Canto di negri
In questa casa, - diceva il professor Giovanni Toni - gli specchi sono inutili, perché non c'è il tempo di guardarsi gli occhi. E poi, casa! Questa non è una casa, non è un albergo, non è una pensione... Che cosa veramente sia, nessuno lo sa. Io direi ch'è un aggregato umano, formato dall'ottimismo. Non rida, signorina Letizia!... L'ottimismo è un'antica forza sociale, la vera forza dell'occidente che, sommersa da tanto tempo, riaffiora in quest'epoca. Fra noi, non ci sono rapporti di parentela; e nemmeno forse di amicizia...
"Maleducato!"
"Sono vecchio: rispettatemi! E nemmeno, dunque, di amicizia: noi siamo troppo diversi o troppo somiglianti per essere veramente degli amici."
"Siamo dei nemici, allora?"
"Non scherzi, signorina Letizia! Pensi alla mela che ha nel piatto e ch'è la più bella della stagione... Noi siamo riuniti, in questa casa, dall'ottimismo. Le due cameriere, che ci servono, si sono espresse mirabilmente nei nostri rapporti. Milella diceva: "Sono dei pazzi!" e Bianca: "Non danno fastidio!" Io ascoltavo, dietro la porta... Bene, gli ottimisti si presentano così, agli occhi degli umili: pazzi che non danno fastidio."
"Ma, professore, ha bevuto?"
"Sì, e me ne vanto... Le nostre famiglie, nei paesetti lontani, pensano a noi come a dei figliuoli prodighi (e il triste è che io sono nonno) Ma, in fondo, sono contento, perché noi, tutti e sei, formiamo la più bella compagine che mai possa esistere. Il gruppo, generato dall'ottimismo, è il nucleo primitivo della civiltà occidentale."
"Ma basta!"
"E' ubbriaco, Dio mio!"
"Non si può parlare tanto..."
"Non si deve!"
". I barbari sono degli esseri feroci e malinconici. Attila bruciava le città, ma faceva paura comunicando la sua paura del mistero e della morte: le sue distruzioni erano un modo di esprimersi; uno stato d'animo che diventava, col ferro e col fuoco, paesaggio..."
"Basta! Basta!"
Letizia Bini si alzò e mise una mano sulla bocca del vecchio; ma questi cercò di continuare: "L'ottimismo, invece, è la semplicità occidentale, la preclara..."
"Basta!"
Si alzò anche Enzo Magnani e minacciò col tovagliuolo l'oratore impazzito: "Basta, per Dio! Lei è ubbriaco."
". La preclara virtù latina..."
Enzo Magnani gli legò il tovagliuolo alla bocca; gli altri si misero a gridare, lanciando in aria le bucce delle mele. Il vecchio promise di tacere, alzando le mani. Poi tutti si levarono e, come al solito, chi andò per una parte, chi per l'altra; e a notte alta rincasarono, ciascuno con quello che aveva fatto e che pensava di fare; tutti, con lo stesso calore sulla faccia, come se, nella vita, andassero insieme, di corsa.
Questa era la loro vita: una grande corsa.
La mattina, si precipitavano nei corridoi e nelle stanze da toeletta; le docce frusciavano, gli apparecchi telefonici tintinnavano e squillavano; saluti, risa, porte sbattute.
Il giovane Rosario Dilella, studente d'ingegneria, faceva della ginnastica con un punch-ball legato fra i tavolini ingombri di carte; il vecchio professore di storia, Giovanni Toni, passando vicino alla camera, non mancava di farsi al filo della porta e di mormorare un "Benissimo!"
Leopoldo Marchi, professore di diritto, coi suoi cinquant'anni profumati dal mattino, le unghie lucidissime, le pantofole di colore favoloso, vedendo la giovane Letizia Bini, già pronta per uscire, ritraeva le braccia, come due alette, ed esprimeva un forbito rammarico sul fatto che l'unica donna della casa, la "bella intatta", "il fiore del quartiere", andasse via così presto. La ragazza scoppiava a ridere, dava gli ultimi tocchi al viso col piumino; in fretta, chiudeva la borsetta e, dopo aver fatto un inchino lungo, roteando attorno a un mobile come se avesse i pattini, spalancava la porta e usciva.
Emanuele Fiorentini, redattore del Ginnasio, si svegliava cantando versi inglesi. "Senta!" gli disse un giorno il vecchio Toni: "le ho detto, una volta, che non conosco l'inglese, come tutti gli altri coinquilini. Ebbene, ho mentito: io mastico un po’ d'inglese. Queste canzoni che lei canta sono sudicie fino all'inverosimile. Stia attento: noi abbiamo qui una donna!"
Da quel giorno, Fiorentini rinunziò alle sue canzoni, in cui ricorreva un "tamburo della bella che noi vogliam suonar", con le conseguenze di questa immagine. "Ho trent'anni," diceva sorridendo: "posso ancora rinunziare a qualche cosa, sperando di riacquistarla in avvenire!" Ma Enzo Magnani, già trentacinquenne, che dormiva nella camera attigua, non era dello stesso parere: "I primi trent'anni della vita," diceva, "non hanno nulla a che vedere con gli altri trenta. Quello che hai lasciato di qua, non lo troverai di là. (Era stato marinaio.) E' come se tu avessi navigato per trent'anni nel Pacifico e per trent'anni nell'Atlantico!"
"E' assai malinconico, tutto questo!" mormorava incredulo Fiorentini.
"Non è malinconico! Io, a venticinque anni, uccisi un negro. Fino a trent'anni, ho sofferto; poi non ci ho pensato più: cominciava l'altra parte della vita..."
Questi due erano i più rumorosi e disordinati. Il loro disordine uguale aveva generato in loro molte cose uguali: la cameriera confondeva, quasi ogni mattina, le loro scarpe.
"Che fai tu, al Ministero delle Colonie?" gridava qualche volta, attraverso la parete, Fiorentini. "Dirigo, o giovane bestia, il museo coloniale," rispondeva Enzo Magnani. "Vecchio ladro, un giorno o l'altro, porti via anche il Sahara!" "Senti questo rumore?" "Lo sento..." (Erano colpi di scarpa sul muro) "Che cosa fai?" "Ti aggiusto la faccia." "Finiscila, canaglia, pirata!" Magnani aveva disegnato sulla parete la faccia di Fiorentini, "per averlo sotto mano, quando volesse" A piacere, lo calpestava e, nelle occasioni solenni, gli sparava due colpi di rivoltella nell'occhio...
Grida terribili, spalancarsi di finestre, vento: le cameriere portavano il caffè e latte ai due, con l'aria delle infermiere accorse in aiuto di agonizzanti. Poi, nello stesso quarto d'ora, uscivano tutti; la casa rimaneva deserta; si udiva Bianca agitare l'acqua in una vasca; Milella cantare.
A mezzogiorno, erano di nuovo rincasati.
Leopoldo Marchi veniva a tavola con un violento profumo di zagara sui baffi spioventi. "E' il profumo della mia terra," diceva.
"Sì, ma va bene in un paniere!" gridava Letizia Bini, scostandosi: "lei è un uomo, non è un frutto."
"Un uomo appartiene alla sua terra più di un frutto."
"Basta! Basta!"
La conversazione era piena di esclamazioni come: bisogna!; farò così; riuscirò!
"Come va il suo concorso, Dilella?"
Il giovane chiudeva gli occhi, quasi volesse tagliare con le palpebre, come con due lame, il filo del destino: "Andrà bene!"
"E se non andasse bene?" domandava Marchi.
"Lei sa qualche cosa?"
"Nulla! Ma un concorso è un concorso: non si può giurare sull'esito."
"Se non andrà bene, farò lo stesso costruire la chiesa!"
"E come?"
"Non lo so; ma il modo è l'ultima cosa!"
"Bravo! Benissimo!" faceva Toni: "Il modo è l'ultima cosa! Un poeta, quando ha una lirica nel cuore, non si preoccupa del metro... Il modo, per realizzare qualche cosa, è come la tecnica del poeta: verrà, verrà..."
"Però," mormorava Enzo Magnani, "la frase è mia."
"Quale?"
"Quella lì: il modo è l'ultima cosa."
"Senta," gridava Dilella, "non faccia storie: lo riconosco subito. Se non erro, l'ho considerata sempre un maestro."
"E' questo che mi preoccupa. Quando un giovane come lei, capace di prendere a calci anche il diavolo, ammette subito che qualcuno è suo maestro, non c'è da dormire fra due guanciali."
"Oh, perché?"
"Il giovane è sempre un nemico del meno giovane: tanto peggio, quando è un nemico affabile."
"Le giuro, sul mio onore, sulla mia testa, su tutto quello che lei vuole, che io la invidio; che io, per avere quel suo modo di sorridere, darei dieci anni della mia vita."
"Sorrido così stranamente?"
"In modo mirabile," mormorava Toni. "Se noi fossimo degli orientali di cinquemila anni fa, e lo stato di fede, che si è creato oggi, si fosse creato allora, lei, caro Magnani, ci sarebbe apparso come un dio."
"Ma perché?"
"Ha un modo di agire illuminato dall'interno..."
"Come sarebbe?"
"Ecco, un modo di agire reclame; mi fa l'impressione che sia illuminato dall'interno, perché tutti lo vedano, nella notte: "Il miglior modo di agire è questo!""
"Io m'innamoro di lei, professore!" si mise a dire Letizia Bini. "Io m'innamoro di lei come una pazza."
"Ella poi sorride in maniera divina," continuò il vecchio Toni: "il suo sorriso è il nostro, portato a una freddezza singolare; io non so bene: come se fosse entrato nel clima rigido dell'eternità."
"Benissimo! Benissimo!" gridò Dilella.
"Benissimo un corno!" fece Emanuele Fiorentini.
"Nemo propheta in patria!" osservò Magnani: "il mio vicino di camera non mi riconosce alcuna virtù. E ha ragione: egli mi sente russare..."
"Come! Lei russa?" domandò la Bini.
"Russo... Non le consiglio di essermi vicina, quando dormo."
"Oh, non lo sarò: stia sicuro!"
Dilella, che sedeva accanto a lei, si volse a guardarla e notò che era bella, con l'aria di chi fa una scoperta simile nella vetrina di un fotografo. "Dove va la notte?" pensò. E glielo disse vicino all'orecchio: "Dove va la notte?"
"Stia sicuro anche lei," rispose ella a bassa voce: "sono onesta."
"Signori! Signori, è tardi!"
Si alzarono da tavola.
Nel salotto, continuava il gridio. Leopoldo Marchi passava davanti allo specchio, col pretesto di misurare la sala, ma in verità per studiare quell'emozione visiva ch'egli probabilmente suscitava nei suoi alunni, quando attraversava l'aula. Enzo Magnani descriveva l'impressione di chi, a notte alta, si avvicina a un porto, e imitava il grido degli sciacalli. Letizia Bini suonava, adagio adagio, al piano, un'aria di tango e poi una rumba e poi di nuovo un tango. Dilella le guardava ora il collo, in cui permaneva un po’ di gracilità come un'ombra della fanciullezza, ora le spalle mobilissime.
"Sembra che la nostra epoca sia complessa," era il vecchio Toni che parlava, "e invece è nuda e semplice fino all'inverosimile. Le macchine hanno divorato l'ingegno che le ha costruite; non appena uscite dalle nostre mani, ci hanno insegnato qualcosa: agire, agire continuamente..."
"Ma, professore, che storia insegna lei a scuola?"
"Questa: come i secoli, carichi di mota cerebrale e di oscuri rimorsi, sbocchino nella nostra epoca ed ivi lascino tutto e divengano tersi, come i fiumi nel mare." Il vecchio si commuoveva. "Quando io vedo un giovane di vent'anni," e accennava a Dilella, "seduto con quella noncuranza, con gli occhi così puri, che batte il pugno sul tavolo, come ha fatto ieri, e grida: "Questo deve accadere!", io penso alla natura, semplice e divina, che finalmente riaffiora nell'uomo!"
"E se poi quello che deve accadere, non accadesse?" domandava Letizia Bini.
"Non importa, cara, quando non si abusa di pensiero sterile e di rimorso: non importa proprio!"
"Bene! Benissimo! Ha ragione!"
Da fuori, una tromba di automobile chiamava qualcuno. La Bini lasciava il piano e fuggiva via. Poco dopo, la sala era vuota, le finestre spalancate. Il cielo penetrava con la sua solennità, negli specchi; ma come un ladro; perché, non appena rincasato, verso le otto di sera, Fiorentini accendeva seccamente la luce, chiudeva le finestre e cacciava fuori il cielo, senza nemmeno guardarlo. Solo, nella casa che in fondo era una pensione amministrata in modo originale, camminava in su e in giù per il corridoio e ascoltava il rumore del suo passo, come un impiegato al telegrafo ascolta per abitudine le parole, in alfabeto Morse, che passano sul filo vicino alla sua finestra. Di nuovo, erano tutti nella sala da pranzo e, un'ora dopo, tutti s'erano levati. E ricominciava la notte.
"Disordine!" disse, svegliandosi nella sua camera pentagonale, il professor Toni: "Disordine!"
Libri, pomate per la barba, rasoi di sicurezza, due bottigliette di medicinale e una penna di uccello si confondevano sullo scrittoio. "Il disordine è un segno preciso che la nostra vita è diritta, veloce; intorno a una vita così, gli oggetti, le squame della materia, saltano alla rinfusa, come i trucioli a destra e a manca di una pialla."
Suonò il campanello; apparve Bianca.
"Le scarpe e il caffè."
"Subito, signore."
Il vecchio notò, con grande compiacimento, il nuovo disordine: caffè e scarpe insieme. I bisogni erano, dunque, in lui frettolosi e noncuranti.
"Bello, questo! Bello." Aprì le imposte e vide la luce del mattino sparsa su tutte le cose con un senso di miracolo e d'invasione, come se, mentre egli dormiva, una strana razza di animali lucentissimi, rosa e oro, si fosse avanzata dagli orizzonti e accovacciata sui tetti e le terrazze.
Suonarono le otto e un quarto. Un momento prima, erano suonate le otto, e, qualcosa più di un momento prima, ma senza dubbio meno di due attimi, era avvenuto ch'egli si fosse svegliato e avesse udito suonare le sette.
"L'azione! L'azione!" gridò; e si mise a pensare: "Essi credono che l'azione sia un miracoloso rimedio contro i mali della giovinezza. Oh, essi non sanno che cosa significhi una vita d'azione, una fede nell'azione, per un vecchio! Non fermarsi, non fermarsi mai: aver fatto una cosa e incominciarne subito una seconda... Ma questo è il paradiso!"
Egli non confessava che, per sua natura, era portato ad aver paura della morte e che la nuova fede lo proteggeva mirabilmente contro una paura simile; anzi, ve lo faceva passare nel mezzo con tale rapidità ch'egli avvertiva semplicemente un senso di benessere e di salvezza. I giorni correvano; i mesi e gli anni li seguivano a poca distanza; ma egli non temeva più l'urto improvviso contro la morte. Quando si è lanciati a grande velocità non si riesce a pensare che qualcuno possa, da un momento all'altro, inchiodarci: chi corre in automobile ha la vaga impressione che, in ogni caso, sfonderà il muro e passerà oltre. Un che di simile avveniva a lui. Come, la sera, entrava nel sonno e subito ne usciva, perché era l'alba, e giù dall'alba precipitava tutto d'un colpo nella nuova sera, e le azioni e gli oggetti saltavano intorno a lui, come al passaggio di un bolide; così, egli avrebbe infilato di corsa le ore dell'agonia ed, ecco, sarebbe uscito in un lampo al di là della morte. Sul cielo di questa sua corsa, le stelle che indicavano il passare del tempo erano i ritratti dei nipotini: i primi, nudi in mezzo a ombre e mani di donne, gli altri con le vesticciuole, e gli ultimi già con pantaloni maschili e segni di sofferenza sui volti.
La città, ch'egli vedeva dalla finestra, era tutta tracciata nel cielo con le curve veloci di civiltà passate, di grandi azioni già lontane, già correnti chissà dove, ma di cui rimaneva intorno il primo scatto terreno: mura, torri, colonne, quadri, statue... Il Vaticano, enorme e immobile, misurava la corsa, dava la direzione, proteggeva la strada battuta, dai continui venti che cercavano di cancellarla come una fila di orme sulla sabbia. Le spoglie dei santi e dei papi, sepolte in ogni campo, affollavano la terra di un misterioso calore...
Il vecchio era felice. Suonò il campanello. Apparve Milella.
"Acqua per la barba!"
"Deve aspettare cinque minuti."
"Ma che diavolo s'è spezzato?" domandò Enzo Magnani a Bianca.
"La tubatura dell'acqua marcia, signore: ma fra cinque minuti, il bagno sarà pronto."
"E sia!"
Bianca uscì. Magnani saltò fuori del letto e aprì la finestra: "Bellissimo sole!" Pensò al Mar Giallo; si mise a fischiettare una canzone udita in quella parte di mondo. La faccia di Emanuele Fiorentini, calpestata e forata sulla parete, aveva un'aria di santità molto buffa, come in un paradiso caduto in mano agl'increduli. A destra, vicino all'occhio, le s'era combinata una terza pupilla, dura e smorta come quella del negro ucciso nel deserto...
"Si può?"
Era Emanuele Fiorentini.
"Venga avanti!"
"Questa mattina, ho ripensato a certe sue parole... Senta?... E' vero che ella ha ucciso un negro?"
"Ma via! Pensi ad altro."
"Se voglio, ne ho di preoccupazioni; vado in Africa..."
"Inviato speciale?"
"Sì."
"Benissimo!"
"Chi mi ha detto che il professor Toni spera che, un giorno o l'altro, curvandosi a terra trovi un cranio di santo?"
"E' una storiella che ho inventato io. Carina, no? Senza dubbio, il professor Toni fida moltissimo nel fatto che il sottosuolo di questa città sia pieno di santi e di papi sepolti."
"Fida, in che senso?"
"Non lo so... Ma lei mi fa perdere un tempo prezioso... L'acqua! L'acqua! E' pronta o no?" spalancò la porta: "Bianca! Milella!"
"Signore," gridò Milella accorrendo, "è già arrivata: può lavarsi."
"Benissimo! Caro Fiorentini, io avrò, per il museo coloniale, un sussidio di mezzo milione."
"E chi glielo dà?"
"Non lo so."
"Come?"
"Non so ancora chi deve darmelo: ma lo avrò. Ci sono cinque o sei persone che io ho destinato mentalmente a questo sussidio: sono anche disposto a spaccare una faccia! Ma via, su! A lavarsi! Fiorentini, si svegli!"
E lo spinse fuori.
"Senta," gli disse poi, "ieri prima di prender sonno, mi sono domandato perché lei non sostenga la necessità di una lega occidentale e vada nelle diverse capitali d'Europa..."
Squilli di telefono. Riapparve Milella di corsa: "Al telefono il signor Fiorentini!"
"Vengo subito," disse Fiorentini e attraversò di corsa il corridoio.
"Giù l'aspettano," gridò Bianca a Magnani.
"Chi?"
"Dei signori in automobile."
"Oh, è l'inferno! Di che vadano senza di me... E poi, Bianca: ho una fame da lupo."
"Capito!" e la donna fuggì via come un uccello perseguitato dentro una stanza chiusa.
Davanti al bagno c'era Letizia Bini che aspettava, con una scatola da toeletta fra le mani. Il bagno era occupato.
"C'è Dilella," disse la Bini.
"Bisognerà aspettare mezz'ora."
"Per nulla!" gridò Dilella, aprendo la porta: "Eccomi qui."
La Bini fece per entrare nello stanzino da bagno, ma Enzo Magnani la trattenne per il braccio: "La prego; ho fretta," e con un piccolo spintone, fra scherzoso e atletico, la spinse fuori, entrò nel bagno, chiuse la porta.
"E' vero," disse Dilella, prendendo per una mano la ragazza ch'era tutta rossa per la scortesia ricevuta, "è vero ch'ella è vergine?"
"Questi sono affari miei."
"Ad ogni modo, giuri!"
"Mi vuole sposare?"
"No."
"Ebbene, glielo giuro."
"Non ama nessuno?"
"Nessuno... Ma, fuori dei sensi, amo."
"Oh, bella; fuori dei sensi..."
"Lo dico di proposito. Lei, per esempio, non ama né fuori né dentro i sensi... Ha fatto perseguitare senza ragione dai suoi amici quel povero Carnelli..."
"Non bisogna avere ritegni, quando si lotta contro un uomo. Se avesse vinto lui, mi avrebbe fatto arrestare."
"Ma sa ch'è morto, ieri?"
"Pace all'anima sua! Non mi pento di nulla," e a voce alta: "Magnani, maestro, pensi che la signorina Letizia deve lavarsi."
"Dilella," rispose da oltre la porta Magnani, in mezzo a un largo frusciare d'acqua, "lei oggi mi odia più del solito."
"Ma perché dovrei odiarla? E' un'idea fissa."
"Eh, chi lo sa?"
"Ma io glielo giuro, non mi sono mai accorto di odiarla."
"Che ridicoli!" mormorò la Bini.
"Non ne ha avuto mai tempo," continuò Magnani, "ma così, a sentirla parlare dietro una porta, io vedo la sua anima..."
"Nera?"
"Su per giù."
"Vado a vestirmi, caro e pazzo maestro. Buon giorno, Letizia."
"Buon giorno."
Dilella fu, con tre salti, nella sua camera: "Perché dovrei odiarlo? Io me ne infischio!" pensò.
Alla porta bussò Leopoldo Marchi.
"Caro Dilella," disse la voce chiara del professore di diritto, "vi consiglio di guardare bene il sole... E' un giorno fausto. Dai resoconti di Bianca e Milella, tutti hanno divorato il doppio del pane, oggi. Nella pensione, trionfa l'appetito. Evviva la vita!"
Poco dopo, erano tutti fuori...
E un altro mese passò. E alla fine di quel mese, molte cose erano state compiute dai nostri eroi. Leopoldo Marchi aveva pubblicato un libro; Dilella aveva vinto il concorso per una chiesa; Enzo Magnani era sulla via di ottenere mezzo milione da un vecchio banchiere che aveva una paura pazza di lui; Letizia Bini non si sapeva che cosa avesse fatto, ma i suoi occhi brillavano stranamente; Emanuele Fiorentini era alla vigilia di recarsi nelle varie capitali d'Europa; e il vecchio Toni s'era ammalato e poi guarito di una grave malattia, lieto di non aver provato nulla di sgradevole. Del resto, già nuovi scopi si affollavano ai loro sguardi; già le loro mani prendevano nuovi oggetti, come utensili per nuove azioni; già i loro piedi camminavano verso altre direzioni. E tutto questo non era affannoso, come si crede comunemente, ma semplice e continuo, in una luce vera di serenità.
Una sera, Letizia Bini invitò gli amici ad ascoltare un disco che le avevano regalato quello stesso giorno.
"Purché duri un attimo," mormorò Enzo Magnani, "non ho tempo da perdere."
"Il piattello del grammofono gira secondo una regola," disse il giovane Dilella.
"Lei è sempre il mio nemico!"
"Silenzio: ecco il disco!" fece la Bini, tornando con un piccolo grammofono e un album. Il disco era grande e aveva, disegnata nel mezzo, una testina di negro.
"Chi è costui?" domandò Leopoldo Marchi, accennando al negro: "Che significa?" e si guardò le unghie.
"Adesso, sentirà."
"Presto, presto, gran Dio!"
"E' un canto di negri?"
"Proprio: un canto di negri."
"Religioso?" fece il vecchio Toni.
"Non si capisce bene."
"Silenzio!"
"Un minuto, eh?"
"Silenzio, le dico!"
Già l'ago aveva afferrato il disco, che strideva con un senso di pena.
Un attimo dopo, si udì la musica. Era un canto di negri, triste e pesante come una coltre dura che, sollevata a fatica dal silenzio, d'ora in ora vi ricadesse. L'impressione, che ne aveva Leopoldo Marchi, era di gente che morisse dal sonno e fosse costretta a cantare. Allorché il canto si spegneva, Marchi vedeva chiaramente delle teste, che s'erano piegate sul petto, e degli occhi chiusi; ma poi qualcuno le riafferrava pei capelli, le rovesciava; e le teste, aprendo gli occhi a metà, ricominciavano il canto. Le impressioni di tutti coincidevano nel senso di una calma pesante, scura, angosciosa, come di un mare morto. Erano i negri, l'immensità degli spiriti fermi, che facevano un leggero lamento, con un incresparsi di bocche sulla superficie di tanta immobilità. Ma purtroppo questa immobilità non suscitava la voglia di giocarvi, come fa un lago quando invita a lanciare dei sassi; non dava la speranza di poterla radere, correndo. Era un'immobilità cupa, fissa, attirante, che cresceva da tutti i lati, come l'alluvione provocata da una pioggia continua, fitta, silenziosa. Le antiche civiltà chiamavano dal fondo in cui erano sparite; lì, nel silenzio millenario, esse avevano i loro poemi da far leggere, le loro imprese enormi, le loro fatiche di milioni di uomini in milioni di attimi, da far sentire alleggerite e diafane.
La suggestione era tanto più pericolosa in quanto per la difesa lasciava soltanto libera la reazione morale. Ed era tutta una parte, dolorosa e profonda dell'anima, che si svegliava come un ferito dimenticato nel buio di una cantina.
Il vecchio Toni era stato preso da un tremito alle ginocchia. "Il pericolo negro!" mormorava a fior di labbra: "sì, e il pericolo giallo! Noi siamo troppo sicuri di noi; ma siamo pochi, un pugno d'uomini in mezzo ad un oceano di barbarie... Eppure non è questo che mi turba, non è questo!" Oltre le mura, nell'ombra della notte, sentì il Vaticano come un iceberg invisibile, nel quale da un momento all'altro si sarebbe urtato. "Sì, la mia vita!... Ho fatto bene o male? Ma bene o male, in che senso? La morale, ho capito. Ma quando si agisce, quando nella vita si corre, la morale è una; quando poi ci si ferma, e non si fa nulla, la morale è un'altra... Chi mi ha detto che le proprietà dei corpi in movimento sono diverse da quelle dei corpi immobili? Lo stesso accade alle anime... Tuttavia, la morale dovrebbe essere una sola! No, non è una sola! Non è una sola!"
S'accorse che il disco era terminato e che la Bini, pregata dagli amici, lo aveva rimesso sul piattello. Tornavano a sfilare le prime note, con un senso di madri antiche, il cui amore, grande, misterioso e incomprensibile, consisteva nel maledire la strada che si sarebbe voluta percorrere lontano da loro e nel cantare una nenia stranamente simile a quella della morte: si era scesi in quelle oscure profondità della natura, in cui le madri uccidono i figli, pur di non lasciarli ai nemici della loro specie. Il vecchio Toni ricordava di aver visto una gatta piombare su tre gattini, che venivano fiutati da un gruppo di cani randagi, sbranarli e fuggire...
"Ma che razza di pensieri! che razza di pensieri!" E di nuovo sentì nell'ombra la durezza galleggiante del Vaticano. "Lo so che c'è una morale bell'e pronta, una morale assoluta e precisa, ma noi siamo nati troppi secoli dopo Cristo. Vicino a Lui, alle sorgenti, questa morale doveva irrompere con una forza meravigliosa. Era facile, allora, essere cristiani... Forse il mio pensiero è empio; ma veramente è così: noi siamo troppo lontani da quella sorgente!"
Il disco era terminato per una seconda volta; la Bini aveva chiuso il grammofono e Leopoldo Marchi s'era alzato. Allo sguardo di tutti, le cose si presentavano con una minuzia irritante: gli stessi colori degli stucchi erano diversi, come se prima fossero stati dei vetri liquidi lanciati nella notte e ora si fossero raffreddati e fermati. Tutti avevano i loro appuntamenti, tutti stavano per uscire e già proseguivano sulla nota via, ma in tutti c'era qualcosa che strideva, che non poteva riaccendersi. Davvero bisogna attribuire a un disco uno squilibrio di questa portata? E' una domanda alla quale è difficile rispondere. Ma senza dubbio molte cose coincidevano quella sera, come accade facilmente quando a battere la stessa via si è in più d'uno; e la musica, ch'è la vera arte per le comunità, aveva accentuato quello che altrimenti sarebbe rimasto in ombra.
Il vecchio Toni non volle uscire. Accompagnò Marchi sino alla porta come un cane accompagna il suo padrone. Il professore di diritto, che quella sera aveva sparso l'odore di zagara anche sulle sopracciglia, ebbe l'impressione che il vecchio volesse domandargli qualcosa; ed era in imbarazzo perché non riusciva a prevedere di che domanda si trattasse. Ma il vecchio restò muto, gli strinse la mano e rientrò nella sua camera. Lesse dieci pagine di un libro mediocre; poi andò a letto, ma non chiuse occhio. Sentì la Bini camminare per il corridoio; la porta d'uscita sbattere e qualcuno rientrare. Sentì delle macchine correre nella via sottostante, con una rapidità e un rumore strani, come se qualcuno passasse una scopa nello spazio. Capì il valore di aver dormito ogni notte, puntualmente per otto ore... Adesso cominciava l'insonnia, la triste insonnia dei vecchi: si apriva dinnanzi a lui il tempo della notte. Quanti piccoli rumori gli erano promessi: suoni di orologio, passi, sbattere di portoni, fruscii veloci di ruote!
Si mise a sedere sul letto: "Ma no, questa è una malinconia passeggera!" Si alzò in pantofole, indossò una veste da camera e cominciò a passeggiare in su e in giù. I termosifoni erano spenti e l'aria aveva perduto il suo calore: faceva quasi freddo.
Piano, piano, il vecchio aprì la porta e s'incamminò per il corridoio. Nell'ombra, sentì che qualcuno s'era curvato rapidamente e nascosto. Nella porta della Bini, c'era un occhio di luce.
"Dio sa quello che avviene qui!" pensò il vecchio e bussò alla porta di Leopoldo Marchi.
"Chi è?"
"Io, caro."
"Sei Milella?"
"Ma che Milella d'Egitto: sono io; Toni."
"Che cos'hai, vecchio mio, che cos'hai? Vengo subito!" Marchi, svegliato di soprassalto, era preso da una commozione singolare. "Vengo subito, vecchio mio!"
Poco dopo, la porta si aprì e apparve Leopoldo Marchi, con un pigiama leggero e la giacca dello smoking sulle spalle: "Che cosa c'è?"
"Nulla, nulla! Non sto per morire, credi..."
"Beh, allora?"
"Svegliati, prima di tutto!"
Leopoldo Marchi si stropicciò gli occhi: "Sono sveglio."
"Hai avuto delle impressioni, questa notte? Voglio dire: delle impressioni insolite?
"Sì."
"La musica?"
"Sì, la musica... Ho avuto l'impressione... come se qualcuno mi desse una mazzata sulla testa. Ma passerà."
"Senti, mio caro: l'epoca che seguirà alla nostra sarà scura e malinconica."
"Perché?"
"La nostra epoca è tutta una corsa, di azione in azione; l'altra, invece, si metterà a meditare su quello che abbiamo fatto noi; in una parola, si fermerà... Ed è terribile fermarsi, d'un tratto: gira la testa!"
"E' vero. Ma qui bisognerebbe fare delle distinzioni."
"Lascia al diavolo le distinzioni! Tu hai visto come una piccola fermata ci abbia sconvolti... Perché noi, questa sera, io non capisco perché, ci siamo fermati.
"Passerà... Domani, si ricomincia."
"Dio lo voglia."
"Gli antichi romani..."
Per quasi mezz'ora, parlarono dei romani a bassa voce, nell'ombra del corridoio. Poi sentirono freddo. La luce, che veniva dalla camera di Marchi, illuminava i piedi del suo inquilino, nudi dentro le pantofole. Toni si mise a guardarli; poi disse: "Sei un vero uomo del sud: ti profumi come un giardino e non ti lavi i piedi."
"Come? Guardali bene!" Marchi sollevò le gambe: "Guardali bene..."
"Non ci pensiamo più."
"Ma guardali, ti dico!"
"St! Adagio! Ho scherzato... Addio: spero di dormire," e il vecchio Toni si allontanò, lasciando l'amico curvo sui propri piedi a mormorare: "Quello lì è un pazzo! E' un cieco!"
Toni rientrò nella sua camera, chiuse la porta. L'orologio segnava le tre del mattino: egli lo capovolse, in modo da non vedere il quadrante, ma sentì ugualmente che, sotto quel disco d'oro, il tempo passava in una forma nuova e agghiacciante.
La conversazione, avuta con Leopoldo Marchi, non aveva per nulla liberato il suo sistema nervoso; anzi, lo aveva reso più torbido. Lo scherzo dei piedi sporchi, col quale aveva voluto troncare il colloquio, gli sembrava, non si sa perché, pauroso. Dal momento in cui aveva riso "su quei piedi", altri piedi s'erano staccati dall'ombra dei suoi incubi e s'erano messi a camminare. Enormi e silenziosi, andavano verso un punto della pensione: facevano un passo ogni quarto d'ora, ma sarebbero arrivati.
Il vecchio andò a letto, spense la lampada, chiuse gli occhi. Pregò con tutta l'anima che si arrivasse presto all'alba. I piedi enormi fecero un altro passo. E il vecchio si addormentò.
Alle quattro, un colpo di rivoltella in fondo al corridoio.
Toni balzò dal letto, pallido e svuotato come se il colpo fosse del suo sistema nervoso che s'era scaricato. "Lo dicevo, io!" si mise a gridare e, spalancata la porta, si precipitò nel corridoio. Le porte delle camere erano tutte aperte: Leopoldo Marchi accennava, senza voce, verso la camera di Letizia Bini.
Il vecchio si avvicinò con paura e guardò. L'omicidio si continuava, in quella camera, se il giovane Dilella, con una faccia da bestia, non si pentiva ancora di averlo ucciso, "quel cane!" ("Eccola, la vergine, eccola!" gridava con la rivoltella in pugno.) Né si poteva dire morto Enzo Magnani, se la Bini era ancora calda e fremente di lui, e ancora lo amava fisicamente, come non si può amare un morto.
Suonarono le quattro del mattino; e le stelle si allontanavano. Leopoldo Marchi, preso da un accesso di nervi, piangeva come un bambino, con la testa contro il muro. La Bini disse, in un momento di forza, che mai "quel delinquente" le aveva detto di amarla o si era mostrato geloso.
Allora fu domandato al giovanotto per quale ragione avesse ucciso; ma egli non sapeva più nulla, non capiva più nulla, perché già era l'aurora, e cominciava il nuovo giorno, del tutto simile ai giorni precedenti; e la notte, la terribile notte, era passata.
Presto, l'uccisore e il morto sarebbero scomparsi: l'uno nelle carceri, l'altro nella terra. E la vita di nuovo si sarebbe messa a correre con la sua luce serena.