Gli otto milioni del vicino Carrubba
Al mio paese, accade spesso che un uomo sui trent'anni passi di punto in bianco dalla povertà alla ricchezza. Come mai? Domandatelo al notaio: è tutta un ingarbugliata storia di testamenti fatti e rifatti, bruciati, smarriti, rinvenuti, stracciati, ricomposti, cambiati, corretti, rubati, in seguito alla quale i nipoti e i fratelli di un vecchio signore sono rimasti poveri, e quest'uomo sui trent'anni, il cui unico legame col testatore consiste nell'esser figlio di un caro amico di lui, diviene, un bel pomeriggio di sabato o martedì, l'unico erede.
Non sempre, naturalmente, queste smisurate eredità vengono arrandellate così lontano dalla famiglia: talvolta, dopo avere oscillato lungamente sulla testa di quindici nipoti, si rovesciano su quella del più piccino e del meno povero. Certo è che, per dieci o vent'anni, un gran numero di persone, passando rasente a un uliveto che si perde all'orizzonte, e il cui guardiano a cavallo impiega tre ore di galoppo per arrivare da una siepe all'altra, si domandano: "Dove andrà a finire tanta roba?" Nulla è più incerto, in questo mondo così poco sicuro, delle intenzioni di un vecchio signore scapolo o vedovo. Chi ci legge, in quella testa? L'ha scritto il testamento? Pare di sì. Ma, questo furbo matricolato, non ne avrà scritto un altro? Gli eredi si rodono il fegato.
In verità, io non so dare torto a queste brave persone. Campi di spighe estesi a perdita d'occhio, alti e fitti, entro i quali potrebbe nascondersi comodamente tutta la popolazione di Milano, boschi di querci, castagni e pini selvatici, fra i cui rami il vento della notte fa un milione di rumori l'uno diverso dall'altro, fattorie grandi come paesi, armenti di cui si sente il mugghio delle prime file, mentre quello delle ultime non giunge all'orecchio a causa della distanza, un numero incalcolabile di oggetti che brillano e scintillano, dei quali uno solo basterebbe a tenere in Isvizzera per dieci anni un diavolaccio che, la notte, fa bestemmiare i vicini perché li sveglia con la sua tosse, sono legati, da poche parole scritte su alcuni fogli conservati entro uno scaffale, a un vecchietto striminzito della cui presenza il cavallo del barroccino nemmeno s'accorge tanto egli pesa poco. E questo vecchio, che scambia il nipote per il fratello, e odia l'inquilino del terzo piano perché lo crede Francesco Giuseppe, potrà un bel giorno - si suda freddo a pensarci! -, deponendo con la penna cinque cimici su un foglio bianco, far ricco te invece di me, o un terzo invece di noi due.
Però le eredità sono scomunicate e il denaro è davvero maledetto! Questi uomini sui trent'anni, che di punto in bianco diventano ricchi, io li ho visti ingrassare o dimagrire nel peggiore dei modi, e alcuni tirarsi addosso la fama di jettatori. Chi non conosce Leontini? Camminava sempre con un cappello a larga tesa, ed entrava, ed entra ancora, nei caffè come cercando qualcuno che non trova mai, perché egli è avarissimo e non vuole sedersi a un tavolino per non spendere tre lirette. Quando, a causa di un'eredità di cinque milioni, dovette occuparsi del grano e del vino, acquistò un cappello a tese ancora più larghe, non permise che si scherzasse sul suo modo di vestire, litigò con un giovinastro che, tirandogli dalla pancia la cintura comperata di fresco, gli disse sardonicamente: "E che è, questo correggione?", ricevette un pugno nel viso e perdette un occhio. Sicché oggi è con un solo occhio, e nemmeno molto luminoso, ch'egli può esprimere di lontano il suo antico amore a una ricca e nobile signorina, la quale dice: "Sì, è ricco, mi ama da molto tempo, ma, Dio mio, gliel'avete visto l'occhio?"
Il caso di Leontini è più disgraziato degli altri, perché di solito la disgrazia delle eredità non consiste nell'impedire i matrimoni, ma al contrario nel procurarli senza discernimento.
Questo accade più di sovente fra i proprietari limitrofi. Un campo di molti jugeri confinava con un campo ancora più esteso. Il proprietario del primo, un dentista, aveva una figlia, e il proprietario del secondo era un vecchio scapolo. Fra i due possidenti correvano i migliori rapporti, e ogni tanto l'uno andava dall'altro a giocare a briscola. D'un tratto, il vecchio scapolo muore, e la sua proprietà, a causa di un testamento capriccioso, va a finire nelle mani del colonnello Carrubba, uomo scorbutico che ha un figlio sotto le armi. Scoppia subito un caso del diavolo. Un albero del colonnello si sporgeva dalla siepe e aduggiava alcune piante del dentista. A chi appartenevano i frutti di quest'albero maledetto? "A me!" urlava il colonnello Carrubba. "E allora pagate i danni che mi fa il vostro albero!" gridava il dentista. I muri divisori vennero coperti di rovi, crespini, rubiglioni; i due guardiani, diventati due siepacoli, si fissavano in cagnesco, e talvolta, nel togliersi il fucile di spalla, si facevan passare l'uno in faccia all'altro la bocca della canna. "Quanto è vero Dio, un giorno o l'altro gli faccio fare una fiammata!" masticavano fra i denti. Ma la volontà di Dio è sempre per il bene. All'insaputa del padrone e dei guardiani, fra l'un campo e l'altro cominciarono a succedere talune cose piccanti. Il polline di una pianta, che il dentista aveva ritirato dalla Malesia, andò a cadere nel pistillo di una pianta del colonnello. Nacque un frutto mai visto. Un montone del colonnello salta la siepe e feconda di furia una pecora del dentista, la quale non aveva mai voluto saperne. I due proprietari bestemmiavano come turchi. I vecchi guardiani vennero cambiati con due brutti ceffi che si diedero veramente a spararsi fucilate sui piedi... Le cose precipitavano al peggio, quando il figlio del colonnello, Saretto Carrubba, tenente di sanità, venne a passare in campagna alcuni giorni di licenza. Era un ragazzo alto e ben fatto, che sedeva l'intero pomeriggio a gambe larghe su un tronco rovesciato, fissando in silenzio Dio sa che cosa: forse il sole del tramonto, forse la casa del dentista, forse la siepe o qualche suo stupido pensiero. "Sembra pigliato dalla bomba!" disse, una sera, il dentista, ridendo. E la moglie Rosaria, un diavolo di donna, "che non si bastava a pagarla", rise anche lei. D'un tratto, non rise più. "E se invece guardasse nostra figlia?" mormorò.
"Ma nostra figlia non c'è."
"Che importa? C'è stata ieri."
"Ma nostra figlia è fidanzata con Giuseppe Licata: hai combinato tutto tu!"
"Che vuol dire, amico? La proprietà di Licata è a dieci chilometri di qui! E poi vuoi mettere il figlio Licata col figlio del nostro vicino Carrubba? E infine, Licata non è stato ancora ammesso in casa. Andiamo, amico, lascia fare a me!"
L'indomani, in casa del dentista, fra la signora Rosaria e la figlia Liliana si svolge questo dialogo.
(Frattanto il colonnello e il dentista si sono abboccati sull'argomento, si son trovati d'accordo, hanno bevuto insieme due bicchierini di vermut. I due nuovi guardiani vengono cacciati a calci nel sedere come due attaccabrighe; la siepe è abbattuta; gli armenti si uniscono, confondono, mescolano, in una nuvola di polvere, fra ruggiti e belati di giubilo, specie da parte del montone del colonnello, che si trova a suo agio; e il vento di primavera non sarà più intralciato da palizzate e tendoni il giorno in cui vorrà portare il polline da una proprietà all'altra.)
"Liliana, che fai? dormi?"
"No, mammà, penso a lui."
"E chi è lui?"
"Come chi è, mammina? Lo sai bene chi è!"
"Sta a sentire che è Giuseppe Licata!"
"Mamma, ne sono innamorata!"
"Diavolo, come fate presto! Già innamorata!"
"Maltrattami ora perché mi sono innamorata! Un mese fa, da quella stessa poltrona, mi hai detto: "Che ci avete nel petto, le ragazze d'oggi? Non riesci nemmeno a innamorarti di un giovane come Giuseppe Licata!""
"Dicevo così per provare... E poi non te l'ho detto! Come potevo dirti una cosa simile? E infine Giuseppe Licata non è tanto giovane. Abbiamo saputo che si nasconde gli anni. Bello, lui: ne aveva trentuno! Con quella faccia sempre pigliata dallo scirocco! Ne ha trentadue e mezzo: possiamo dire trentatré... Andiamo! I veri giovani non devono avere più di ventotto anni... magari ventotto anni e mezzo. E c'è una bella differenza tra la faccia di un vero giovane e quella di Giuseppe Licata! Sai dove si vedono gli anni? vicino alle orecchie! Guarda, per piacere, vicino alle orecchie di Saretto Carrubba! Che pelle liscia, tirata!"
"Di Saretto, chi?"
"Carrubba."
"Non lo conosco."
"Andiamo, non lo conosci! Al caffè, siede sempre vicino alla palma... Non lo conosci... Perché dici sempre bugie?"
"Io non dico bugie... L'ho visto da lontano, quel giovane, ma non lo conosco... Mamma, tu dicevi bugie quando eri ragazza? Ed eri più bella di me, no?"
"No, io non dicevo bugie, cara, ma tu sei più bella di me... Che sciocchezze mi fai dire! Alzati, non stare così a lungo sdraiata, di pomeriggio!"
"Oh, egli fra poco telefona!"
"Telefona!? Qui, in casa mia? Siamo a questo punto?"
"Mammina, fino a ieri, quando sentivi il campanello, mi strappavi dal letto e mi facevi correre come una trottola!"
"Ma non sapevo ch'era lui!"
"Oh, mammina: lo sapevi! E' lui! mi dicevi. Corri!"
"Ebbene, tu sei una piccola bugiarda! Ma se anche dicessi la verità, ormai quello ch'è stato è stato, ci si mette una bella pietra sopra, e si pensa ad altro!"
"Madonna benedetta, io non posso dimenticare Giuseppe Licata!"
"Senti, cara: mille Giuseppe Licata non fanno un'unghia di Saretto Carrubba. Insomma, piccina, vuoi saperlo? Questo giovane così alto e bello ha ereditato otto milioni!"
"Giuseppe li ha, pure lui, tre milioni!"
"Tre non sono otto. E poi la proprietà di Carrubba confina con la nostra."
"Come faccio? Come faccio? Questa sera, al caffè, come farò?"
"E' presto detto, cara. Invece di guardare verso la fontana, dalla parte in cui siede Giuseppe Licata, che fra l'altro di lì arrivano gli spruzzi dell'acqua, guarda verso la palma dove siede Saretto Carrubba. Penserò io a mettere la sedia in modo che tu, come se nulla fosse, ti trovi dirimpetto a Saretto Carrubba. E alzati, perché così mi diventi grassa, e so che a Saretto non piacciono tanto le grasse!"
La ragazza si mise a strillare: "Oh, dove mi porti, mammina, dove mi porti?"
"Va a farti la doccia!"
La ragazza entrò nel bagno, sempre piagnucolando, e aprì la doccia. In quel momento il suo amore per Giuseppe Licata toccò l'apice: il suo amore per questo brav'uomo che le permetteva di stare sdraiata sul letto l'intero pomeriggio, dato che, se fosse ingrassata, non gli sarebbe piaciuta di meno.
"E spicciati!" disse la voce della madre. "Al telefono rispondo io!"
"Mammina, se è Giuseppe, digli per favore che gli ho voluto tanto bene e che per l'avvenire dobbiamo restare amici."
"Lascia fare a me! Tu, lavati!"