Incontro con Giuseppina
Il nove gennaio del 1912, se qualcuno ancora lo ricorda, si fece, dopo il tramonto, molto luminoso, a causa del vento che irruppe dal settentrione, sollevando le poche nuvole, già diventate grige, in quella parte di cielo ancora colpita dai raggi del sole, ove, da smorti vapori ch'erano stati, parvero cambiarsi in tende e tappeti sfolgoranti. Gl'interni delle case rividero, più dorato e felice, il lume di una giornata che avevano già salutato per sempre.
"Diamine!" disse Tobaico. "S'è levato il vento. Qui i vetri tintinnano ch'è un piacere! Sono molto nervoso e non posso sentire questo rumore! Non potremmo andare in una stanza più riparata?"
"Sì... Come no?" fece confuso il professore Laprua. "Ma dove?"
"Forse di là!" aggiunse timidamente Luigi, accennando con uno sguardo il vano della porta che dava nel piccolo corridoio.
"Già, è vero: nello studio! Venga, sì! Non ci avevo proprio pensato!"
Un minuto dopo, Luigi si trovava così vicino alla terrazza dei Chiarella che le foglie di capelvenere, ammucchiate sulla balaustra, ergendosi a ondate e cavalloni, gli pareva lo volessero acchiappare. Egli diceva ogni momento: "Diamine! Francamente! Ohi, ohi, ohi!"
La sola vista di quel vento, così vivo per lui nel palpito di foglie di una tale terrazza, gli rendeva difficile la respirazione, dentro la stanza difesa dai vetri, tiepida e quieta. Non prestò più attenzione ai discorsi di Laprua che, da vero liberale, riferiva, con rispetto e scrupolo, non solo le opinioni di filosofi e poeti, ch'egli aveva letto in gran numero, ma anche di uomini oscuri, privi di qualunque autorità all'infuori di quella che avevano per lui come amici e, infine, come uomini. Diceva infatti Laprua: "Nené il farmacista, nel maggio del 1907, uscendo dalla Birreria, mi disse testualmente: "Non credo che la Francia ce la faccia contro la Germania!"", quando Tobaico gettò un piccolo grido e fu sul punto di svenire: nella terrazza era apparsa Giuseppina e un colpo di vento l'aveva subito depredata di alcuni nastri, fazzoletti, e finanche di una forcina. Questi oggetti volavano intorno a lei, che inutilmente cercava di riprenderli a ciascuno sorridendo come per convincerlo di venir giù: ma essi sfrullavano da tutte le parti, e uno anzi, che agli occhi di Tobaico aveva preso l'aspetto di una colomba illuminata, venne verso il balcone di Laprua e picchiò sui vetri.
"Oh, il fazzoletto della signorina!" esclamò premuroso Laprua, spalancando il balcone e raccattando un velo ricamato di due stemmi, che gli fu subito strappato di mano da Tobaico.
Giuseppina si era avvicinata alla balaustra, e sorrideva verso la stanza. Tobaico poté vederla da vicino e segnare furiosamente nella memoria un piccolo neo ch'ella aveva sul collo, furiosamente segnarlo, come chi s'immerge una lama nel petto in modo che nessuno gliela possa strappare senza togliergli insieme la vita.
Il professore uscì sul balcone, facendo a Tobaico, con la mano dietro la schiena, segno di seguirlo; ma Tobaico non volle uscire, perché temeva che il vento gli alzasse in aria i capelli, dandogli quell'aria di malato, in odio alla quale, una mattina, aveva parlato male degli specchi del suo tempo, che non erano più, francamente, gli specchi di una volta, quelli in cui si guardava, per esempio, madama di Pompadour. D'altra parte, cosa stranissima in un momento così delicato, mentre la sua anima era inondata di luce celeste, la sua carne, senza che lui lo volesse, senza che lui gli desse il minimo incentivo, non si sa perché, non si sa come, era eccitata in tal modo da intricargli tutti i movimenti. "Il diavolo sa che mi succede?" pensava Tobaico. "E' mai possibile questo?... Oh, che vergogna! E quanto durerà? perché non finisce?"
"Il mio amico Tobaico Le porterà il fazzoletto!" gridò intanto Laprua a Giuseppina, riparandosi la voce con ambo le mani.
"Grazie!" rispose la ragazza. "Ma è meglio che me lo dia di qui!"
Spinto per un braccio dal professore, e inciampando malamente in se stesso, Tobaico uscì nel ballatoio e porse il fazzoletto a Giuseppina, mentre la brutale mano del vento gli s'infilava nei capelli e gli dava una scarduffata.
La ragazza sorrise un poco, fece una riverenza e fuggì dentro un arco, chiuso da una vetrata, dalla quale parve a Tobaico di veder trasparire, minutamente, come per un miracolo, tutti gl'interni della casa dei Chiarella. Aver visto la casa di Giuseppina, fu per lui come averne visto la caviglia, o il seno, o, meglio ancora, il carattere dolce. "La casa! Oh, la casa!"
Rientrati nello studio e richiuse le imposte, Tobaico disse: "Che bella casa, devono avere questi signori!"
"Le assicuro, una reggia!" fece il professore.
"Ci sono molti divani?"
"Non solo divani, ma poltrone a sdraio, sgabelli imbottiti, seggiolini a poltrona, seggiolini a dondolo. E davanti a ciascuno, Lei trova un reggipiedi comodissimo, e non Le parlo dei cuscini ricamati che Le permettono di poggiare le spalle e i gomiti nella maniera più comoda!"
"Immagino che le imposte chiudano bene e non facciano entrare il vento!"
"Nemmeno l'uragano più violento riesce a insinuare un dito al di là di quei vetri. Io mi sono trovato dai signori Chiarella in una giornata di marzo, quando il vento si porta via la testa, e non ho notato il minimo tremolio nei tendoni e nelle nappe dei balconi!"
"Straordinario! In casa mia, invece, pare che siamo fuori! Il vento legge i miei libri e il gatto s'inganna scambiando per sorci tutte le piccole cose che si muovono sul pavimento! La mattina, i vetri sono appannati dall'esterno, perché la strada è più calda della mia camera!"
"Dove, questo, a Catania?"
"Non a Catania, ma nel pa... nella città in cui sono nato... E c'è, nella casa di quei signori, un camino?"
"Camino uno? Ce ne sono dieci, e non solo camini, ma anche stufe, scaldini, conchette... Le stanze, la sera, luccicano di fiammelle e di braci in ogni canto!"
Tobaico, ascoltando il professore, si sentiva per tutta la schiena quei voluttuosi brividi che dà il freddo quando schizza fuori del nostro corpo, scacciato da un improvviso calore. Lampadari, tappeti, stufe, cuscini... Che cosa c'è di meglio, nella vita? E tutti questi oggetti, che il professore doveva nominare ad uno ad uno, egli poteva chiamarli tutti in una volta con un nome: "Giuseppina!"
La conversazione si prolungò per due ore e fu solo negli ultimi minuti che Laprua e Tobaico parlarono del noioso duello che pareva ormai inevitabile.
Infatti le sfide non si fecero aspettare. Il professor Laprua ricevette due ufficiali che "pareva gli fosse morta la madre allora allora", tanto erano silenziosi, abbottonati e rattristati.
Tobaico invece ebbe portata la sfida da un avvocato e un capitano, e gli toccò di riceverli alla presenza del Pizzaro che si dava pizzicotti nelle natiche per non gridare: "Cartocci di fumo! Sorci bagnati! Portatela a me la sfida, che vi rompo la noce del collo!"