Introduzione
di Enzo Siciliano
La "Corda pazza" di Brancati
Brancati scrisse Sogno di un valzer in stato di grazia. Perché questo lungo racconto, quasi un romanzo, non sia stato mai raccolto in volume, e sia rimasto sepolto fra le pagine di "Quadrivio", dove fu pubblicato nell'estate del 1938, non so dirlo, non mi è capitato scoprirne una spiegazione.
Sfondo di una città siciliana: Brancati la chiama Nissa, ed è Caltanissetta, inerpicata su colline aspre e ventose, sigillata da una mania singolare. Tutti gli abitanti vanno ragionando in chiave metafisica della vita e della morte: ciascuno di essi filosofo, ciascuno un dio delle parole e del pensiero. "[...] Accade a Caltanissetta, ove il carrettiere, che parte alle due del mattino, guidando, sdraiato e con un occhio, il cavallo che anch'esso sonnecchia, scansa a mala pena tre figure grigie e curve che non vorrebbero andare a letto prima di stabilire se il mondo sia o non sia una creazione dello spirito umano": così scrisse Brancati ne I piaceri.
A questo raziocinare, folle ed evasivo, maniacale e sinistro, è dedicato il racconto. La città che fa quadro pare essa medesima motivo di narrazione.
"Di un ballo, si sentiva veramente il bisogno." Vita sedentaria che si incrosta su se stessa, come una malattia che calcifichi ogni secrezione umorale: è la vita della provincia siciliana.
I forestieri, professori di scuola, magistrati, al veder trasferiti i loro colleghi, partendo il treno dalla piccola stazione alla volta di Palermo o di Catania, le metropoli, quasi in uno spasmo si sentivano coralmente travolti a un imperativo: "Dobbiamo organizzare un ballo!"
Si decide di affidare la cura organizzativa dell'intrattenimento al professor Ottavio Carrubba, persona quieta, colta, civile.
Padre di famiglia, Carrubba coltiva cervellotici diorami di parole: è un ex prete, amante e gran dicitore di letteratura. "Con la bocca a un millimetro dalla pagina, egli cominciava a recitare le prime parole; poi il collo, con uno scatto, risollevava in aria quel viso; ed egli, tenendo fissi in un punto gli occhi che, privi di lenti, erano ciechi, recitava il resto del periodo."
Avvolgendo nella sua misteriosa voce le più efferate espressioni verbali, Carrubba vestiva di bellezza ogni cosa, e sapeva con i gesti delle mani, persino col corpo, simulare fantasmi d'altrui corpi e illudere gli astanti con irreali presenze.
Aveva scritto una farsa, ma si sospettava che sotto la sua ispirazione giocosa si nascondesse qualcosa di assai più grave - e di questo era convinto lo stesso presidente del Tribunale. Troppo profondo e rispettabile, e innocente nella sua rispettabilità, era l'ex sacerdote.
Proprio quelle qualità, dove l'estro si mescolava a un alto tono riflessivo, fecero sì che egli venisse commissionato di organizzare il ballo, il ballo dove le ragazze di Nissa potessero trovare marito, e gli scapoli forestieri una moglie che consentisse loro un soggiorno più che gradevole nella singolare cittadina.
Una festa ricca di invenzioni, di giochi e travolgenti attrattive: chi meglio di Carrubba avrebbe potuto darle vita?
Tornò l'"inclito" cittadino a casa gravato dell'incarico, felici le signore della piccola società per quell'investitura, loro che amavano leggere Pirandello e capire, attraverso le sue pagine, "perché spesso si sentissero non una, ma due" In Pirandello, maritate e zitelle trovavano spiegazione alle proprie debolezze erotiche e sentimentali, perché avevano dato un bacio all'amico del marito, o tradito, sia pure fugacemente, il promesso: tutto era "un sogno", e i sogni estinguono i desideri...
Ottavio, dunque, era tormentato dal progetto del ballo: gli ci voleva un consigliere. Lui ha in testa un nome, l'uomo più saggio di tutta Nissa, un uomo superiore, un genio. Potrà annoverare costui fra gli altri nomi del comitato promotore della festa?
L'uomo cui pensa Carrubba è Giovanni La Pergola, meschino rivenditore di verdura e frutta che tiene bottega in via delle Calcare, e nella stessa bottega vive con moglie e figlio. I due sono vicini di casa: grande è il salto sociale che li divide. Ma Ottavio vede in Giovanni perennemente accesa la scintilla dello spirito, a lui confida le proprie riflessioni, le pagine scritte e i progetti delle pagine future: insomma, il fruttivendolo è il suo Socrate, colui che basta indicare con la semplice e luminosa parola di Amico.
Perché sia difficile coinvolgere La Pergola nel comitato è faccenda intuibile. Carrubba si studia di ovviare agli ostacoli; ma più gli ostacoli ci sono più egli, osservando il volto "così espressivo, profondo e cristiano" dell'Amico, si chiede il perché dell'ingiustizia umana.
Infine, il fuoco di un'idea. Carrubba pensa che la signora Lisa Martoglio potrà decidere per il bene di La Pergola, e quindi per il successo del ballo.
Ninfa Egeria, calze di seta, abiti di crespo, scia di profumo dietro il suo passo soave di dea, Lisa Martoglio è anche in cima ai pensieri di Ottavio, lei, incarnazione di un eterno femminino che può persino sovvertire l'immagine della donna, quale è materializzata in casa Carrubba da una moglie e da una figlia.
Ottavio invita la ninfa in casa sua. Fa in modo che figlia e moglie vadano al cinema: lui da solo, nella penombra mistica del salotto, scivola nella più estenuante rêverie d'attesa. Tintinna il campanello: Lisa è da lui. Avvolta al collo da una sciarpa giallo-limone, quel che di nudo le usciva dall'abito biancheggiava "come le penne di un cigno"
La signora chiese a Ottavio di leggere, e Ottavio lesse passi dall'Etica aristotelica per una mezz'ora, finché la voce non gli divenne fioca. In quel punto si fece buio nella stanza: Lisa si baloccava con l'interruttore della lampada; aveva spento.
Ottavio tremò: si aspettava che la mano della donna lo raggiungesse. Invece, la lampada tornò a spandere la sua luce. Pallidissimo, il professore si levò in piedi, "animato da una decisione che non pareva la sua" A Lisa bastò sollevare un braccio per trattenerlo lontano da sé: si stupì che un uomo "potesse pesare così poco", e "per un momento, Carrubba le piacque anche fisicamente, e proprio per questa sua mancanza di peso che gli dava un che di piumato e leggero, quasi da uccello"
Quel baluginante momento d'amore si risolse - è ovvio - a vantaggio di La Pergola. Lisa interruppe l'incantamento e parlò proprio di Giovanni. A Ottavio non parve vero. E' un uomo dotato d'una grazia che non tutti possono "vedere" Innocenza, gentilezza, perspicacia, spirito di verità: sono queste le parole che Ottavio spese per l'Amico: e la ninfa compensò il suo ardore generoso.
Con La Pergola al fianco, Carrubba si getta felice nel progetto del ballo. Ma La Pergola ha un figlio discolo, Ciccino, che ai cantoni di strada si gioca a carte anche la camicia e, non contento, anche il misero arredo di casa. Si giocò tutto una sera. Pietosa, caritatevole, Lisa Martoglio arrivò che era già scuro in via delle Calcare e donò di suo quanto bastava a rivestire la povera casa appena spogliata.
Infine, tutto è pronto per il ballo; ma il giorno della vigilia Nissa viene travolta da una mania convulsa. Sono arrivati in città, e predicano proprio nella sala municipale dove dovrebbe aver luogo la festa, alcuni padri paolini. La vita, la morte, l'idealismo, il materialismo, il destino umano, il volere divino, e il vanitas vanitatum... Il folle elucubrare dei nisseni trova nelle parole dei paolini imprevisto nutrimento, e tutti concertano un dibattito, una conferenza o un serrato scrutinio di concetti. Chi pensa più al ballo? Soltanto Carrubba e La Pergola.
Ma non è tutto. Partiti i paolini, l'inesausta e collettiva voglia di filosofare trova nuova esca. Viene invitato in città un famoso antroposofo milanese, e la conferenza di costui, con evocazione di sopramondi e di mondi interiori, di virtù astrali e di corpi eterici, provoca un viluppo di pazzie, di intellettuali delizie e vertigini metafisiche che pare afferrare al collo con maggior furore la cittadinanza intera. Si parla di reincarnazione, di morti vaganti per gli spazi fisici: l'occultismo domina la mente di ciascuno.
La Pergola è travolto da quella insolita passione: ma ne è travolto in segreto.
Intorno a lui, via delle Calcare va trasformandosi in un vero bordello. Nei bassi le donne, appena l'aria chiara va imbrunendo, adescano furtive i passanti. Sono deliri d'amori fugaci, e anche ossessioni generate dalla povertà. La stessa moglie di La Pergola si dà a quel commercio: sarà l'assedio della miseria, sarà la ragione della carne. Ma La Pergola, sant'uomo, non si accorge di niente: la sua fantasia va producendo fantasmi, anzi, un fantasma.
Nel passato di lui c'è un lutto: suo fratello, ancora giovane, fu ucciso. Quel morto gli appare in sogno, e comincia a illustrargli verità tremende. Gli addita in quanta degradazione siano vissuti, e lui, Giovanni, continui a vivere; gli mostra di quante illusioni la vita sia oscurata; infine, gli sussurra chi è stato il suo assassino, chi l'ha lasciato precipitare morto in un crepaccio.
Un'orrenda rivelazione. E' stato Carrubba, l'affettuoso amico, dice il sogno. Difatti - questo il pensiero che schianta la povera mente di Giovanni, - difatti! Che ragione avrebbe il professore di essere così gentile con lui, così attento, così disposto, se non quella di farsi perdonare, senza confessarlo, un mostruoso delitto?
Per Giovanni, è come se gli si spalancassero davanti le porte della certezza. Troppa distanza sociale lo divide da Carrubba, ed egli non ha mai capito il perché vero dell'affetto che colui gli ha dedicato, e le parole buone, e i conforti materiali oltreché spirituali...
Nissa va destandosi dal sonno antroposofico: tutti ormai chiedono il ballo, l'occasione magnifica del valzer, quasi usciti a nuova luce dopo un purgatoriale travaglio di pensiero.
La Pergola no: La Pergola crolla nel suo inferno. Ossessionato dai sogni, esce di bottega, e come un pazzo, quale è, si precipita in casa di Carrubba con un'ascia.
«Fu nel viso che La Pergola colpì. E subito ebbe l'impressione di svegliarsi da un brutto sogno. Il fratello, l'antroposofo, il ballo... Quante sciocchezze gli affastellavano la mente! Ora ricordava, con esattezza, che il fratello era stato ucciso da una schioppettata, in via Cavour. La storia del burrone mostrava la sua assurdità.
«Ma di questo brutto sogno, che rapidamente gli lasciava il cervello, solo rimaneva, con l'aria di non voler più sparire, il viso, ferito a morte, del professor Carrubba, nel quale la contrazione del dolore non turbava del tutto la consueta dolcezza. Questo era spaventoso.»
Sconvolta dal delitto, Nissa chiamò di nuovo l'antroposofo a dibattere il caso. Tutti presero il lutto, ma danzarono la festa del valzer. A lutto era vestita anche la moglie di La Pergola, ma la sera si cambiava con un abito a fiori verdi per intrattenere i suoi occasionali clienti. La signora Lisa Martoglio si gettò ai piedi del marito ingegnere e gli confessò di essere stata "l'amante del professore" L'ingegnere perdonò con un bacio sulla fronte: Carrubba, per generale riconoscimento, era stato un uomo superiore.
Tutti si trovarono quindi al funerale, al cimitero, e continuarono a discutere della filosofia di Steiner e di Hegel, dell'epoca di Saturno e dell'Atlantide. Sulle lapidi intorno si leggevano nomi di pensatori e ragionatori: chi aveva sostenuto che l'uomo è un uccello; chi aveva disquisito intorno alla natura tripartita dei concetti; chi, ancora, aveva sottolineato l'opportunità di condurre una lotta di classe all'interno della propria persona; qualcuno aveva speso l'intera esistenza a dimostrare che Dante era un pagano, qualcun altro a dimostrare che era un buddista... "Per nessuno la vita era stata semplice; nessuno, prima di chiudere la sua giornata, aveva potuto frenare il bisogno di salire su qualche cosa e dire a voce alta che non era d'accordo col senso comune. Tutti lo avevano odiato, questo volgare senso comune; e negli occhi dei ritratti, che finivano di ornare talune tombe si leggeva chiaramente quell'odio."
Quei morti, ancora torturati dal bisogno infallibile di discettare, mandarono gemiti di gioia al sentire che i vivi, i cari vivi di Nissa, intorno a loro, ancora discutevano delle idee e delle non-idee, di Saturno e dell'Atlantide, e di tutte le vite possibili che si possono vivere sotto il cielo stellato.
Sciascia ha scritto che la continuità della letteratura siciliana sta nella "corda pazza", la corda sulla quale l'uomo pirandelliano del Berretto a sonagli vuole intonare la sua aria di libertà e demenza: la demenza e il sogno toglierebbero i lacci alla costipata fantasia umana.
Come Sciascia, credo che esista una sorta di continuità letteraria siciliana, questione d'uno stile, d'una ispirazione, e di una storica nevralgia espressiva.
La "corda pazza" dei siciliani non si affida al volubile associazionismo, non libra nell'aria con la levità d'una nota o d'un grappolo di note esumate dalla cavità d'uno zufolo la propria obliqua sonorità. Quella "corda" inanella ragionamenti, procede a fil di logica: usa la logica a contropelo sul senso comune, per sovvertirlo, per mostrarne l'inconsistenza, la rigidezza, per dare corpo a una antica collera contro la vita.
Oh, questa purezza di vita, ricercata con una dedizione facinorosa, è un mito che coinvolge poveri e ricchi, un'epidemia, così da sembrare una leggenda appresa con le prime parole materne, che circola nel sangue, una favola immemoriale.
Quella vita purissima, un fuoco che arde al di là dell'apparenza e tutto illumina di sé, va inseguita superando qualsiasi difficoltà, fosse pure un naufragio, o magari il lutto e la morte.
L'ardore che essa suscita è torvo, denso, impregnato di febbri canicolari come un vecchio vino meridionale. Chi ne è preso fino a perdersi percorre le vie dell'esistenza in preda a una sinistra eccitazione.
Brancati ha pagato il suo tributo a quella "corda" ampiamente, nel corso di tutta la sua opera. Resta da vedere il modo in cui l'ha pagato.
Sosteneva che i siciliani di costa orientale, i catanesi e i siracusani, conoscessero l'ironia o, anche, una comicità grossolana: la loro qualità principe sarebbe quella di "sapere essere insieme personaggi e autori di commedie. L'ironia tempera gli errori". I siciliani occidentali, fra Agrigento e Palermo, gli sembravano invece privi di ogni capacità di sorriso, e più che mai disposti a elucubrare, a ragionare. Il confine fra i due atteggiamenti verrebbe a situarsi proprio a Caltanissetta, "sulle nubi", fra Enna e Nissa: "Il senso del ridicolo abbandona proprio qui la littorina che da Catania vola a Palermo. Se il sorriso è una luce, la costa occidentale della Sicilia può dirsi perfettamente al buio." (1)
I meridionali italiani amano molto sagomare differenze psicologiche e di costume sugli orli delle mappe catastali, sulle differenze gergali e dialettali fra contrada e contrada. Per chi abbia ricordi della vita del sud fino all'alba degli anni Sessanta, giro di boa della omologazione "nazionale", per dirla con Pasolini, inscenata dal consumismo di massa, erano discussioni interminabili sulle soglie di ogni farmacia, dove si incontrava sempre un professore di ginnasio o un avvocato pronto a mostrare con le più complicate teorie come al di là della cima di una collina l'orizzonte morale della provincia si capovolgesse. I meridionali, senza saperlo, sono votati ai più raffinati studi di antropologia: una antropologia cui basta l'intuito e una notevole capacità verbale.
La distinzione di Brancati si affida a un simile intuito, ma appare vestita d'una sua imponderabile verità. Su quello sfondo va a dipingersi il ritratto di Nissa e dei suoi abitanti in Sogno di un valzer; su quello sfondo, Brancati, siciliano di costa orientale, fa di sé un "personaggio" e un "autore di commedie" E' in quella distinzione che egli trova il reagente per scoprire una qualche continuità, forse ironica, all'interno delle contraddizioni irrisolvibili di un "io" vaneggiante e fantastico.
Nissa, dunque, è la città dove sentimento del comico e sua assenza sfumano: vola la littorina, e perde il riso che l'aveva mossa alla volta di Palermo.
Dalla porta occidentale, proprio da Palermo, Brancati vedeva entrati in Sicilia "gli arabi, i cavilli, le sottigliezze, l'io e il non io, la malinconia e i musaici"; dalla porta orientale, da Catania, "i fenici, i greci, la poesia, la musica, il commercio, l'inganno, la buffoneria e il comico" (2) A Nissa fanno conflitto sottigliezza e buffoneria, malinconia e inganno. Arbitro di tutto questo - appunto suo escogitatore, - Brancati stesso, un arbitro comico: e la sua invenzione, per pura pazzia narrativa, diventa verità.
Che Brancati avesse una interiore confidenza con le malinconie, gli inganni di fantasia, le controverse buffonerie dei siciliani, non c'è dubbio. E' scrittore a ventuno, ventidue anni, nei racconti sul professore Trampolini conferenziere a Catania, o, qualche tempo dopo, narratore di viaggi d'educazione e scoperta d'un siciliano al nord, in quelle sinopie di romanzo che sono le Avventure di Tobaico, e non ha difficoltà a rappresentare, a divinare la follia quieta e civilissima d'un paese in cui si muove come "personaggio" e "autore di commedie"
Ma è nel Sogno di un valzer che tutto questo tocca lo stato di grazia, matura in uno stile grumoso e sensuale: la follia diventa lusinga della morte, i sogni sussurrano alla realtà bieche vendette; dai ridicoli contrasti fra io e non io esplode il lampo livido, nella risata traluce la piega del terrore. Brancati scopre l'intollerabilità della coscienza e, ancora di più, l'intollerabilità di quel sepolcro di desideri, di rabbie inconsulte e magniloquenti manie, nascosto nel malconcio impenetrabile della nostra coscienza. Chi sono Ottavio Carrubba e Giovanni La Pergola se non lo specchio reciproco d'un inconscio torbido e funesto, ma anche stranamente ilare, il quale, pur nella tragedia che lo invade, non riesce a comporre il proprio eloquio, sempre più si arricciola in un viluppo di segni, la metempsicosi, Saturno, l'Atlantide, quanto mai barocco e concettoso?
Barocco e concettoso: poiché, nella sua limpidezza, una limpidezza finanche epigrammatica, Brancati è scrittore di stile eufuista e concettista. Ma, in un simile barocchismo, egli ha una virtù: "la virtù paradossale", come scrisse Sandro De Feo con veridico acume nella prefazione al postumo Diario romano, "di andare rapidamente al segno e dritto al segno seguendo vie sinuose"
Tale è la "corda pazza" di Brancati. Ed essa annoda lo stile di Sogno di un valzer plasmando, nei personaggi, ogni asimmetria di comportamento, psicologica o morale. Il narratore di questo breve romanzo non ha confronti nella narrativa degli anni Trenta se non col Moravia che, quasi nello stesso giro di tempo, scriveva i lunghi racconti de L'imbroglio. Fra i due si potrebbero ritrovare non cadenze stilistiche paragonabili (Moravia guardava a Manzoni e Brancati al perfezionismo torturante di De Roberto), ma una paragonabile inclinazione all'ombreggiatura seppia, alla pittura a grana bitumosa degli interni, interni di casa zeppi di oggetti, e dove gli stessi personaggi vengono obliterati come oggetti. Qualche dato culturale, comunque, accomunava i due scrittori, coetanei, entrambi nati nel 1907: ed erano non soltanto le letture francesi, il gusto stendhaliano della scrittura à la diable, ma la narrativa e il teatro di Pirandello, seppure letti da due prospettive diverse, da Roma per Moravia, da Catania per Brancati.
Ciò significava che per Moravia fosse più persuasivo il realismo puro, o la commedia cittadina e borghese, sia pure piccolo borghese, di Pirandello; mentre per Brancati l'odore "casalingo", la maniacalità sragionante, scaricata di sensualità, che fa ricco lo scrittore di Così è (se vi pare)
C'è da ricordare una pagina di Brancati, un articolo per "Il Tempo" dell'8 marzo 1948, dal titolo Pirandello diabolico?: "Basta gettare uno sguardo sulle fotografie di Pirandello per vedere com'egli tenesse alla sua espressione diabolica." (3)
Dice Brancati che Pirandello scambiò il suo sorriso per un diabolico ghigno. Furono gli studi nelle università tedesche a favorire quello scambio: "nelle vecchie leggende, il diavolo frequenta le università, specie quelle tedesche." Pirandello, salendo le scale dell'università di Bonn, dove si laureò, si sentì posseduto dalla sinistra "macchina della malignità": "Non pensò mai di essere un bravo siciliano, della nobile e casta razza di Verga, quale insomma la natura lo aveva fatto ed egli non volle mai considerarsi."
Accade che il primo dopoguerra, "con la sua rozza ammirazione per il diabolico", incoraggiasse lo scrittore nell'equivoco: "Fu un periodo di successi e di sbagli; mai natura così alta incorse in errori tanto ingenui; un enorme numero di sciocchi sfogò con applausi, studi, articoli di giornali, la gioia che gli sciocchi provano sempre quando un poeta accenna a perdersi... Nondimeno, chi potrà negare a questo siciliano, coperto di errori, un altissimo rango? Egli sarebbe stato il nostro Gogol se non avesse abbandonato il suo "mondo" di maniaci, di tipi, di fissati, tutto pieno di un odore casalingo, per la porta di servizio della filosofia. Verga aveva gettato il primo sguardo su questi siciliani strambi e chiusi in se stessi, che il destino avrebbe assegnato per intero all'arte di Pirandello."
L'istinto portò Brancati a chiudere con doppia mandata l'usciolo della "filosofia", casomai ad aprirlo per succhiarne l'umore comico e traverso. Maniaci e fissati, che brancolano fra concetti e concettuzzi con sommari svoli, si barricano nel minuscolo fortino della propria demenza e là dentro lasciano giganteggiare fantasmi quasi fossero redivivi Don Chisciotte: questi furono i suoi personaggi.
Il nome di Gogol, per Brancati, tanto è stato ripetuto, è appena una metafora: è la metafora per additare uno stile che finge la caricatura e invece dà ritratto di uomini che appartengono a un universo dominato dal caos, un caos dove si esprime una caotica aspirazione all'ordine.
Personaggi pazzi, d'una filosofica pazzia: il loro filosofare non è altro che il desiderio voluttuoso, lo spasmo e la frustrazione per un irraggiungibile mondo di puri concetti. "Una realtà [...] che non si è mai costituita in società", questa è la diagnosi che Sciascia pronuncia della follia siciliana. La Sicilia che assomma in sé, e li potenzia, tutti i caratteri del sud italiano, e li discrimina in sorriso o in tetra malinconia, fa teatro, uno splendido teatro, ma anche un luttuoso teatro, di questa inattinta condizione di organicità sociale. Se nei secoli passati essa ha espresso aristocratici e contadini, gli uni funzione degli altri, accomunati da una medesima febbre linguistica ed espressiva, oggi il frutto è una pseudo borghesia "da rapina" che dei propri machiavellismi, "praticità" e mafiosità non chiede riscatto. Sembra li svezzi dalle arcaiche tradizioni rurali di cui sono impregnati, e invece sempre più ve li agglutina.
In Brancati si avverte, per tutto questo, una sensibilità da narratore, quella penetrante invenzione di psicologie, il trasformare in favola una natura polimorfa perché un segreto sia sciolto.
Questo segreto, dallo stato di grazia in cui Sogno di un valzer fu scritto, è reso vivo, è spinto più in là dove il buon senso lo confinerebbe. Giovanni La Pergola confonde il sogno con la verità effettuale fino al punto di uccidere per vendetta. Ma chi, in definitiva, uccide nel suo amico Ottavio Carrubba? Aver immaginato che Carrubba sia l'assassino di suo fratello è uno schermo, dietro il quale egli ha riposto una magra invidia, quella di sentirsi oggetto di una affezione che non sa giustificare. Perché Carrubba lo considera un genio? Brancati non lo dice, ma non ha bisogno di dirlo ai propri lettori, perché quell'affetto e quella grande considerazione, origine d'una tragedia, nascono dalla malinconia, da uno sfogarsi incongruo di sottigliezze mentali, da una mania che basta poco si trasformi in persecuzione. Infatti, in una mente resa meno scabra dalle idee, più rustica, maggiormente offesa dalla fatica di esistere come quella di La Pergola, quelle emozioni si mutano in una crescente esigenza delittuosa.
Ecco, dunque, la "corda pazza" tendersi in tutta la propria disperata incongruità, comica e tragica insieme, perché l'arco scocchi a colpire la duplice radice e del riso (la stramba risata siciliana) e della disperazione (un altrettanto strambo e allucinato pianto)
La radice è in quel non esserci, fra gli uomini, una comunione, un patto realizzato di convivenza, o valori che consentano a essi di amarsi, stimarsi, confrontarsi al di fuori di tenebrosi e arcaici rituali. La radice è in quella non società che è la Sicilia, e che Brancati, narratore del Novecento, sorprende proprio nel suo spasimo d'essere società. "Il sogno di un valzer", il ballo che accomunerebbe forestieri e residenti di Nissa sull'onda di piacevoli trasporti, si conclude nel sangue e, comicamente, al cimitero.
La silenziosa violenza della follia, sommersa da uno scintillio di chiacchiere, da un intrico d'espressioni convenzionali, dove l'intelligenza maschera le sue nevralgie, e, in più, quell'ambizione o desiderio di essere società... Brancati aveva letto e studiato Federico De Roberto. Freddo, impalato, la caramella incastrata nell'occhio destro, oppure attento a leggere sotto l'alone della lampada blu del salotto: questo il ricordo che Brancati ci confida di De Roberto. Tristissimo, lo scrittore dei Viceré era convinto d'aver "fallito"
Più del grande romanzo, Brancati ne amava le novelle di Processi verbali: nella tesi di laurea scrisse che là era il meglio del narratore, pagine di "potenza eschilea" Par quasi egli abbia ragione. Comunque, quella scelta ci spiega come il suo addivenire alla rappresentazione di una società, o della pseudo società siciliana, passasse attraverso jongleries di fredda musica e dai ghiacciati colori, attraverso uno stilismo dietro il quale fossero messe a combustione le più ardite peripezie intellettuali.
La malinconia di Brancati era di natura esitante: la rabbia si stemperava in riso. Egli non soffrì l'ossessione stilistica al modo di un De Roberto, appunto, per il quale Maupassant e quindi Flaubert erano maestri. Si rifiutò al filosofema pirandelliano, di qualità novecentista: al cilicio della lima letteraria oppose con gli anni una certa scioltezza giornalistica. Brancati aveva nitido il senso dell'esempio di Verga: ricavare poesia dal tessersi insieme di paesaggio, psicologia e dialetto.
Cosa sia la non società siciliana, come si manifesti nel cuore stesso dell'uomo quell'aspro sentimento di metodica inimicizia per l'umano, Verga lo ha raccontato con uno splendore che tuttora ci rende attoniti. Che fosse narratore antiumanistico, lo intese bene D.H. Lawrence. Se rileggiamo le ultime righe de La roba, tutto ciò si rende chiarissimo.
Mazzarò, da quasi mentecatto che era, "colla testa come un brillante", era riuscito ad accumulare un enorme patrimonio terriero: vigne, campi "che ondeggiavano come un mare", oliveti "che velavano la montagna come una nebbia" Passò l'età: Mazzarò diventò vecchio. La roba era sua e non aveva a chi lasciarla: il suo istinto patrimoniale si era tramutato in rabbia. Vedeva passare un ragazzino curvo di fatica come un asino, e "gli lanciava il suo bastone tra le gambe, per invidia, e borbottava: "Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente!"" Venne, infine, per Mazzarò il tempo di "pensare all'anima": quando glielo dissero, "uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: "Roba mia, vientene con me!""
Questo cupo rancore che, unico, sembra mettere in rapporto l'individuo col mondo domina la narrativa verghiana, definisce il selvaggio profilo di un orizzonte dove la parola pietà non ha corso.
Esempi simili se ne possono ritrovare abbondanti nelle "parità" o nelle "storie" dei "villani" di Modica che il barone Serafino Amabile Guastella raccolse un secolo fa per le sue campagne e che commentò con tanto sottile e ironico acume. Il barone ci dice che il "villano", nella sua povertà, si consola "con l'esempio di Gesù": ma quell'esempio non gli rende morbida la naturale, costitutiva durezza del cuore. "Gli affetti suoi," scrisse il barone nella prefazione alle Parità, "oltrecché brevissimi di durata, son così lisci, che ti scivolano fra le mani; e dopo quegl'impeti momentanei si rannicchia con una specie di beatitudine nell'esclusivo amor di se stesso, e l'assapora e lo va dirigendo a bell'agio."
Malizioso candore del barone. Il villano dunque "si rannicchia", ma in quel "rannicchiarsi" trova la sua felicità, la torva felicità che nasce da un forsennato, animale egoismo.
Brancati la non società siciliana volle coglierla al punto di svolta, nell'anelito di diventar società: era la piega che la vita italiana prendeva nel sud al tempo della "unificazione" piccolo borghese del fascismo. Ed ecco quindi farsi espressivi i caratteri dei suoi personaggi: sono personaggi che sgusciano dalla notte, causidici e buffoni, "galli" per vocazione. Quella notte riempiono di un chiacchiericcio ininterrotto: il calore del giorno li ha stremati; all'imbrunire mormorano "andiamo a letto" Invece, al primo fiato d'umido della sera, e la natura si inquieta e rabbrividisce, ecco loro, quei personaggi, resi pazzi da una gioia sorda, dipanano a parole segreti di letto, segreti di famiglia, li affidano al vagare delle brezze fino alle due alle tre del mattino, magari per caso infilandoli nelle orecchie di chi ancora veglia dentro un lenzuolo attorcigliato a un pianterreno o a un primo piano.
In questa parvenza di società, l'unica possibile che quei personaggi, o quegli uomini, realizzino, vagano sogni tetri, il "sogno di un valzer", o si consuma il destino mediocre e insieme maledetto di un qualunque don Giovanni di Sicilia, di qualunque bell'Antonio.
E. S.
NOTE:
(1) In V. B., Il borghese e l'immensità (Milano, 1973) Il volume comprende scritti del 1930-1954 mai raccolti in volume dall'autore, scelti da Sandro De Feo e da G.A. Cibotto. Cito da articoli per "Omnibus", datati 1938, l'anno di pubblicazione di Sogno di un valzer; e cito particolarmente da un testo intitolato Gli amici di Nissa, pp. 81-84.
(2) Ancora da Il borghese e l'immensità, cit., p. 90, in una "Lettera al Direttore", in "Omnibus", maggio 1938.
(3) Sempre da Il borghese e l'immensità, cit., pp. 244-246.