Terza avventura: La sfida

 

E infatti, il pomeriggio del nove gennaio, Tobaico fu destato brutalmente da Guzzardi: "Svegliati! alzati! Vieni con me!"

Tobaico pensò: "Adesso che ho dormito solo mezz'ora, non avrò il profilo sereno per tutta la sera. Disgrazia non voglia che io la incontri proprio oggi!"

"Su! Vuoi spiccicarti dalle lenzuola? Oggi la vedrai!"

"No!" fece Tobaico.

"Sì, la vedrai da vicino!"

"No, oggi no!"

"O oggi o mai! Spicciati, sangue di un cane!"

"Ma come la vedrò?"

"Potrai andare dal professore Laprua, il solo catanese che abbia un balcone a due metri di distanza dalla terrazza dei Chiarella!"

"E come ci andrò, se non lo conosco?"

"O santi Martiri, spicciati, muoviti, alzati! Non posso perdere tempo! Devo scendere giù! Ti aspetto nella strada!"

E così dicendo, partì come una lepre.

Tobaico si vestì con la maggior fretta che poté, e, guardandosi allo specchio, ringraziò la Madonna che, nonostante la velocità, gli aveva fatto riuscire bene il nodo della cravatta. Ma quando alzò gli occhi sulla propria faccia, rimase interdetto: non soltanto il profilo non era sereno e le sue narici si arricciavano ogni momento, ma, cosa più grave, l'espressione di chi vuol dire: "il diavolo sa cosa succede?" gli tirava la bocca in giù dal lato sinistro.

Comunque, scese nella strada. L'amico Guzzardi lo aspettava sul portone insieme a un ufficiale altissimo, guantato di bianco, tremolante di luci dalla cintola in su, cigolante di cuoi nelle parti basse della persona.

"Il tenente Gorgone, il signor Tobaico!" disse Guzzardi spingendo l'uno e l'altro per il braccio: "Su, andiamo!"

I due si strinsero la mano, mentre già muovevano i primi passi.

Nulla dispiaceva a Tobaico quanto la fretta: un rossore di febbre gli chiazzava subito la faccia; gli occhi non avevano tempo di riposare su alcuna cosa perché ne venivano continuamente scacciati, come uccelli feriti all'ala e costretti a cambiar sempre di ramo; dalla memoria gli rotolavano via tutti i termini italiani, sicché o stava muto o doveva sentirsi scappare di bocca ripugnanti frasi dialettali; infine, la vita gli diventava indistinta, confusa, spiacevole.

"Ma dove andiamo a cuddari?" disse scombussolato.

"Dal professor Laprua, te l'ho detto!" rispose in fretta Guzzardi.

"Ma io nun lu canusciu!"

"Gli portate una sfida!" disse l'altro a bassa voce.

"Una sfida!?"

"Sì, una sfida! Tu e il tenente Gorgone siete i padrini! Ho fatto in modo," aggiunse all'orecchio di Tobaico, "che l'altro ufficiale si ammalasse all'ultimo momento. Si è dovuto ricorrere a te, mi capisci? Lo sfidante ti sarà grato."

"Dio sa che cosa mi combini!"

"Cerca di non rimanere nel salotto e di entrare nello studio. Dal salotto, non vedresti nulla! Dal balcone dello studio, invece, si può toccare con la mano la terrazza dei Chiarella."

"E chi è lo sfidante?"

"L'ingegnere Garozzo!"

"E chi è?"

Ma a questo punto, Guzzardi lo spinse dentro un portone: "Eccovi arrivati!" esclamò. "Buona fortuna! Io vi saluto..."

E stretta la mano al tenente, si allontanò piano piano facendo a Tobaico, che ancora lo guardava, cenni confusi d'incoraggiamento, augurio, contentezza.

Poco persuaso, Tobaico salì le scale dietro al tenente.

"Vi dirò in una parola," disse l'ufficiale, picchiando sulla porta col pugno guantato: "l'ingegnere Garozzo è uno dei primi gentiluomini di Catania; nobile per parte di madre; non gli mancano i viaggi all'estero..."

"Sono contento di rappresentarlo!" disse Tobaico.

". Ricchissimo."

"Sono molto contento di rappresentarlo."

La porta si aprì, e una vecchietta quasi nana, fissati gli occhi su un punto del pavimento a sinistra dei due ospiti domandò: "Chi cercano?"

"Dite al professor Laprua che sono venuti a visitarlo il signor Tobaico e il tenente Gorgone!"

La vecchietta sparì in un corridoio; e subito un'impressione sgradevole, forse la più sgradevole che gli potesse capitare, colpì l'orecchio di Tobaico, ch'era sensibilissimo alla correttezza del proprio nome.

"C'è qui," si sentì gridare dalla vecchietta, "il tenente Gorgone e il signor Tabacco!"

"Che diavolo dice, Tabacco? Ci mancherebbe altro che io mi chiamassi tabacco!" esclamò Tobaico. "E lo sfidante è stato schiaffeggiato?" domandò poi al tenente, sperando nel suo malumore che la risposta fosse negativa e lo schiaffeggiato fosse invece il padrone della casa in cui gli avevano storpiato il nome.

"No, ha schiaffeggiato!" rispose infatti il tenente.

"Meglio così!" fece Tobaico.

Tornò la vecchia, strascicando il piede sinistro, e aprì in silenzio una porta: "Lo aspettassero qua," disse.

Tobaico e il tenente entrarono in una stanza illuminata da una finestra che dava su via Etnea.

"Questo è il salotto!" pensò Tobaico, guardando verso una porta socchiusa che forse conduceva allo studio. "Se restiamo qui, io non vedrò che il ritratto del padrone di casa, il quale francamente non mi sembra un bell'uomo!" "Non crede," disse poi al suo compagno, "che questa sia una stanza molto umida?"

"Abbastanza umida," consentì freddamente l'ufficiale.

"Si potrebbe forse," mormorò Tobaico, sospingendo piano piano la porta socchiusa e vedendo rilucere, nel balcone di una stanza posta al di là di un corridoio, la terrazza dei Chiarella con la balaustra inondata di capelvenere, "si potrebbe forse passare di là?"

"Come, di là?" fece il tenente, con una smorfia ironica che piacque poco a Luigi. "Non siamo mica i padroni di casa!"

Da quel momento, i rapporti fra i due non fecero che peggiorare. "Credo opportuno," disse l'ufficiale, con l'aria di chi s'accorge che la fortuna lo ha associato a un uomo molto inferiore a lui, "credo opportuno spiegarvi brevemente i termini della vertenza. Il nostro primo sosteneva in un crocchio di amici, a un tavolo della Birreria Svizzera (l'incidente, è bene che sappiate anche questo, si è svolto di sera) sosteneva che la violenza è il mezzo meno nocivo per risolvere talune questioni politiche. Il pensiero, diceva, lascia le cose come stanno, se viene espresso con la parola, e in sostanza non dev'essere un pensiero ben chiaro se sceglie come sua espressione una forma equivoca, o, comunque, morbidissima e impercettibile qual è la parola. Un pensiero ben chiaro si trasforma subito in azione, in schiaffo, calcio, bomba, in breve, nella violenza!"

"Che imbecille!" esclamò Tobaico, sinceramente disgustato di una simile opinione, e credendo d'altra parte di offendere il professor Laprua e non il proprio rappresentato, perché, inesperto com'era di termini cavallereschi, e abituato alla cortesia che dà i primi posti agli altri e i secondi a noi, supponeva che la frase "il nostro primo" significasse "il nostro avversario" "Che imbecille!"

"Come lo sapete?" disse il tenente.

"Come so, che cosa?"

"Come conoscete la frase con la quale il professor Laprua ha offeso il nostro primo? Perché il professore, a questo punto della discussione, si alzò dalla sedia, indossò il cappotto, i guanti e il cappello, e disse: "Che imbecille!" Naturalmente, il nostro primo ha reagito! "Questo pensiero che io sia un imbecille," si mise a gridare, "tu lo esprimi con la parola, e dunque è un pensiero incerto e confuso! Io, invece, il pensiero che l'imbecille sia tu, lo esprimo in questo altro modo!" E gli diede uno schiaffo!"

"Un tipaccio!" scappò detto a Tobaico che, pur avendo ormai capito trattarsi del proprio rappresentato, si sentiva rizzare i capelli nell'apprendere che un uomo fornito di studi e di laurea, potesse parlare e agire in quel modo.

"Un tipaccio, chi?" fece il tenente, levando l'occhio destro e abbassando l'altro.

"Chi? E' presto detto, chi! Un tipaccio è chi non è un bel tipo!"

Il dialogo fu interrotto dall'ingresso di un uomo di quarant'anni, vestito impeccabilmente di nero, con colletto alla diplomatica da cui si gettava a ponte una cravatta grigio perla trafitta da uno spillone. Dalla tasca sinistra della sua giacca, si alzava, ripiegato in quattro, sino a sfiorare il taschino per il fazzoletto, un giornale, forse il Corriere della Sera; le mani, bellissime sebbene troppo grandi, accompagnavano le parole senza mai tendere eccessivamente le dita né divaricarle, ma al contrario conservandole sempre un po’ basse e curve, come se gl'impulsi dell'animo giungessero a quelle estremità del tutto ingentiliti dalla ragione e dalla cortesia. La testa, calva, era tempestata di vene, grandi e mobili come ventose, che sembravano divorarla piuttosto che nutrirla di sangue.

"In fotografia, perde!" pensò Tobaico, sentendosi legato da una forte e subitanea simpatia a quel signore che s'inchinava così compitamente.

"Sono il professor Laprua!" disse il nuovo venuto, con una di quelle voci che fanno trasalire perché la loro estrema nitidezza sembra ottenuta a spese della durata negli anni.

"Tenente Gorgone!" fece l'ufficiale, curvandosi leggermente.

"Tobaico," disse Tobaico.

"Seggano! Perché non hanno conservato il cappello? Diamine, che cosa posso offrire ai Signori? Preferiscono il caffè o un bicchierino di liquore?" si profuse a dire il professore. "Caffè, credo!" E senza porre tempo in mezzo, uscì dalla stanza e gridò: "Caterina, tre buone tazze di caffè!"

"A casa mia," aggiunse, quando fu rientrato, "sappiamo fare bene una cosa sola: il caffè. Io in verità ne abuso..."

"Noi," disse il tenente con voce secca, "la ringraziamo sentitamente, ma il nostro compito si limita a comunicarle che siamo i rappresentanti dell'ingegnere Garozzo, da Lei insultato e quindi colpito in viso con una bottiglia!"

Il professore si accigliò un poco. "Non sono stato io a levare le mani per primo!" disse. "Dio mi è testimonio!"

"Se Lei avrà la cortesia di nominare i Suoi rappresentanti, potremmo esaminare con loro quest'increscioso incidente!" ribatté l'ufficiale.

"Lor Signori vorranno perdonarmi," disse il professore... Ma in quel momento entrò la cameriera con un vassoio pieno di tazze e bricchi. "Oh, bene, il caffè! Signor tenente, quanto zucchero? E Lei, signor Tobaico?"

"Due pezzi!" disse Tobaico, fulminato da uno sguardo del tenente che aspettava in silenzio la fine del discorso iniziato dal professore.

Tobaico già labbreggiava con molto gusto i primi sorsi di caffè, ignaro che sulle sue palpebre abbassate si posasse il più furioso sguardo di ufficiale che si fosse mai visto, quando il professore riprese: "Lor Signori mi perdoneranno, ma io non posso nominare alcun rappresentante!"

"E perché?" fece incuriosito Tobaico.

"Perché io non mi batto!"

Tobaico posò piano piano la tazza nel vassoio: "Non si batte?" mormorò.

"Io non mi batto se Lor Signori non avranno prima giudicato sui fatti di quella sera! L'ingegnere li avrà esposti a modo suo! Ma bisogna sentire tutt'e due le campane!"

"Il nostro compito non è questo!" tagliò corto il tenente.

"E lo lasci dire!" consigliò Tobaico all'ufficiale, che si volse di scatto verso di lui, mormorando un: "Che roba!"

"L'ingegnere Garozzo..." infilò subito il professore... E si mise ad esporre per esteso l'incidente di quella sera, inutilmente interrotto da alcuni: "Ma questo... Noi non possiamo... Insomma, noi..." del tenente.

"La violenza," disse infine il professore, "sta per diventare di moda! E a me l'uomo violento non mi piace! Se dovessero tornare tempi d'intolleranza e di barbarie, vi assicuro, Signori, preferirei di morire subito, qui dove sono, e non chiederei nemmeno il tempo di andare nell'altra stanza a baciare mio figlio! A me l'uomo violento mi disgusta, mi ripugna, mi fa schifo!"

"E anche a me!" scoppiò Luigi Tobaico, rosso in faccia per lo sforzo di ripetere fra i denti le parole che il professore Laprua diceva a voce alta.

Il tenente si volse ancora verso Luigi, e in mezzo alle sue palpebre, serrate in uno spasimo di rabbia, lo sguardo vibrò come una lama di rasoio. "Siete un mentecatto!" disse. "Avete tradito il vostro compito! Vi siete messo contro l'ingegnere Garozzo nel momento in cui egli vi affidava il suo onore! Avete offeso me nel modo più triviale! Mi renderete ragione di tutto!"

"E va bene!" gridò Tobaico, mentre l'ufficiale si allontanava per uscire. "O' cuntaccilla a Tofulu!" Si morse le labbra pentito. "Lei mi ha fatto antipatia da quando l'ho visto. Vuol dire che ci batteremo... Sì, poi Lei mi ammazza... Forse che non so come si fanno i duelli, oggi?"

"Con me lo farete sul serio!" fu l'ultima frase del tenente. Dopo di che, si udì sbattere la porta d'ingresso, e dalla scala arrivarono tre colpi di tosse, l'uno più nervoso dell'altro.

Seguì un momento di silenzio e d'imbarazzo.

"Mi dispiace," disse il professore, "mi dispiace che Lei si sia messo per me negl'impicci!"

"Non fa nulla!" esclamò Tobaico. "Non fa proprio nulla! Aspettavo l'occasione di rimanere solo con Lei per dirle che parla come un angelo, da quell'uomo colto che è!"

Il buon Laprua si commosse, e strinse forte una mano di Tobaico: questi, mettendo da parte ogni formalità, fece capire che voleva abbracciarlo. E infatti si abbracciarono.

 

Sogno di un valzer e altri racconti
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