Un locale sfortunato
La grave, e per tanti anni insoluta questione, di passare allegramente la sera, parve risolta a Mux, quando, nel 1938, fu aperto al pubblico il locale notturno "Spelonche di Nettuno" Una villa gentilizia era stata rapidamente acconciata a caffè, ristorante, luogo di bagni e danze. La casa, una volta abitata da un duca, una duchessa, e una cameriera che aveva tentato di avvelenare la duchessa per prenderne il posto, fu trasformata in cucina e in bar. Nell'antiporta fu costruita una pista in forma di fontana asciutta. I tavolini vennero collocati all'intorno, sotto i primi alberi del parco, in modo che non sparissero nel folto dei tronchi e nella tenebra, perché il luogo, già menzionato nelle prediche della vicina parrocchia, sarebbe stato in tal caso maledetto e vietato ai fedeli. Nel fitto parco, rimasero i vecchi sedili di pietra, qualche statua smozzicata e deposta sulla quale si poteva sedere più comodamente che sui sedili stessi, e due grotte illuminate di luce blu e rossa. Il mare bagnava i margini del giardino senza il minimo sciacquio, formando il giardino con la spiaggia di contro una piccola insenatura chiusa come un lago.
Verso le dieci di sera, quando lo scirocco era sceso dai quarti piani alle portinerie, e avvolgeva nella stessa nuvola bianchiccia i vecchi principi, che stavano in terrazza con la pipa tra le labbra e i piedi in una vaschetta piena d'acqua, e i venditori ambulanti, che dormivano sui loro carri a quattro ruote sbadigliando amaramente fra i cetrioli e i melloni, il direttore delle "Spelonche di Nettuno" accendeva alcune lampade gialle posate come bicchieri sui tavolini. Per effetto di questa luce, tutto lo spazio in giro si punteggiava di teste illuminate dal basso. Erano i più noti giovanotti della città che spuntavano a colpo dalla tenebra.
Sfortunatamente il direttore dovette convenire che le teste non erano liete. Fosse quella luce proiettata dal basso, o lo scirocco, o certi vecchi amori che l'orchestrina andava rimescolando con le sue vecchie canzoni, certo è che una rosa di teste appassite dondolava piano piano nello spazio dell'antiporta. Per rimediare a questi inconvenienti, si dipinsero di blu le lampade, e una luce mattutina salì dai tavoli. Ma l'espressione di malinconia e di stanchezza non lasciò i visi degli avventori.
Si alzarono, allora, fra albero e albero, archi di fari in modo che le cavità dei visi, lasciate in ombra dalla luce che veniva dai tavoli, fossero illuminate e riempite dalla luce che veniva dall'alto. Ma un che di piatto e di marmoreo si aggiunse all'espressione malinconica.
Finalmente, si collocarono dei tasti accanto alle lampade dei tavoli, per dare agio a chiunque avesse coscienza del proprio stato d'animo di rimanere al buio e nascondere la fronte corrugata agli occhi del pubblico. Così rimasero illuminate solo alcune facce di vanitosi. Si vide, sospesa come la luna nelle fotografie dei telescopi, una testa rapata d'importante personaggio, arrivata di fresco da Roma; una figura segnalata mostrò la sua testa di vacca; un duca fece vedere che s'era notevolmente ingrassato nel corso di un suo viaggio intrapreso per dimenticare; il nobile cavaliere Tor', che soleva dormire in ogni locale pubblico, prese la malaria sotto gli occhi di tutti, non essendo sfuggito ad alcuno che una zanzara, dopo aver compiuto due giri intorno al bicchiere di whisky, lo aveva morsicato accanto al naso. Ma l'allegria non era ancora arrivata nelle "Spelonche di Nettuno"
"E' possibile," si domandava il direttore, "che uomini importanti e abituati ai successi abbiano una faccia così stanca?"
Furono cambiate le vecchie e malinconiche canzoni dell'orchestra con motivi nuovi che invitavano al salto; un cantante si permise, fra una nota e l'altra, di pronunciare al microfono la frase che una signora anziana, moglie di Lorenzuccio, aveva detto, nell'intimità di una macchina, a un giovanotto: "Facciamo cornini a Lorenzuccio?"; il violino scese dal palchetto e seguì le coppie, invitandole a bassa voce, se non a darsi un bacio, a sfiorarsi le punte dei nasi. Ma restò un che di pesante nell'aria, come quell'odore di vecchia cisterna che avvolgeva il locale intorno alla mezzanotte, e per il quale si pensava che le barche, legate lì accanto, avessero vele di ragnatele, e quel bianco flaccido, che ondeggiava lentamente nell'aria, fosse uno smisurato stendardo di ragnatela.
Il cuore dei dirigenti ebbe un sussulto di speranza, quando, insieme a un giovanotto del luogo, giunse da Roma la famosa stella del cinema Lieta Vittoria. Fin dalle otto di sera, un faro bianco illuminò il tavolo riservato alla stella, all'amante e agli ammiratori. La brigata arrivò verso le undici, spingendo a destra e a manca coi bastoni i sassolini della ghiaia (singolarissimo caso: gli ammiratori erano tutti eleganti, ma zoppicavano tutti) La stella sedette sotto il faro, mandando all'intorno un riso di cavallo, perché le labbra le s'erano dimagrite e ritirate, e i denti allungati. Tutti compresero la misteriosa ragione per cui Lieta Vittoria avesse lasciato il cinema da due anni. Sotto il faro bianco, la fine di una stella del cinema apparve al pubblico in tutto il suo squallore. "Spegnete la lampada del cavalier Tor'!" gridò il direttore. Intenerito dal molto whisky bevuto e indebolito dalla malaria, il cavalier Tor' guardando le gambe magre dell'attrice, famosa un giorno per i suoi polpacci, si lasciava rotolare fuori degli occhi lacrime grosse come palline di vetro. Fu un colpo mancino che mandò la barca ancora più lontano dalla gaiezza.
Le speranze rinacquero la sera in cui da Roma giunse, anch'egli zoppicando, un noto scrittore umorista. Era un giovane simpaticissimo che parlava con molta semplicità e faceva ridere anche le pietre. Le signore si alzarono sui busti, come fiori innaffiati. Ballando, gli passavano tanto vicino da lasciargli sulla punta dei ginocchi il profumo delle vesti. "Scriverete di noi?", gli domandavano con occhi lucenti. "Forse, forse," diceva lui, appoggiandosi alla canna di bambù. L'allegria e le speranze durarono fino al giorno in cui apparve l'articolo dello scrittore. Fu un'amarezza generale. Con allusioni molto chiare, si parlava del locale notturno; le signore venivano paragonate a galline inseguite a colpi di scopa, a grossi cuccioli e a Ferraù; i giovanotti, a pesci di tutte le specie; le vesti e le giacche bianche, a uova, ostie, lapidi funerarie. Il più elegante giovanotto della buona società seppe da quell'articolo che, nonostante i suoi viaggi ad Abbazia e la sua cura nel vestire e nel parlare, veniva da quindici anni chiamato dagli amici col nome di "agnellaccio" Le "Spelonche di Nettuno" piombarono nel malumore. L'umorista ripartì per Roma, lasciando fra gli alberi, nel posto in cui soleva sedere e ricevere occhiate di simpatia, come un ghigno e un riso di sciacallo.
Ma c'era un Dio per il direttore delle Spelonche. Nel posto lasciato vuoto dallo scrittore, venne a sedersi una bellissima ragazza toscana di cui la città parlava da sette mesi. La sua testa, pesante di capelli, riluceva fra gli alberi come una piccola luna; la brezza spingeva sui tavoli le sue parole gentili e i suoi scoppi di risa. Nelle prime sere, i giovanotti, come barche a vela su cui d'un tratto soffiasse il vento, furono presi da un'agitazione e vitalità insolite: ballarono saltando in aria come daini, sturarono bottiglie, si ficcarono pezzi di neve nella camicia. Ma poi s'innamorarono cupamente; l'allegria li abbandonò; sedevano in gruppi folti e tenebrosi nei sedili del lato opposto a quello in cui sedeva la bella toscana. E quando nella testa pesante di capelli, l'occhio si volgeva verso di loro, e lo sguardo si accendeva col lampo azzurro di uno zolfanello, il gruppo, disposto fra i tronchi degli alberi come le corde rilassate di uno strumento, mandava, coi suoi sospiri, come il gemito malinconico di un'arpa. Uno di questi giovanotti, una sera di venerdì, dopo una settimana d'insonnia e inappetenza, preso da un improvviso malore, si recò sul bastione e vomitò nel mare la birra che aveva bevuto.
Fortunatamente, si era alla vigilia di un ballo di beneficenza atteso da un anno. Il direttore del locale scommise mille lire che quella sera avrebbe segnato una data nella storia della gaiezza cittadina.
Al principio della notte, cominciarono ad entrare nel giardino le dame e i cavalieri in abito da sera. Poiché l'ingresso era nell'ombra, e i pantaloni dello smoking nero si confondevano col buio, le giacche bianche si andavano avvicinando come mezzi busti di marmo da collocare su colonne. D'altronde, per la mania di spazzolarsi in un certo modo i capelli, e attorcigliare i baffi, e ritagliare il pizzo, i giovanotti della città somigliavano stranamente ad antichi re e condottieri. Era una processione di figure storiche che faceva il suo ingresso per il cancello di legno. Napoleone III, Gioacchino Murat, lo Zar Alessandro, Garibaldi, il Re Galantuomo...
Quando la pista fu piena zeppa e anche i vialetti si riempirono di sedie e tavoli, il cavaliere Tor', avendogli un barone domandato cosa pensasse della serata, rispose annusando in alto: "C'è aria di schiaffi!" In realtà, passava tra gli alberi un che di pesante, manesco, minaccioso, che strisciava sulle guance e non prometteva nulla di buono. Un'ora dopo, infatti, come un grosso chicco di grandine che cada da una nuvola nera, precipitò uno schiaffo. Subito i cavalieri si afferrarono per la gola, e un gruppo di cento persone si aggrovigliò in tal modo che nessuno riusciva a capire chi fosse sotto e chi sopra. In quel silenzio di tomba, nel quale si svolgono le lotte fra i pesci nel fondo degli oceani, i cento cavalieri si scambiarono calci, pugni e morsi. Il viso di Napoleone III, premuto da un piede, sparve nella terra umida; lo seguì quello dello Zar Alessandro; con un occhio gonfio, la faccia del maresciallo Radetzki rideva nervosamente, passando, come un pallone da calcio, da destra a sinistra, da giù a su, per il groviglio di gambe e braccia. Molte signore scoppiarono in lagrime, perché, in fondo, quei personaggi storici eran dei figli di famiglia, non sempre al di sopra dei vent'anni. Sulla terrazza della villa, librato in un buio pesto, il direttore del locale masticava amaramente: "In fede mia, queste persone non sono nate per divertirsi!"