La vittoria degli animali

 

 

Era il settembre del '38. Quando arrivammo nella casa di campagna, vedemmo attorno a noi pochi animali. La casa era al pianterreno; la sala da pranzo e una camera da letto rispondevano sotto l'arco di una terrazza, entro una corte pavimentata che, uscendo di sotto alla volta, si mutava in orto. A destra dell'orto, su tre scalini, un cancello di legno metteva in un terrapieno piantato a vigna; a sinistra, un cancello simile metteva nella strada.

Settembre era al principio. Poche furono le mosche ch'entrarono nella sala da pranzo, quando sul tavolo fu posato un canniccio di fichi. Il verdone, dimagrito da un anno passato in città, per colmo di misura entro una camera di cui la lampada rimaneva accesa fino a tarda notte, non aveva alcuna forza di cantare. Dalla vigna, si affacciò un gatto di cui si contavano le ossa. Verso sera, la parete bianca della mia camera fu attraversata da un topo anch'esso meschino.

Nessuno di questi animali turbava il silenzio; come il verdone non cantava, così il gatto non miagolava e le mosche non ronzavano.

Sulla fine di settembre, tutto era cambiato.

Noi non siamo ricchi, e non siamo nemmeno benestanti; dalla nostra tavola si butta poco e nulla. Nondimeno, con gli avanzi della nostra povertà, con l'odore quasi del nostro pane, coi leggeri strati di salsa che rimanevano sulla tovaglia, con le macchioline di caffè zuccherato, eravamo riusciti, pur senza volerlo, a nutrire un mondo di animali, a fondare società d'insetti, a incoraggiare uccelli e rettili.

Sulla fine di settembre, i gatti, che venivano nella corte, erano quattro, e avevano le movenze di piccole tigri; il verdone, pettoruto e coperto di penne, cantava continuamente e duellava con tutti gl'indici che si ficcavano tra le sbarre della sua gabbia; i topi, che correvano la notte sul pavimento, somigliavano a palle nere; un numero straordinario di scorpioni e serpentelli alzava la testa; animali notturni, alati e striscianti, uscivano con un sibilo dalle stanze quando noi, la sera, vi entravamo; le mosche erano infinite, tutte grosse e sonanti, e risiedevano, non solo entro la casa, ma anche sul muro dell'orto e sul cancello.

Ed ecco questi animali mettersi all'opera contro di noi.

Prima, assalirono le nostre amicizie, con lo scopo evidente d'isolarci. L'ingegnere e il commendatore, gli unici che avessero la cortesia di venire ogni tanto a visitarci, arrivavano con una nuvola di mosche attorno ai capelli imbrillantati. L'ingresso nelle stanze in simili condizioni li turbava profondamente e li scoraggiava dal tornare.

Erano i giorni in cui, nel cielo del nord, volava Chamberlain. Gli amici venivano per parlare della prossima guerra. Ma i discorsi, che si facevano nel cortiletto, eran turbati accanitamente da questi insetti e animali ingrassati da noi. Mio cugino, nel pronunciare non so bene quale parola, inghiottì viva una mosca. Questo lo fece sputare per mezz'ora di seguito e gli impedì di dire una profezia abbastanza seria ed esatta; e cioè che la guerra non sarebbe scoppiata.

Ma se questi animali si fossero limitati a strozzarci in gola le profezie, il guaio non sarebbe stato grande. Essi si proposero anche di renderci ridicoli. Una sera, che la radio comunicava un ultimatum, i gatti si misero a miagolare in tal modo vicino all'apparecchio, che mia cugina capì che la guerra era scoppiata. Del trambusto che ne seguì, profittarono le lucertole, che si misero a correre sotto le scarpe del commendatore, dell'ingegnere, mie e di mio cugino, facendo scivolare per terra il più grasso di noi quattro.

Quando poi a quel torbido settembre successe il più tranquillo degli ottobri, e la radio d'un tratto cominciò a versare fiumi d'amore, gli animali, non potendo più ingannarci sull'argomento della guerra, passarono ad altro.

Un gruppo di mosche dormì, per una intera notte, sulla faccia di un angelo di maiolica, lasciandola nera come quella di un africano. Questo piccolo scherzo o caso ebbe come effetto che mio cugino e il commendatore stavano per venire alle mani in una discussione sulla razza. Io ero assente. Quando rincasai, seppi che il commendatore s'era valso, per la sua tesi, di quest'argomento: esistono angeli di razza nera. Argomento assurdo e provocatorio, ch'egli non aveva ricavato da alcun libro, ma preso sul posto da quella statuina che vedeva al di sopra della sua testa.

Di notte, il predominio degli animali era ancora più forte. Zanzare, mosche, farfalle, conoscendo i punti del mio corpo sui quali bisogna battere per suscitarmi o paura o letizia o coraggio o dolore, mi facevano sognare quello che essi volevano: ladri, donne, nemici, trionfi, acqua, fuoco, miseria, ricchezza. Una volta, posandosi in circolo attorno ai miei occhi, a guisa di lenti, mi fecero sognare che avevo ottant'anni.

Ma il colpo più duro, me lo diedero le vespe.

La mia fidanzata mi aveva detto: "Se avvicini, anche per un minuto, anche per un minuto dico, la Lia, la signorina che porta addosso quella peste di profumo, tutto sarà finito tra noi!"

Un pomeriggio, la mia fidanzata entrò nello studio, e divenne pallida. "Lia è stata qui!" gridò, annusando l'aria. In realtà, anch'io sentivo "quella peste di profumo" Ma come era arrivato nel mio studio?

L'ho capito un giorno dopo la rottura del mio fidanzamento. Cinque vespe erano andate a bagnarsi nel profumo di Lia, che abitava una casa vicina, e rientrate dalla finestra nel momento stesso in cui la mia fidanzata entrava dalla porta, si eran messe a volare a mezz'aria, agitando le ali e mandando spruzzi leggeri.

La vittoria degli animali era totale.

Sogno di un valzer e altri racconti
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