato: "Senza dubbio, sì... E che vuol dire?"