Prima avventura: un pomeriggio con la Pispisa
Un pomeriggio di aprile, Nella la Pispisa, dopo esser stata pregata di non tossire e non fiatare durante il passaggio per il salottino e la sala da pranzo, fu introdotta nella camera di Tobaico. La sedicenne era tutta avvolta in una grande sciarpa celeste tenuta dall'interno con una mano che sfiorava il mento.
Tobaico l'abbracciò, e sentì in confuso che doveva essere molto bella. Subito corse allo specchio, si guardò con le mani levate in aria, e lanciò un grido che forse non uscì come doveva perché somigliò stranamente alla gracchiata di un corvo; non meno rapido tornò alla ragazza.
"E la mamma," disse, "come sta?"
"Bene, vossignoria," fece la ragazza.
"E il babbo?"
"Che vuole dire, il babbo?"
"Il papà, come lo chiamate?"
"Ah, mio papà? Bene!"
Nella la Pispisa rise, mostrando una fila di denti così splendidi che una palla di avorio parve fosse volata nell'aria. Tobaico non sapeva chi ringraziare per la fortuna che gli spingeva fin presso il letto una tale ragazza. Avrebbe ringraziato la Madonna di cui era devoto, se quella devozione non lo avesse avvertito che la Madonna in una simile faccenda non c'entrava davvero.
"E il suo signor padre," continuò, "ha soltanto lei per figliuola?"
"Nossignore, siamo undici."
"Undici? Diamine, non siete pochi! Posso dirle che, secondo me, è assai difficile che le sue sorelle somiglino a lei?"
"Perché?"
"Perché lei è bellissima, ed è difficile che ce ne siano due, come lei!"
"Gli altri signori mi danno del tu!" mormorò la ragazza, stringendosi ancora di più nella sciarpa.
"E io invece le darò del lei! Anzi, la chiamerò Maestà!"
"Maestà?" fece Nella sbalordita.
"Sì, Maestà! Maestà!"
Da quando avevano letto le indiscrezioni sul poeta Carducci, molti italiani, e fra essi Tobaico, sognavano di diventare gli amanti della propria regina. La bellezza di Nella la Pispisa spronava a sognare senza paura. Perché dunque non immaginarla la cosa che più gli avrebbe dato felicità in quel momento? ch'ella fosse la regina?
"Maestà!" disse ancora Tobaico, inginocchiandosi davanti alla ragazza. "Sì... Maestà!"
La sua eccitazione era al massimo, e le parole che in verità gli sgorgavano dalla carne erano: "Cosa dolce, sangue mio, fiato mio", erano frasi come: "Posso metterti la manina fra le coscettine?" (nella foga dei vezzeggiativi per la ragazza, coinvolgeva anche la propria mano), ma egli riuscì sempre a dominare il frastuono parlante del proprio sangue pronunciando con voce calma frasi di corte o addirittura versi di antichi poeti.
Ma quando Nella gettò via la sciarpa, un'ombra nerissima si drizzò davanti al letto.
"Perché è vestita così?" fece Tobaico.
"Sono a lutto!"
"Le è morto qualcuno?"
"Papà"
Luigi masticò amaro. "Mi aveva detto che stava bene!" disse fra sé.
La ragazza si sfilò la veste nera dalla testa, e rimase in sottana nera.
"Ancora roba scura?" fece Tobaico.
E magari fosse finita qui! Calze nere, corpetti neri, mutande nere, maglie nere si sparpagliarono per la camera parandola a lutto come una chiesa.
Finalmente Nella disse: "Sono pronta!"
Era completamente nuda, ma una foglia di palma annodata a croce e assicurata a un cordoncino nero, pareva tagliarle in quattro il petto bianchissimo.
"E questa," fece Tobaico, "non la toglieremo?"
La ragazza, per tutta risposta, si strinse nervosamente al seno la palma. "Mio padre," mormorò, "prima di morire mi ha raccomandato di tenerla sempre al collo!"
Tobaico, già pieno di tristi presentimenti, costrinse la ragazza a sedergli accanto, sulla sponda del letto.
"E di che è morto, tuo padre?" disse involontariamente, pentendosi subito della domanda.
"Prima ebbe mal di stomaco... si ammalò di petto... gli doleva il fegato! Era diventato una candela... Le mosche se lo mangiavano... Poi si gonfiò tutto! Verde come una lucertola... Mandava marcia... sangue... i suoi bisogni li faceva nel letto..."
"Al diavolo!" esclamò Tobaico. "Com'è triste la vita!"
Tutto il suo buonumore era passato, ed egli sentiva di tradire nel modo peggiore la propria indole e vocazione: un poeta costretto a fare il commerciante non avrebbe sofferto di più.
"Ma dobbiamo parlare sempre di queste cose?" domandò.
"Io non ne parlo mai," fece la ragazza. "E' stato vossignoria a comandarmi di parlarne!"
"Ebbene avvicinati!" disse Tobaico. "E non pensiamoci più!"
Ma ormai il filo della felicità era rotto, e quando se ne trovava un capo, si smarriva l'altro. La foglia di palma non mancò di rammentarsi a Tobaico, ogni volta che questi tentò di abbracciare la ragazza: una volta, gli grattò la guancia; un'altra, lo spaventò col suo volo di freccia sul cuscino e il lenzuolo; un'altra, infine, lo colpì di punta sotto la mammella destra. Tobaico sopportava pazientemente finché un morso freddo sulla schiena lo fece sobbalzare. "Che diavolo c'è ancora?" disse, e, annaspando con la mano, si tirò di sotto al fianco un medaglione. Avvicinatolo agli occhi, il ritratto di un uomo gli sorrise mestamente dalla sua custodia nera.
"E' papà!" fece la ragazza, strappandogli il ritratto di mano. "Come si trova qui? L'avevo messo sulla sedia!"
"Senti!" disse Tobaico. "Io ti darò il doppio di quello che avevo promesso a tua madre. Ma è meglio che ci vediamo un'altra volta!..."
L'indomani, sulla lavagnetta del corridoio, nella quale il padrone di casa, prima di andare a letto, lasciava in gesso gli ordini per la cameriera, e dove ogni domenica stava scritto: "Acqua calda per i piedi", Tobaico lesse con sgomento: "Il professore rincasa con quattro gambe posso avere l'onore di parlargli?"
"Come ha fatto a sentirci camminare?" si domandò Tobaico. Ma il colloquio col padrone di casa, nonostante i suoi timori, finì in bene. Tobaico non sapeva mentire, e confermò di essere rincasato in compagnia di una ragazza; nel medesimo tempo, promise che nessun'altra ragazza avrebbe varcato la soglia della sua camera.
"Tranne che non si tratti di cosa seria!" osservò il nobile don Gildo.
"Tranne che non si tratti di cosa seria, s'intende!" ripeté soddisfatto Tobaico.
La maniera calma, il tono piano, con cui parlava Tobaico, piacquero in modo straordinario a quel vecchio signore che ricordava, come la cosa più triste della vita, gli alterchi a voce alta del padre e della madre. Rivestito di una voce così dolce, l'argomento il più assurdo lo avrebbe convinto... Diventarono amici, e si videro più spesso.
"Lei mi ricorda mio nonno!" gli diceva Tobaico.
"E voi mi piacete come parlate!" rispondeva il vecchio. "Se vi piacciono i fichi secchi, concedetemi l'onore di mandarvene un po’."
"No, i fichi non piacciono: sono strano nei gusti, io, mi piace l'uva passa, ma quando è un po’ marcia!"
"Io sono più strano di voi: del pesce mi piace solo la coda."
"O per questo, io preferisco spolpare un osso piuttosto che mangiare una bistecca."
"In arte, non sono meno strano: mi piace più la Traviata che l'Aida."
"E io, io, non vado pazzo per la Traviata, io?"
Tobaico era tornato alla sua felicità, e lo stesso ricordo di Nella la Pispisa vestita a lutto gli aveva spremuto, una notte, dall'occhio poggiato sul cuscino, una lacrima tanto saporosa che, l'indomani, egli si domandò se la sua vita non mancasse soltanto del dolore per essere completamente felice.
La società del 1911 era la più adatta a un uomo come lui. Le persone cercavano la minima occasione per diventare amici; volavano schiaffi, nell'aria, sputi, e perfino coltellate e colpi di pistola, ma veramente volavano nell'aria, perché quello che rimaneva in terra erano gli abbracci; così i muri, e i giornaletti formicolavano d'insulti, ma quello che regnava sovrano era il rispetto per le persone; così il modo di vivere era vario, cangiante, procelloso, ma si trattava di una procella tutta di schiume che si abbatteva in silenzio contro le persiane delle case, dolcemente accostate su una vita comoda, riparata, tranquilla.
Una sera, Tobaico si recò al teatro La Colomba ove si recitava Fedora. Giunse in ritardo e chiese scusa con tanto garbo ai signori disturbati dal suo ingresso che uno di questi, con una sciarpa verde al collo, si alzò a metà e gli toccò rapidamente una mano come per stringergliela.
"Lo conosco?" si domandava Tobaico, sedendo nella sua poltrona. "Non vorrei avergli usato la scortesia di non stringergli la mano per primo, se lo conosco."
Il sipario era levato, ma Tobaico non riuscì a vedere il palcoscenico: davanti a lui sedeva un uomo gigantesco il cui enorme cappotto, allargato sulle spalle, rigurgitava nell'imboccatura di sciarpe rosse e gialle che però non giungevano a coprire il vastissimo collo ove alcune verruche e i pori della pelle si distinguevano nitidi come attraverso una lente d'ingrandimento. Questo uomo s'era seduto di fianco in modo da tenere la spalliera dentro l'ascella e un braccio penzoloni davanti alle gambe di Tobaico che si vedeva tra i piedi una mano gonfia di carne, carica di anelli e terminata da unghie dure come punte di corni. L'uomo per di più teneva il cappello posato in cima alla testa vellosa ed escludeva in tal modo la vista di Tobaico perfino dal tetto del palcoscenico.
Con molta delicatezza, Tobaico toccò la spalla che gli stava davanti, ma sospettando che il suo tocco si fosse perduto nel mucchio di lana che copriva l'uomo, tornò a picchiare costui un po’ più a sinistra, vicino al collo.
Lentamente la testa si voltò, e Tobaico si vide vicinissima una faccia così grande che si stentava a non crederla una statua o una pittura. L'espressione degli occhi, non si capiva se fosse irata o tranquilla tanto la loro qualità di organi attirava per il modo con cui venivano mostrate le minime parti: le ciglia, l'umore acqueo, la retina, la macchia gialla, la pupilla.
"Il cappello, per favore!" disse Tobaico.
"Le fa piacere che me lo tolga?" domandò l'uomo con una voce tutta fiato e niente suono che colpì Tobaico in faccia come una ventata calda.
"Sì, grazie!"
"Vossignoria è il mio padrone!" ripeté l'uomo, voltandosi di nuovo verso il palcoscenico... E un momento dopo, si vide la manona staccarsi dal pavimento su cui pendeva, togliere il cappello dalla testa, alzarlo gravemente nell'aria e poi riporlo sulle ginocchia.
"Com'è gentile!" pensò Tobaico.
Nell'intervallo fra il primo e il secondo atto, lasciò la poltrona, e uscì nel piccolo corridoio stipato di persone che scorrevano pigramente fra altre che le guardavano.
Tobaico non conosceva nessuno, ma frenava a stento il desiderio d'inchinarsi davanti a coloro che, per distrazione o curiosità, gli lasciavano gli occhi addosso. D'un tratto, vide lo sconosciuto dalla sciarpa verde che, solo solo, addossato al muro, non credendo o non curando di essere udito dagli altri, mormorava: "Bella! Divina!
Perché non sei mia moglie?" Tobaico guardò verso il punto che fissavano gli occhi di costui, e rimase colpito da una testa di ragazza sfolgorante di luce bianca che s'avanzava fra gli abiti scuri degli uomini. La ragazza non aveva ancora diciassette anni, ma, per quella gravità di cui erano ancora fornite le persone al principio del nostro secolo, la parola donna le si addiceva interamente, dal piccolo piede al nero tuppè traversato da una spada. Una dolcezza muliebre, quale mai si era vista così piena e profonda, s'annunziava nelle guance e negli occhi ove dava gli ultimi guizzi lo scaltro riso infantile ch'è quasi privo di sesso. Nulla di strano, anormale, peccaminoso, fatale, in quel viso di ragazza; essa era la vita comune, la Moglie. Tuttavia lo sconvolgimento lasciato dal peccato più innominabile sarebbe stato nulla al paragone del singolare turbamento che dava questa Moglie apparsa in sembianze così giovanili. Non cavalcate per boschi solitari, né tavoli da giuoco, né lampade notturne, né svenimenti, né veleni, né fughe, né processi, né colpi di pistola, richiamava alla mente quella serena bellezza. Al contrario, gli oggetti più comuni della casa, il letto nuziale, la tavola da pranzo, i piatti, i bicchieri, il gatto, il canarino, il tombolo, la terrazza, l'annaffiatoio per i fiori, lo scaldino, lo scialletto, la pergola, tutte le comodità insomma che Tobaico amava fino al delirio, si riflettevano in lei. Ma non erano più i prosaici oggetti disprezzati nelle conversazioni mondane. Riflessi in lei come nel più vago e puro cielo notturno, pur serbando la loro deliziosa aria casalinga, essi scintillavano misteriosamente al pari di stelle. Fu con un tonfo nel petto che a Tobaico parve di leggere, su quella bocca mirabile, vicino alle fossette che lo stesso Leonardo avrebbe invidiato di dipingere, una frase sublime come un'aria di Bellini: "Caro vuoi che ti faccia scaldare il letto?" Una bellezza simile non poteva lasciar tranquillo Tobaico che adorava con lo stesso fervore il Divino e la casa comoda.
"Straordinaria!" pronunciò egli, e così forte che uno degli uomini in frac, al seguito della ragazza, fece, allontanandosi insieme a lei, alcuni passi colla testa voltata indietro e gli occhi severi fissi su Tobaico che s'inchinò pallidissimo.
"La conoscete la grazia di Dio!" disse a questo punto una voce.
Tobaico si volse: colui che aveva parlato era l'uomo dalla sciarpa verde.
"Mi perdoni: noi ci conosciamo?" domandò.
"Credo di no," fece l'altro. "Permettete anzi che mi presenti: cavaliere Enrico Guzzardi."
"Luigi Tobaico: onoratissimo!"
"Quella ragazza," continuò Guzzardi, cavando un pezzo di vetro e inforcandolo, "è la figlia del barone Chiarella: si chiama Giuseppina. Ricchissima, educata in un collegio svizzero, credo che sia in corrispondenza con la principessa ereditaria del Belgio. Conta già undici richieste di matrimonio, ma la madre ha deciso che, prima di lei, si deve sposare la sorella maggiore che è un mostro!"
"Cosa mi dice?" mormorò allibito Tobaico. "Quella ragazza minaccia di rimanere zitella?"
"Se non la rapiscono!" disse l'altro sordamente. "Se non la rapi-sco-no!" "E dove abita?"
"Nel solo palazzo di Catania che abbia una serra: nel più bel palazzo di Catania, in via Sant'Euplio."
"Ma questa è la mia strada!" esclamò Tobaico.
"Lo sapevo!" scappò detto a Guzzardi, che arrossì come un bambino.
Tobaico finse di non vedere quel rossore e cambiò materia di discorso. Di questo Guzzardi gli fu molto grato, tanto grato che finì col confessargli, e stavolta senz'arrossire, ch'egli conosceva il nome di tutti coloro che abitavano in via Sant'Euplio. "Se non vi dispiace, anzi," e tornò ad arrossire; "se non vi disturbo, se me lo permettete, verrò a farvi una visita: credo che, dalla vostra terrazza, debba vedersi la terrazza dei Chiarella!"
"Magari avessi una terrazza!" sospirò Tobaico. "Prenderei il sole a torso nudo, riparandomi dietro la biancheria! Ma quella, che sembra appartenere alla casa in cui abito, è invece la terrazza di monsignor Leone."
Guzzardi esternò in silenzio il suo dolore, e Tobaico non finiva di ammirarlo per il modo con cui tratteneva la caramella nella faccia allentata dall'amarezza.
"Ecco Verga!" disse poi Guzzardi, indicando le spalle di un signore vestito di scuro, ai lati del quale due persone parlavano contemporaneamente senza che egli facesse capire chi ascoltasse dei due.
"Il famoso Giovanni Verga?" disse Tobaico. "Io ho letto I Malavoglia, ma non mi sono piaciuti, perché francamente non fa piacere incontrare in ogni pagina, due e tre volte, il poverino, la poveretta, il poveraccio. Del resto, anche Manzoni scrive così, e non mi piace. I poeti devono abbellire la realtà, e non farla vedere più brutta di com'è... Mi piace d'Annunzio!"
"A me d'Annunzio non piace," disse Guzzardi, "perché ha sempre la testa nella guerra!"
"La guerra," disse Tobaico, "io non la farei! Ma i popoli devono farla per essere grandi e potenti!"
"Per forza i popoli devono essere potenti?"
"Certo, se vogliono essere anche ricchi, ben vestiti, e abitare in case comode!"
"Ma la guerra manda molte persone ad abitare nei cimiteri!"
"Io, le ripeto, la guerra non la farei..."
A questo punto, il signor Guzzardi chiese scusa se doveva allontanarsi.
"Ci rivedremo?" disse Tobaico, tendendogli affettuosamente la mano.
"Credo," disse l'altro, "che diventeremo amicissimi!"
"Lo credo anch'io!" ribatté Luigi commosso.
Rimasto solo, Tobaico fece alcuni passi davanti a uno specchio, guardandosi col solo occhio sinistro e pensando: "E' molto meglio quando ho il cappotto!"
D'un tratto gli si parò dinnanzi l'uomo gigantesco che, nella sala, gli aveva impedito la vista del palcoscenico.
"E se a vossignoria piace," disse costui, come continuando un discorso, "il cappello me lo tolgo anche qui!"
"Grazie! grazie!" s'affrettò a dire Tobaico ruzzolando inchini l'uno dietro l'altro. "Molto gentile: grazie!"
L'uomo si scoprì, lo guardò fisso per un istante, poi si rimise il cappello di scatto, gli volse le spalle e si allontanò.
"Che gente ossequiosa!" pensava Tobaico felice. "E che bella serata!"
La campana del teatro aveva mandato i suoi rintocchi, e il corridoio era deserto.
Tobaico allungò il passo per raggiungere la poltrona, ma trovò la porta della sala sbarrata dall'omone e da sei persone più basse di lui, una pareva addirittura un nano, tutti col cappello in testa.
"E se," continuò il gigante, "a vossignoria..."
"Mi scusi," fece Tobaico, "ho il piacere di conoscerla? Mi chiamo Luigi Tobaico! E lei?"
"Giovanni il Pizzaro, a servirla!" fece l'altro con tono secco e sbrigativo. "E se," riprese poi col tono di prima, "a vossignoria fa piacere, non solo io, ma anche i miei amici qui presenti, si leveranno il cappello!" E così dicendo, tutti e sette scoprirono il capo.
"Troppo, troppo, troppo gentili!" mormorava Tobaico. "Grazie."
E dopo un istante d'indecisione, fece un inchino a ciascuno dei sette che lo fissavano col cappello in mano, ed entrò nella sala.
"Gentilissime persone!" mormorò per tutto il secondo atto, e una volta a voce così alta che un vicino lo zittì.
Al termine di quell'atto il signor Guzzardi lo raggiunse affannato nel corridoio. "Che succede? Che succede?" gli domandò.
"Nulla!" fece Tobaico stupito.
"Che è successo fra voi e il Pizzaro?"
"Oh, la cosa più squisita di questo mondo!" E Tobaico narrò al nuovo amico l'episodio del cappello.
"Madonna del Carmine!" fece Guzzardi. "Questa è una sfida. Il Pizzaro stasera, vorrà mangiare certo pasta con la salsa!"
"Che vuol dire pasta con la salsa?"
"Sangue!" disse l'altro. "Vi prego, amico, ti prego, Luigi, permettimi che ti dia del tu, vieni con me, subito!"
"Io non capisco!" faceva Tobaico, mentre lo chiudevano nello stanzino della direzione.
I pochi mobili di quel bugigattolo erano ingombri di cartacce, le pareti brulicavano di teste con dediche, ma in un finestrino scintillava, bella come il viso di un angelo, la notte di maggio.
"Perché la gente deve guastare la vita?" mormorava Tobaico.
Dieci minuti dopo, la porta si riaprì, e Guzzardi irruppe nello stanzino col direttore del teatro e l'onorevole Lamarca, sottosegretario alle Ferrovie.
"Che gusto c'è a sfidare il Pizzaro?" domandò costui, abbracciando Tobaico come per proteggerlo.
"Io non l'ho sfidato per nulla! C'è stato soltanto uno scambio di saluti!" mormorò Tobaico. "In ogni modo assicurate quel signore che io non ho alcuna cattiva intenzione nei riguardi di lui!"
"Ma la cattiva intenzione, non l'avete voi!" interruppe il direttore del teatro. "Ce l'ha lui nei vostri riguardi!"
"Cosa vuol fare insomma?" domandò turbato Tobaico.
"Ammazzare non più!" rassicurò Guzzardi... "Questo me lo ha promesso!"
Tobaico si chiazzò di verde: "Ammazzare?" esclamò. "Nientemeno si trattava di togliere la vita? Per così poco, si toglie la vita, qui?"
"Ora si contenta di lasciargli una piccola traccia nel viso," continuò Guzzardi, rivolto all'onorevole Lamarca. "Dice che almeno un bottoncino glielo deve fare!"
"Siete pazzi?" fece Tobaico. "Che vuol dire, bottoncino? Il mio viso sta bene senza bottoncini! Che bottoncini e bottoncini! Ma insomma non posso chiedergli scusa, dirgli che ha ragione, che non lo farò più, sebbene ancora non abbia compreso che male gli abbia fatto?"
"Volete chiedergli scusa? Fate pure!" disse l'onorevole Lamarca. "Ma il Pizzaro non mancherà di sputarvi in faccia! Vi piace perdere la reputazione?"
"No, per nulla!" gridò Tobaico, ricordandosi che i saluti rispettosi gli piacevano immensamente. "Ma perché tutto questo? perché? Non sarebbe meglio vivere in pace? Quel signor Pizzaro veste tanto bene, sembra così compito, mi ha ispirato tanta simpatia..."
". Ricambiata! Simpatia ricambiata!" disse improvvisamente una gran voce senza suono: il Pizzaro venuto per pestare Tobaico, avendo ascoltato le ultime parole di lui, s'era sentito raggelare l'odio fino alle midolle, scoppiare, come una bomba, l'amore, ed ora entrava con la manona tesa verso Tobaico.
Per un momento tutti rimasero immobili... poi si buttarono l'uno nelle braccia dell'altro, chiamandosi per nome, dandosi del tu e notando che l'onorevole Lamarca portava il busto. Nella confusione degli abbracci, costui non mancò di dire all'orecchio del Pizzaro: "Briccone, vi cascavano le mani, se mi davate il voto nelle elezioni municipali? Ma io vi voglio bene lo stesso!"
Durante il terzo atto, il Pizzaro volle che Tobaico sedesse davanti a lui e che tenesse il cappello in testa: una volta che Tobaico cercò di levarselo, il Pizzaro lo costrinse subito a rimetterlo e, senza volerlo, gli strappò via il nastro.