Due passi di legno
Fu il 5 aprile del 1917 che un amico disse a Silvio Panenza: "E' arrivato uno come te!"
"Che vuol dire, uno come me?" domandò l'altro insospettito, appendendo tutti e due i bastoni al braccio sinistro.
"Vuol dire uno che ha avuto la tua disgrazia!"
"Non facciamo che è uno scherzo! Anche l'anno scorso mi avete presentato uno come me, e poi l'ho visto raddrizzarsi e correre come una lepre. Sono zoppo, ma questa volta, sull'anima di mia madre, m'appoggio al muro e vi rompo il muso a tutti quanti!"
E invece quella volta non fu uno scherzo. Il cassiere della Banca d'Italia, Mario Roda, trasferito dalla sede di Messina a quella di Catania, era un vero zoppo.
L'incontro avvenne nel piazzale del giardino pubblico. Silvio Panenza, fermo vicino al palchetto della banda municipale, vide avvicinarsi dal viale degli Uomini Illustri uno dei più simpatici ed eleganti giovani che avesse mai veduto, imporporato in viso dallo sforzo di arrancare appoggiandosi a due bastoni. Nel momento in cui i due si strinsero la mano, il direttore della banda, salito sul podio, fece sentire nel silenzio generale, tre colpi di bacchetta sul leggio. La bacchetta del direttore scatenò, sparpagliò fra gli alberi e portò al cielo gli strilli dei clarini e delle trombe, ma parve anche imprimere una velocità senza pari ai primi passi di quell'amicizia. Silvio Panenza e Mario Roda uscirono dal giardino pubblico col dolce sorriso che hanno gli uomini quando si son provvisti di una nuova arma contro la noia.
Sfortunatamente, queste due brave persone, che, una settimana dopo, si consumavano il cervello per cercare se si fossero viste in altri tempi, o se parenti, così innaturale sembrava all'uno e all'altro l'essersi conosciuti solo pochi giorni avanti, dovevano scegliere, per le loro passeggiate, le vie traverse, i vicoli, e le ore della notte. Altrimenti eran costretti a imbrancarsi in una brigata, e confondere i loro due passi, che parevano due colpi di tamburo, nel pesticciare da mandra di cinque o dieci grossi giovanotti. Quando camminavano soli per le vie fuori mano, gli specchi delle casette a pianterreno riflettevano due uomini biondicci, che una volta si piegavano a destra e una volta a sinistra. "Per te!" diceva la gente, quando li vedeva piegarsi a destra. "Per me!" quando li vedeva piegarsi a sinistra. Un gambale dei loro calzoni svolazzava, e l'altro, pieno zeppo di legno, viti e cinghie, sembrava dovesse lacerarsi di lì a un minuto.
Nel 1921, la scienza venne in loro soccorso. Una casa di Bologna avvertì quasi tutta l'Italia, con un grande manifesto appiccato nelle piazze principali, ch'era stato fabbricato un nuovo tipo di apparecchio per sostituire le gambe mancanti.
I due amici partirono per Bologna, e tornarono con una gamba di legno talmente ben fatta che il loro passo divenne quasi normale. I due bastoni furono ridotti a uno; e il sarto, provando i calzoni a Silvio Panenza, si voltò dall'altra parte per non mostrare gli occhi inumiditi. Voleva un gran bene a quell'uomo elegante, a cui il destino, con crudele brutalità, aveva vibrato un colpo d'accetta sul ginocchio. "Ora è un'altra cosa!" diceva il sarto. "Ora, vi assicuro, è un'altra cosa."
In verità, cominciava una nuova vita. Già in treno, tornando da Bologna, s'erano accorti che con le donne "la faccenda andava molto, molto meglio!" I loro visi si spianarono, l'occhio scintillò. Essi ebbero modo di sorridere su tante sciocchezze. Il dentista, per esempio, aveva sempre gridato all'uno e all'altro, anche per telefono: "Non fumate la pipa! E' per questo che i denti vi diventano gialli. Peccato!" Ora essi fumavano la pipa più di prima; e i denti tornavano bianchi come quelli di un quindicenne. Era dunque la bile, e non il fumo, che glieli aveva ingialliti...
Il nuovo apparecchio, bisognava rinnovarlo, o almeno ripararlo, al termine di ogni anno. In agosto, epoca dei viaggi di piacere, i due amici lasciavano Catania e si recavano a Bologna. L'apparecchio veniva riconsegnato alla fabbrica; ed essi rimanevano per una settimana tappati in albergo (almeno durante il giorno) Col telefono interno, si parlavano da una camera all'altra: "Ancora cinque giorni... Ancora quattro... Domani, finalmente!" Sebbene ogni sera mettessero davanti la porta tutt'e due le scarpe, in verità una sola di queste aveva bisogno di esser lucidata. Nelle loro passeggiate notturne, essi adoperavano una scarpa ciascuno. La sicurezza di tornare fra poco meno zoppi di prima, con l'aiuto di un apparecchio sempre più vicino alla perfezione, dava loro, in quei sette giorni, tutti i piaceri dell'incognito. Ogni anno diventavano più audaci, durante la breve segregazione di Bologna. Una volta, sporgendosi dalla finestra dell'albergo, riuscirono a conquistare la simpatia di due giovani sorelle che si affacciavano al balcone contiguo. Tutti gli ardori del Mediterraneo divamparono su quel davanzale, ove l'inquilino precedente aveva lasciato un pacchetto vuoto di Nazionali e tre gocce di sangue. La ragazze partivano l'indomani per Roma, col proposito di restarvi cinque giorni. Panenza e Roda, vinti dall'impazienza, partirono anch'essi per Roma, con un gambale dei pantaloni del tutto vuoto e svolazzante, e l'aiuto di due bastoni. L'apparecchio, spedito per pacco espresso, li avrebbe raggiunti il giorno dopo. Essi alloggiarono nel medesimo albergo delle due sorelle, e riuscirono a procurarsi la camera e la finestra contigue. La sera, con grande sorpresa delle giovani, che s'erano affacciate a guardare la luna, Silvio Panenza e Mario Roda sporsero le loro teste, unendole alle tante cose, vecchie e nuove, che la luna in quel momento imbiancava. Il guaio fu quando le due sorelle manifestarono il desiderio di far quattro passi insieme.
"Non possiamo!" mormorò sorridendo Mario Roda, e il suo sorriso cercò di alludere a un fatto che li avrebbe resi più misteriosi e amabili.
"Ma scusate," disse una ragazza, "avete fatto voto di restar chiusi in albergo?"
"Chissà!" fece Mario Roda.
L'indomani, l'apparecchio non arrivò. Essi telegrafarono a Bologna, ma non ebbero alcuna risposta. La notte, sentirono ridere nella strada: Panenza si affacciò e vide le due sorelle presso alla porta dell'albergo nell'atto di licenziarsi da due ufficiali, di cui uno, probabilmente ferito, zoppicava appena appena. I due ufficiali, alti e diritti, mandavano, dalle loro monture, al lume di luna, un barbaglio accecante.
Fuori di sé per la collera, gli amici ripartirono per Bologna. Era una giornata di vento, e il gambale vuoto si gonfiava come una veste di donna. A Bologna li attendeva un'amara sorpresa: le gambe di legno erano state spedite un'ora prima, e la sera sarebbero arrivate a Roma, nell'albergo di cui essi avevano lasciato l'indirizzo. Tornarono a Roma, più stanchi che mai. I due ufficiali avevano occupato la camera del secondo piano, contigua a quella delle due ragazze, la camera in cui essi avevano dormito con tante speranze. Gli toccò un camerone freddo al terzo piano, con tre letti di ferro nero allineati l'uno accanto all'altro. I pacchi con le gambe non erano ancora arrivati. Ma a tarda sera, arrivarono. E un'ora dopo, Silvio Panenza e Mario Roda facevano il loro ingresso nella sala da pranzo dell'albergo. Con un rapido giro d'occhi, s'accorsero che le due sorelle avevano già lasciato il tavolo insieme agli ufficiali. Ma il monte di bucce e mozziconi di sigarette, rimasto sulla tovaglia, che di solito ispira la malinconia dell'abbandono, non riuscì a stampare i suoi tristi colori nell'animo dei due amici, reso ormai saldo dal recuperato piacere di camminare come tutti gli altri. Quella sera, ebbero molta fortuna con le donne. Rientrando in albergo, nello stesso momento in cui le due sorelle, sedute entro una carrozza ferma, non si decidevano mai a separarsi dagli ufficiali, il riso delle tre ragazze, con cui si accompagnavano Silvio Panenza e Mario Roda, fu più gaio e squillante, di gran lunga più gaio e squillante, che non quello che veniva dalla carrozza...
Ma da un certo tempo in qua, le cose vanno male per Silvio Panenza e Mario Roda. I viaggi estivi a Bologna son diventati difficili; pare che non ci sia più posto, nel mondo, per uomini sereni, che amano la vita, la luce, l'amicizia, la conversazione con le donne, il lavoro, il riposo e la lieta sorpresa di riaprire ancora una volta gli occhi dopo un sonno di piombo. Nei treni, essi non sanno dove collocare la gamba, e i viaggiatori, diventati scortesi, quando inciampano in quel pezzo di legno rigido, guardano i due poveri diavoli con una faccia piena d'improperi. A questo si aggiunga che neri pensieri si sono impadroniti della loro testa: "Mentre si perdono, e saltano in aria, migliaia di gambe vive, di braccia giovani," si dice spesso Panenza, "non è buffo che noi abbiamo tanta cura di una gamba di legno?" E poi invecchiano, invecchiano a precipizio. Il buio delle strade, la sera, pare che operi sul loro viso come l'umidità del legno. Le loro facce son prese di buio, fradice di tenebra. La notte, nerissima, succhia il nero ai loro capelli, e li stinge. Queste due persone gaie, che nell'agosto del 1922 fecero ridere l'uomo più tetro della Sicilia, il commendator Gorgone, oggi sono canute, e sbattono le palpebre per dissipare la nebbia che sempre vi si ammucchia. E infine, sentirsi agganciata al corpo che invecchia quella gamba nuova, su cui ogni anno viene dipinto a freschi colori un calzino con l'orlo arricciato, comincia a infastidirli acutamente. Silvio Panenza, che ha avuto sempre il pudore della sua disgrazia, ora invece ne parla, e talvolta, dobbiamo dirlo, sguaiatamente. L'ultima frase, ch'egli ha dedicato a questo argomento, non è punto bella, e ha disgustato non poco le persone che l'hanno sentita. "Se quest'inverno ci sarà molto freddo, e la legna mancherà, state certi che butterò nel camino le sedie, la scrivania, l'armadio, i libri, e, se occorre, la mia gamba!" Perché si deve parlare con tanta leggerezza di una sventura mandataci da Dio, chissà per quali fini?