Due dialoghi
In "Quadrivio", 3 settembre 1933.
In una precedente novella (Amore e odio, in "Il Tevere", 16 giugno 1931) lo scrittore aveva trattato il tema della rivalità tra due giornalisti; qui tuttavia l'episodio sembra costituire l'occasione per una riflessione più ampia sul problema della scrittura, dell'onestà artistica, del successo letterario, del rapporto arte-vita. Problemi avvertiti e costantemente dibattuti da Brancati in questo periodo. Scrive egli infatti nel '32, contro la poetica del frammento e lo stile franto della prosa d'arte: "La prosa è un modo calmo e virile di essere attenti a quello che accade sotto i nostri occhi, un modo intellettuale di vivere continuativo: e cioè non a scatti isolati d'intuizioni e d'impressioni, [] ma con un persistere socievole, beneducato, piano, di un tono unico nella varietà di ciò che passa dentro lo spirito" (La prosa nell'Italia moderna, in "Critica fascista", 1 aprile 1932, ora ne Il borghese e l'immensità, cit.) L'istanza poetica dello scrittore è dunque la precisione; esauritasi la carica di suggestione dannunziana nel progressivo rarefarsi dei suoi debiti nei confronti di una tradizione letteraria dotta, volta alla qualificazione formale del testo.
Le battute dialogiche di questa novella ("Fatti un ordine, una disciplina: sii mediocre ma preciso!"; bisogna "cominciare con l'attribuire alle cose il loro vero nome; sapere il valore che hanno le parole") trovano puntuale riscontro in un articolo del 15 dicembre 1935, dove Brancati esamina la condizione dello scrittore siciliano che voglia costruire il proprio registro linguistico, e che qui vale la pena di riassumere per il suo carattere di autodiagnosi: "Lo scrittore italiano nato in Sicilia parla sino ai vent'anni o ai trenta, epoca in cui emigra, il dialetto dell'Isola"; verso i quindici anni la scuola gli insegna la lingua ed egli la scrive: è di solito una lingua straordinariamente letteraria, artificiosa, priva di precisione, con cui non è possibile indicare gli oggetti, le piante, i frutti e i fiori col loro nome specifico. E' più facile, con questa lingua, esprimere pensieri complicati e sottili che dire una frase umile e necessaria; è più facile riferire il discorso di un filosofo che quello di un contadino: "E' una lingua irreale e approssimativa che fa una grande impressione per l'irruenza con cui, non potendo colpire i suoi obbiettivi, si riversa nelle perifrasi." Solo a poco a poco, "cogli anni, lo studio, l'esperienza e i viaggi", questa lingua si arricchisce, guadagna vocaboli, inflessioni, "senso della realtà" (Uno scrittore dimenticato: Federico De Roberto, in "Quadrivio", 15 dicembre 1935)