La giornata di Rodolfo
Il primo mese di Rodolfo a Roma, il gennaio 1920, passò in un modo singolare e, nello stesso tempo, beato. Quello che più colpiva Rodolfo era un misterioso rumore di folla e di vetture: il rumore di un moto che, svolgendosi per vie e piazze a lui del tutto sconosciute, pareva si dirigesse verso qualcosa di più bello e grande che una città. Poi lo stupiva la luce, candida e forte, del sole. Infine, l'aria frizzante dell'esterno e l'odore dei mobili riscaldati all'interno davano al suo sangue un battito così animoso che egli si sentiva sempre in uno stato di grande emozione, come nel momento di aprire una porta dietro la quale un personaggio molto importante lo aspettasse.
I primi sette giorni, l'impiegò tutti nel fare delle scoperte degne di un bambino: che la via più breve per arrivare a casa era questa e non quella, che il suono d'orchestrina, che si udiva di pomeriggio, veniva dal "Caffè Savoia", che la signora bionda, di cui, nelle mattinate di sole, si vedeva l'ombra sulla terrazza di fronte e, qualche volta, la testa, il collo e le spalle nude, era la moglie dell'ambasciatore turco, che l'aria così fine doveva attribuirsi alla grande quantità d'alberi sparsi per la città, che le donne erano così grasse e tranquille perché amavano la vita, e non era dunque da pensare che fossero immonde o golose o sensuali, ma piuttosto avvolte visibilmente in una, dieci, venti volte più carnosa soavità di esistere che non le altre donne della terra.
La famiglia Parini entrò subito nel cuore di Rodolfo: gli sembrava chiassosa, piena di vitalità e di grazia. Essa lo spingeva sempre a ridere, anche nei momenti in cui era seria o accigliata, come gli attori comici famosi che non riescono più a dir nulla, nemmeno: "E' morto mio fratello!", che non susciti l'allegria. Egli aveva fatto ingenuamente la scoperta che in ciascuno di quei parenti, anche nel piccolo Fausto, si nascondeva un grazioso squilibrio fra ciò che volevano fare e quello che in realtà facevano. Fausto, per esempio, voleva essere duro, freddo, un piccolo gangster casalingo e non era, secondo Rodolfo, che un grazioso bambino di cinque anni; Mariella voleva essere una donna bene informata e affaticata dalle tante relazioni e amicizie, e non era che una ragazzina di quattordici anni, alla quale la signorina Enrica Karleston, sua unica amica, dava molto raramente il piacere di rispondere al telefono; la signora Silvia voleva spaventare il marito con le lunghe assenze e coi ritardi nel rincasare, e invece, secondo Rodolfo, era una buona e cara donna di provincia che spendeva il tempo nel fare gli acquisti più convenienti e che tradiva il professore con le torte, i pasticci e i bicchieri del Chianti, le sole cose che avessero per lei un sex-appeal; il professor Guglielmo voleva essere un uomo libero, indipendente, equilibrato, ed era invece lo schiavo di tutti gli scrittori che leggeva, anche dei cronisti, e allorché, dopo aver citato due opinioni contrastanti, doveva dire la sua, era così spaventato dall'obbligo di avere un'opinione che l'attribuiva subito al suo interlocutore, e adoperava la frase: "Tu, qui, potresti dire..." In generale, egli non aveva opinioni, ed era molto violento contro coloro che volevano averne qualcuna.
I momenti migliori di Rodolfo erano la mattina, quando la piccola Berta, la cameriera, socchiudeva i vetri appannati della finestra, e un filo d'aria freddo, puro, come una spada del Signore che andasse diritta al petto e lo svegliasse, entrava nella camera. Rodolfo rimaneva a letto ancora per dei minuti, posando gli occhi ora sulla parte più alta dei vetri, ove passavano le nubi o splendeva il cielo, ora sugli oggetti della camera. Più guardava le cose e più rimaneva sorpreso della strana bellezza ch'era in loro. Non era soltanto il cielo, coi suoi riflessi mutevoli o il suo fermo splendore, che agitava l'anima di Rodolfo: il bicchiere alto, azzurro e luccicante, la parete giallina e attonita, il giornale ripiegato a terra come un piccolo cane che dorma, il pavimento, i tappeti, gli comunicavano tutti quanti una profonda gioia.
Presto, i suoni del pianoforte, in cui era facile riconoscere la mano debole e nervosa di Mariella, giungevano dal corridoio. Rodolfo si alzava, indossava la veste da camera, entrava nello stanzino da bagno, prendeva la doccia, si pettinava, si vestiva.
Tutte queste cose, dalla fatica di vestirsi alla sensazione di freddo che dava l'acqua, per quanto fossero consuete e banali, rafforzavano sempre più in lui quel sentimento che lo accompagnava dalla fanciullezza: "Dio esiste!" Il sapere che Dio esiste ingrandiva in lui l'amore per le cose, e le cose, amate di più, dicevano sempre meglio che Dio esiste.
Intorno alle otto, egli era già pettinato, vestito e seduto dinnanzi allo scrittoio sul quale stava sempre aperto un volume di Diritto Commerciale. Il volume era grosso, e via via che Rodolfo ne voltava le pagine, sentiva brontolare, dalla sua innata saggezza, ch'era impossibile mandare a memoria quel volume. Sette mesi di studio non bastavano. Bisogna essere preparati a una bocciatura. Povero zio! Povera mamma! Egli avrebbe sostenuto un'altra prova, avrebbe studiato anche di notte. E poi? Se avesse perduto anche l'ultimo esame, se avesse veduto, nella lista degli ammessi al suo ultimo concorso, quella lucentezza che ha la carta quando non vi si legge il proprio nome? La seconda parte della sua vita avrebbe somigliato a una di quelle strade che si presentano nei quadri finali delle pellicole: diritte e deserte, che si perdono nel crepuscolo.
Se egli avesse pesato, in quel tempo, ottanta chili, sarebbero stati ottanta chili inutili; se egli fosse morto, sarebbe morto un uomo inutile, se egli avesse camminato sotto il sole, avrebbe visto accanto a sé l'ombra di un uomo inutile... E con questo?, si domandava allarmato. E con questo, proprio niente. Qualcosa di molto più importante e serio avrebbe continuato a sorridere, nella sua vita. Se ne infischiava dei concorsi, delle bocciature, della miseria, della malattia, questa cosa tanto importante. Eccola, adesso, per esempio: egli era triste dinnanzi alla prospettiva di un avvenire così oscuro, egli si sentiva come un attore che non sa la parte e sta per essere buttato fuori delle quinte, egli vedeva lo sguardo della madre ritirarsi da lui per sempre, senz'aver potuto, prima, brillare di gioia; e tuttavia sotto queste immagini penose, questi pensieri, questi sentimenti, continuava, più misteriosa che mai, quella felicità, quella quiete.
D'altronde, non erano sempre così nere le sue previsioni sull'esito del concorso; talvolta egli pensava che anche gli uomini avrebbero avuto un po’ di amore per lui, e lo avrebbero aiutato. Vincere sarebbe stata una cosa molto elegante e graziosa e sarebbe anche servita a rialzare zio Giacomo dalla sfiducia in cui era caduto.
Così, studiando e almanaccando, Rodolfo giungeva all'ora del pranzo. Ma prima che Fausto salisse sulla sedia per suonare, con dieci minuti di anticipo, il piccolo gong della sala da pranzo, Rodolfo aveva il tempo di uscire, passeggiare sotto gli alberi, innamorarsi di una sconosciuta, che, passando vicino a lui, lo guardava d'improvviso, entrare in una familiarità, purtroppo non condivisa, con le tendine delle finestre e dei balconi, fissarle, desiderarne le confidenze, così come il passante tenta invano di far uscire, dal contegnoso silenzio, il cocchiere che, di notte, sta ad aspettare il signore, la signora e le signorine.
Rientrava rosso di freddo, alitando, ora sulla mano destra ora sulla sinistra.
Fausto, ch'era già seduto a tavola, diceva duramente: "Eccolo!" e gli preparava una sedia accanto a sé. Mariella sedeva dall'altro lato di Rodolfo, volgendo qua e là la testa, come se ancora impegnata nella conversazione telefonica che aveva terminato un minuto prima. Il professore salutava Rodolfo con una carezza sulla nuca, poi sedeva, spiegava un giornale e ingoiava i bocconi rapidamente, con gli occhi sbarrati sulle parole che gli stavano davanti. Per ultimo, entrava la signora Silvia e raffreddava l'ambiente col suo grande corpo e le sue vesti ancora gelidi.
"Mio Dio!" diceva ansimando. "La vita è così strana! Il tenente è caduto da mille metri ed è... Indovinate?"
"C'è poco da indovinare," diceva Mariella. "E' morto!"
"Proprio, proprio così: è morto!"
"Quale tenente?" domandava, con un certo disgusto, il professore che vedeva ogni giorno farsi più intimi, nelle conversazioni della sua famiglia, degli uomini a lui del tutto sconosciuti. "Non c'è mica un solo tenente al mondo!"
"Oh, papà!" faceva Mariella. "Lo conosci anche tu: è il tenente Albini, chi altri mai potrebbe essere?"
"Ebbene, t'inganni," diceva la signora. "Non è Albini, che Dio lo conservi: è il tenente Raimondi."
"Mai visto," mormorava il professore.
Fausto s'avvicinava all'orecchio di Rodolfo e sussurrava: "Papà è geloso."
Rodolfo si volgeva di scatto verso il bambino: era possibile che venissero da lui quelle parole? Fausto, che s'aspettava quello sguardo, si faceva bieco in faccia, ma in un modo buffo, per cui Rodolfo s'accorgeva facilmente che il bambino diceva quelle parole ripetendo a caso delle espressioni che avrebbero dovuto scandalizzare, ma che egli non capiva. Questo, naturalmente, indignava Fausto.
Dopo il pranzo, si faceva sempre della musica. Mariella amava i pezzi malinconici o addirittura disperati, e pretendeva che Rodolfo desse una grande importanza, non alla musica, ma al dolore che si celava in quei pezzi, al fatto che essi dimostravano, con precisione meticolosa, che la vita non è poi così allegra. Rodolfo sorrideva, con un'aria annuente e nello stesso tempo distratta. E questo indignava Mariella.
La signora Silvia aveva imparato a sonnecchiare sorridendo, come se rivedesse, nel sogno, delle scene che l'erano accadute fuori e ch'erano per lei molto piacevoli e lusinghiere. Un altro piccolo mistero, destinato a ingelosire il professore. Questi, invece, allorché, voltando le pagine del giornale, lanciava uno sguardo in giro e s'accorgeva di quel sorriso, scuoteva la moglie per un braccio e le gridava: "Hai la bocca aperta!"
Le parole del professore facevano ridere molto il quasi trentenne Rodolfo, lo facevano ridere come un bambino. Questo indignava la signora Silvia. Il professore, da una parte n'era lieto dall'altra cominciava a sentire, con viva preoccupazione, che Rodolfo nascondeva nel suo petto un'opinione, un'idea, e che un giorno o l'altro bisognava vedere di che si trattasse. Una lettera riservata di Giacomo Dentelli descriveva il nipote come un ragazzo buono, ma testardo; un'altra riferiva certe parole di lui sulla vita: delle parole, pensava il professore, confuse ma un pochino pretenziose. Sì, bisognava, una volta o l'altra, avere una conversazione con lui, preferibilmente di notte, con una tazza di caffè davanti.
C'era qualcosa di insopportabile in quel ragazzo, come in tutto ciò che nella vita è rigido, meccanico, automatico.
La seconda parte del giorno trascorreva per Rodolfo come un lampo: in fondo, egli era solo. Lo studio lo prendeva fino alla sera; poi egli andava fuori, con un principio di sonno che gli rendeva abbacinanti le lampade delle vetrine; poi cenava; poi si recava in un cinema, ove subito si addormentava; infine tornava a casa e si sdraiava sul letto. Il sonno era passato. Com'era strana Roma! Perché era bello vivere a quel modo? Non si capiva. Tuttavia era tanto bello. Questa volta, era un altro genere di sonno, più pulito, più intelligente, più dignitoso che veniva a ripiegargli la testa sul cuscino.