Questa vita secondo natura
Sulle Dolomiti regnavano in quell'anno indisturbati lo sport, la mentalità sportiva, il gusto sportivo, la corsa, la giravolta, il salto, lo scivolo, il freno, la volata; e le stesse montagne, per coloro che le percorrevano, non avevano altra funzione che quella di giganteschi arnesi di ginnastica.
Il culto dei muscoli, come strumenti massimi della vita, della volontà e del desiderio, non attese, per mostrarmi la sua gravità, ch'io mi fossi riposato del lungo viaggio. Vicino al mio tavolo, nel piccolo caffè che mi diede i primi conforti, sedeva una signorina, fumando una sigaretta dopo l'altra, e scrivendo su di un centinaio di cartoline un brevissimo nome e la data. Questa brava ragazza capì ch'io non ero del luogo e, per quei modi maschili che dà lo sport, cominciò lei a interrogarmi e a impiantare una sorta di amicizia. Poco dopo, ella pagava, buttando alcune lire fra i mozziconi di sigaretta, e mi esortava a seguirla perché mi avrebbe rivelato i segreti più importanti delle Dolomiti. La morale di questa donna era sportiva, essendo per lei ottimo il più forte; il suo gesto era sportivo, essendo per lei bellissimo il più veloce; il suo senso pratico era sportivo, essendo per lei utilissimi gli sci, le scarpe chiodate, i bastoni ben fatti; i suoi ricordi erano sportivi, essendo tutta la sua fanciullezza dominata da alcune gravi cadute sulla neve e sulla pista dei cavalli; i suoi sogni erano sportivi, desiderando ella di diventare una imbattibile nuotatrice; le sue letture erano sportive (manuali di ginnastica pesante e leggera; nei giornali, che le uscivano di sotto al braccio, vedevo quei caratteristici visi privi di fronte che hanno i vincitori di gara); le sue fatiche e i suoi riposi erano sportivi. Se sapeva cucinare, era perché nei rifugi d'alta montagna bisogna saper cucinare; se conosceva qualche canzone, era perché nei campeggi bisogna ingannare il tempo cantando. Facemmo insieme, credo, dei chilometri, prendendomi ella per la mano nei passi difficili, salimmo, scendemmo, ci piegammo per entrare nello stretto valico di talune rocce e finalmente arrivammo in un luogo pieno di borri. "Egli suole venire qui a prendere il sole," mi disse la signorina. "Vedrà che bel ragazzo!"
"Ma siamo venuti a vedere un bel ragazzo?" domandai io, con un tono probabilmente non soddisfatto.
"Vedrà, vedrà! E' un corpo perfetto!"
Muoveva a destra e a sinistra passi barcollanti, sugli spigoli dei sassi. "Ecco!" gridò d'un tratto. "Dev'essere qui! Venga subito!"
Con un certo stento, la raggiunsi; insieme ci avvicinammo all'orlo di un precipizio alberato, e insieme spingemmo lo sguardo nel basso. Ma ella dovette subito volgere gli occhi altrove, perché, nel fondo del burrone, il bel corpo che prendeva il sole, forse infastidito da un qualche insetto, andava grattandosi in un modo poco urbano. Questa sua operazione, non so da quanto durasse, ma certo cominciò a diventar lunga.
"Cosa fa?" mi domandava la signorina, sempre con lo sguardo al cielo, ma impaziente di riportarlo giù e di spiegarmi quel corpo stupendo, verso il quale ella aveva il fervore che ha la guida verso il più celebre monumento del suo paese. "Fa ancora quel gesto?"
"Sì," dicevo io, e intanto sbadigliavo, non perché mi annoiassi, ma perché dal fondo del burrone mi pervenivano, da parte dell'uomo in maglia rossa, alcuni grossi e irresistibili sbadigli. Finalmente il giovane finì di grattarsi e la signorina poté posargli addosso lo sguardo e spiegarmelo minutamente. Io compresi in questo modo cosa fosse un corpo perfetto, i misteri del bicipite, i poteri della caviglia ecc.
Lo spettacolo, in quel momento, era il più vario che si possa immaginare, essendo le montagne colpite dai raggi in modo direi confuso e contrastato. Per l'ora, e la posizione del sole, i monti parevano affollarsi sui monti come a contendersi la luce, e la varia e strana sorte di questa contesa portava che una cima bassa riuscisse a illuminarsi meglio che una alta, perché su questa gettava l'ombra una vetta quasi invisibile per il suo colore celeste, e su quella invece, attraverso un corridoio interminabile di rupi, scendeva direttamente un fascio di luce.
La ragazza levò un poco le pupille a questo spettacolo, e tutto il suo viso espresse la caparbia del bambino analfabeta che finge di leggere tenendo il libro capovolto.
Due giorni dopo, arrivò un signore molto magro, il cui nome è abbastanza noto. Egli ebbe l'ingenuità, non dico di dichiararsi uno scrittore, ma di confessare timidamente che per lui "il libro ha una certa importanza"; due o tre volte sulla sua bocca fu sorpresa e colta distintamente la parola "ideali" Subito fu come se un sorcio ben nutrito fosse caduto in un regno di gatti. Una simpatia, alla quale era misto l'appetito e non era estranea la ferocia, cominciò a luccicare negli occhi delle signore e signorine sportive, e anche dei signori. Quel gentiluomo fu invitato a colazione, a cena, a gite, a balli notturni, sempre con la speranza che a un certo punto, perduta la testa, egli recitasse una poesia o facesse un lungo discorso con parole come "ideali", "coscienza", "dignità" Ma a dire il vero, malgrado i bicchieri di vino che, in quelle occasioni, per la sua grande ingenuità e remissione egli si trovava sempre ad aver già bevuto senza sapere come, dalla sua bocca non sfuggì mai alcunché di anormale. Le grosse cortigiane, che erano venute da Roma pilotando le topolino, le ragazze sportive del Veneto, della Lombardia e dell'Emilia, le Siciliane che lì diventavano loquaci e, a loro modo, sportive anch'esse, non poterono ridere come avrebbero voluto. Così, a poco a poco, lo misero da parte.
Quel gentiluomo, in tutto rispettabile, aveva al passivo una abitudine che Flaubert avrebbe chiamato pietosa: quella di notare la rozzezza, e di rimanerne spaventato. Non gli bastava avere un po’ di gusto, se ne vedeva gli altri completamente privi; egli aveva paura di far parte di un gruppo sparuto di persone squisite, in un mondo di persone brutali.
Così lo vidi diventare sempre meno espansivo, e volgere verso le finestre dell'albergo uno sguardo del tutto scoraggiato. Inutilmente cercai di convincerlo che bisognava "saper comprendere" tutti i modi di vivere, anche quelli esclusivamente sportivi. Egli mi rispondeva che la comprensione, il compatimento sono talvolta la prima forma della poltroneria, specialmente quando si rivolgono a gruppi molto più numerosi, forti e prepotenti del nostro. "Cosa vuole che facciamo?" gli dissi. "Bruciamo le Dolomiti?" Egli sorrise debolmente, non disse più nulla, e da quel momento seguì, insieme a me, le abitudini del luogo, accettando quella parte meno che secondaria spettante a coloro che non riescono né ridicoli né degni di essere imitati.
Ma proprio quando s'era raggiunta questa serena saggezza, e il destino ci ripagava mostrando a noi soli le montagne e i boschi come montagne e boschi e non come attrezzi per esercizi invernali ed estivi, quando, seduti sotto un albero, l'uno di fronte all'altro, quel signore ed io ci scambiammo a bassa voce impressioni poetiche, quando stavamo per trovare gradevole quello spettacolo di persone che non uscivano mai dal sonno interamente e ad ogni occasione vi rientravano, ecco venire da noi una signora con l'aria dimessa di chi vuole giustificarsi. "E' necessario," ci domandò, "per la vita di un popolo dare alla luce i Promessi Sposi, la Norma, la Ginestra, il Barbiere di Siviglia? A che giova? Io non vorrei vivere in un tempo nel quale, andando a teatro per una novità, capita facilmente di vedere un capolavoro, e tagliando le pagine di un libro nuovo, ci s'imbatte in espressioni che non moriranno mai. A che mi servirebbe?... Se lo lasci dire: in fondo si vive di solo pane..."
Noi, che avevamo del pane in una cesta, lo dividemmo in tre pezzi e, insieme alla signora, cominciammo ad addentarlo, guardandoci negli occhi ogni volta che riempivamo la bocca. Quando l'ebbimo ingerito, ci domandammo cosa rimanesse da fare ormai della vita dato che il nostro pane l'avevamo già mangiato.