Sogno di un valzer

 

 

Di un ballo, si sentiva veramente il bisogno. I forestieri, che soggiornavano a Nissa, per la più parte professori di scuole medie, magistrati e dirigenti sindacali, quando, alle dodici e tre quarti, con l'affrettata colazione mugolante nello stomaco, vedevano partire dalla stazioncina uno dei loro colleghi, finalmente trasferito a Palermo o a Catania, quando vedevano ristabilirsi, dietro l'ultimo convoglio, il nero del prossimo traforo, come la porta di un carcere che si richiudesse alle spalle di un liberato, di quali parole facevan vibrare lo stecchino che tenevan fra i denti? Su per giù di queste: "Dobbiamo organizzare un ballo!" Anche i giudici di tribunale che, le sere d'inverno, scendevano nel ristorante dell'albergo Villa Agonia con uno scialle da donna sulle spalle e lo zucchetto in testa, il che non impediva loro di baciare la mano alle signore, i giudici e il presidente e il pubblico ministero confessavano agli amici: "Un ballo ci metterebbe a contatto con le famiglie del luogo, che sono molto ospitali, ma non trovano mai l'occasione d'invitarci a casa. Le signore poi sono assai intelligenti!" E non s'ingannavano. Le signore e signorine di Nissa, quelle che a ogni principio di stagione si recavano a Palermo per scegliere gli abiti, talune pilotando di persona una macchina da corsa erano singolarmente intelligenti. Queste signore non erano molte, ma non erano nemmeno poche, come non sono molte né poche le famiglie benestanti delle piccole città siciliane. Non v'è dubbio, però, che, in altri luoghi, queste signore sarebbero state soltanto eleganti, e a Nissa erano anche intelligenti e colte. Le loro case, arredate con mobili di cui esse stesse avevano fornito il disegno, possedevano tutte una grande biblioteca. Era qui che le signore passavano una buona parte della giornata. Il telefono, quello col ricevitore verde e piccolo al pari di un giocattolo, derivato dal più grosso apparecchio nel quale parlava il marito, trillava tra i libri; la signora conversava con le amiche, accarezzando il dorso dei volumi, e talvolta aprendone uno e leggendo qualche pagina.

Lisa Martoglio, la più intelligente e colta fra le intelligenti e colte, aveva fatto portare un letto entro la biblioteca, si era chiusa per una settimana fra le scansie dei libri e, giorno e notte, aveva studiato e recitato, sola davanti a uno specchio, la parte dell'attrice in Trovarsi di Pirandello. Le signore e signorine adoravano Pirandello. Era da lui che avevano capito perché spesso si sentissero non una, ma due; era da lui che Anna Rosali, dopo una notte di rimorsi per essersi lasciata baciare da un amico del marito, aveva appreso, piangendo di tenerezza, di non essere colpevole, perché l'atto del giorno avanti ella lo aveva compiuto "come in sogno" Era infine Pirandello che confortava queste care ragazze (giovanissime, le più) della maldicenza che le perseguitava, anche quando esse correvano lontano da Nissa, sole e scapigliate con la loro piccola fuoriserie. La maldicenza, dopo lo studio di Pirandello, veniva spiegata così: un cicaleccio di quel pauroso mistero che circonda gli uomini e per il quale ciascuno è mille, e anche centomila: dissimile da sé e quale l'altro lo crede. E le stesse lettere anonime al marito, ciascuna con un giudizio sul conto della signora, allineate sul tavolo, erano come una serie di specchi concavi e convessi, entro i quali la donna pensosa vedesse il proprio viso sfigurato in cento modi diversi.

Amica fidata di Lisa Martoglio era Maria Carnevale, una piccola signora, sulle cui labbra, serrate e sporgenti, si riversava, dalla fronte e dagli occhi, un'aria fra pensosa e assonnata. Amiche, ma non fidate, erano Giovanna Roccaraso, che guardava sempre con meraviglia, entro lo specchio della borsetta, le lunghissime e solenni sopracciglia sotto le quali aveva sempre dimenticato di avere gli occhi; Valentina Morello, che suonava il violino, lasciandolo, alla fine del concerto, bagnato di lacrime; la giovane dottoressa Elena Caruso, che aveva acquistato un cane a Parigi e che, in una stanza semibuia, alla presenza di due forestieri, aveva eseguito, senza scarpe, una danza classica.

In inverno, le amiche si riunivano nel salotto e, in estate, nella terrazza di Lisa Martoglio. Talvolta a queste riunioni partecipavano i mariti e i fratelli, ma essi erano più che altro tollerati, avendo poco prima le donne parlato del mistero della vita umana e, insieme, del pessimo carattere degli uomini. "I mariti che alzano troppo la voce", e "il non sapere chi siamo", erano i due tormenti principali di quelle giovani fronti.

Molto onorato era invece Carlo Cannata, professore di filosofia, un piccolo uomo sfinito dalle lezioni private e dalla conversazione con gli amici, con la moglie e coi figli. Egli leggeva di notte e parlava di giorno. Le idee non gli lasciavano il minimo fiato in petto, pretendendo, non appena nate, di esser pronunciate a voce alta. Cannata, per non parlare, avrebbe dovuto non pensare, ma questo non gli riusciva possibile. Un metodo ferrato gl'impediva poi di trattare la qualsivoglia cosa con leggerezza. Se la vita voleva esser futile, egli la costringeva a riprendere la profondità che Dio le ha dato. La moglie, una donna robustissima ed elegante, sulle cui spalle andavano a finire, in forma di pellicce, i fogli da cento che gli alunni privati deponevano con impaccio sul tavolo del professore; la moglie gridava, dall'altra stanza: "Carlo, bisogna invitare Cesarino, questa sera?" Il marito si alzava e, seguendo, per la casa, coi suoi corti i lunghi passi della moglie, poneva la questione così: "Dio dice: o per te, o con te, o contro di te!" Non si esce da questi tre casi! In essi, infatti, è l'origine di ogni morale. Per te significa: amore. Con te significa: amicizia. Contro di te significa: inimicizia. Nei riguardi di Cesarino, si poteva scartare il "per te", non essendo il caso di amare un giovane così poco pensoso, ma non si poteva scartare il "con te" senza cadere nel "contro di te", vale a dire nell'odio, che Cesarino non meritava. Dunque, invitarlo, e passare una sera "con te", con Cesarino. Ma la moglie opponeva che, oltre quelli citati dal marito, esisteva un quarto caso: senza di te, senza Cesarino. Per un momento il professore rimaneva interdetto, coprendosi con le palpebre le pupille che s'erano del tutto spente; ma poi riapriva gli occhi e, accompagnato dal loro scintillio, dimostrava che "senza di te" equivale a "contro di te" Io dico: posso vivere senza di te. Cioè dico: posso vivere senza che tu viva. Cioè dico: si può vivere senza che tu viva. In fondo, il mio sentimento è questo: tu puoi morire! Il "senza di te" è una delle forme più sottili del "contro di te" Cesarino, la sera, ignorando di quale discussione fosse stato l'oggetto, comandava in pessimo francese la controdanza in casa del professore.

Amico, anzi "fratello d'oro" di Cannata, era il giovane avvocato Edoardo Lorena, discendente di una famiglia di uomini politici molto rinomati nell'Isola, già tenente di cavalleria e anche lui, come il nonno e lo zio, "uomo di sinistra" Violento e buono nello stesso tempo, dopo aver condannato l'universo a una totale distruzione, venendo ai particolari, non sapeva più trovare, nemmeno fra i nemici più accaniti, un solo uomo non degno di ammirazione. Per una intesa, che tutti ormai conoscevano, le persone ammirevoli eran chiamate da lui "belle", e le più ammirevoli fra le ammirevoli addirittura "zii" e "zie" C'era zio Mazzini; poi c'era zio De Sanctis; e giù giù si arrivava a zio Luigi e zio Corrado, che erano il farmacista e il medico condotto di Nissa, "belli" anche loro perché sapevano ripetere correttamente a memoria talune frasi di testamenti politici.

Cannata e Lorena credevano di somigliarsi, e si abbracciavano ogni momento per questo. Ma in realtà erano assai diversi. L'uno non sapeva pensar nulla senza la premessa: "Dio dice..." Ed era un cervello del tutto metafisico. L'altro, invece, non sapeva veder nulla, nemmeno il tacco lasciato da una scarpa vecchia per la strada, senza unirlo con la mente a tutti i tacchi e le scarpe del mondo, e questi a tutto il commercio e il lavoro del mondo, e questi ultimi a "tutta l'organizzazione del lavoro e del commercio del mondo" Era, insomma, un cervello del tutto politico. Parlavano ambedue di continuo, ma Cannata non pronunciava a voce alta che pensieri filosofici, lasciando nel più perfetto silenzio i bisogni della sua vita intima (aveva passato un inverno intero col desiderio, non mai espresso, di un'altra coperta sul letto), mentre Lorena non aveva vita intima, perché tutto gli scappava dalla bocca con gran rumore. Quando leggeva, leggeva a voce alta; quando a un amico non aveva più nulla da dire, lo chiamava continuamente per nome; e quando era solo nella sua camera, e non aveva un libro da recitare, accompagnava con parole i minimi atti del suo corpo, e li descriveva a se stesso. "Tossisco", diceva un po’ prima di tossire, o un po’ dopo aver tossito. "Mi volto", quando sul letto muta fianco. E perfino: "Mi addormento", nell'istante in cui perdeva la conoscenza. La mattina, dopo aver detto: "Mi sono svegliato!", saltava ad abbracciare i fratelli, il padre, il cane, la cameriera e, per un minuto, rimaneva come paralizzato dinnanzi al telefono, tanti erano i numeri che facevano ressa alle sue dita e tale il desiderio di parlare con tutta la città in una volta. Poi si accontentava di salutare gli "zii", i "belli"

In ogni modo, Cannata scambiando Lorena per un filosofo, e Lorena scambiando Cannata per un politico, i due uomini si credevano simili come due gocce d'acqua e, chiamandosi fratello, zio e bello, si premiavano a vicenda con baci e con abbracci.

Quando il loro bisogno di parlare si sentiva inappagato dal fatto che nessuno dei due provava il bisogno di ascoltare, cercavano un terzo amico, l'ex prete Ottavio Carrubba, "zio, bello e poeta assai fine", la persona più rispettabile di Nissa, per la sua cultura profonda, per i paramenti della sua vita, per lo strano sorriso con cui ascoltava tutti i discorsi, e nel quale ognuno vedeva un misterioso e ineluttabile "Sì!" che, invece della forma delle parole, avesse preso quella di un barlume. Come leggeva bene, figlio di Dio! Tolte le lenti, il lungo collo si torceva in giù e portava il viso sul libro, come una lanterna fioca che dovesse rasentare le cose per illuminarle. Con la bocca a un millimetro dalla pagina, egli cominciava a recitare le prime parole; poi il collo, con uno scatto, risollevava in aria quel viso; ed egli, tenendo fissi in un punto gli occhi che, privi di lenti, erano ciechi, recitava il resto del periodo. Ma che tono! Che gusto! Vestite di una voce così misteriosa, le cose belle diventavano bellissime! E le brutte rendevano la bruttezza impercettibile come la maggior parte delle loro sillabe! Se c'era un aggettivo che non andava, egli lo spegneva dolcemente; se invece ce n'era uno che andava bene, egli lo lanciava, come un uccello trillante, per la stanza. E proprio come un uccello vivo e reale! Perché, terminata la lettura, l'aggettivo rimaneva a gorgheggiare fra le quattro pareti coperte di quadri. Né mancava a Carrubba lo spirito. Anzi ne aveva uno quasi fanciullesco, dal quale pareva che solo il giorno avanti fossero caduti di mano i giocattoli. Dai frivoli, come accade alle cose veramente profonde, gli scherzi di Carrubba erano giudicati frivoli. E quale prova migliore che essi non lo erano? Carrubba, nei momenti di riposo, faceva lo zoppo e, irrigidendo la gamba sinistra, riempiva la stanza di quel rumore fatale che manda una gamba rigida. Deliziose scenette di zoppi, eseguiva e faceva eseguire dai suoi amici; e altre ne immaginava, come quella di un esercito di zoppi che s'avanzasse di notte, e mettesse il gelo nel petto del nemico col solo rumore del passo lento e a martello. Egli aveva scritto anche una farsa intitolata: "Gli zoppi vogliono la guerra!" Deliziosa opera, solo paragonabile, per semplicità e forza comica, a un melodramma di Rossini. Del resto, il sospetto che qualcosa di serio si nascondesse sotto quegli scherzi, aveva conquistato anche il presidente del Tribunale. Carrubba era in ogni caso un uomo profondo e rispettabile, ma specialmente quando somigliava a un bambino. Scavando nell'uomo, a una certa profondità, si ritrova sempre l'innocenza, come l'acqua nella terra. Quello, da cui si riaffacciavano i giuochi della fanciullezza, in Ottavio Carrubba, era un pozzo di sapienza. Il presidente non aveva battuto ciglio, la sera in cui Carrubba, dopo la lettura di un filosofo moderno, pregò gli amici d'inventare ciascuno un ballo. Al piano Greta, la figlia dell'ospite, suonava un valzer. Cannata, lo ballò come una scimmia tarda, piena di sonno e sempre nel timore di ricevere un colpo di frusta; e fu molto applaudito. Il presidente si dichiarò inabile a questo giuoco di fantasia, ma dichiarò insieme ch'egli lo apprezzava. Ed era vero. Tanto lo apprezzava che, l'indomani mattina, nell'aula del Tribunale, ne parlò a bassa voce al cancelliere; e la sera, inginocchiato nella piccola chiesa madre, ne parlò, sempre a bassa voce, ad alcune signore che avevano poggiato i gomiti sullo stesso leggio.

Sicché il giorno che fu deciso di preparare quel ballo tanto agognato, una voce concorde scelse Ottavio Carrubba per presidente del comitato.

Si voleva una festa lieta, piena di scherzi e d'invenzioni, buona musica di antichi valzer, costumi e truccature, ma anche intelligenza e profondità. La Gioia doveva sorridere al Pensiero, e il Pensiero doveva tenere i fili della Gioia. Chi, meglio di Carrubba, era atto a far questo?

I giovanotti si fregavano le mani al pensiero che, intelligenza o meno (questo non li interessava), ci sarebbe stato un ballo, e le parole, ch'essi mormoravano di notte sul cuscino, avrebbero finalmente trovato un'orecchia dal lobo roseo. Non tutti erano d'accordo che il ballo dovesse intitolarsi "Valzer", per il gran posto che avrebbe dato a quell'antico ritmo. Gli impiegati di banca preferivano la rumba, specialmente Gaetano Lardelli che la insegnava in fretta e furia ai suoi colleghi, senza distaccarsi dal tavolo di lavoro, anzi con le mani su di esso, la sedia pronta a riaccoglierlo, levando i piedi dal pavimento al ritmo di una canzonetta che, uscendo appena appena dalla sua bocca, le sole sue orecchie riuscivano a udire.

 

Ottavio Carrubba, conosciuto in piazza l'incarico del quale "era stato onorato", s'avviò lentamente verso casa. Le parole "ballo" e "valzer" gli presentavano alla memoria talune prime sere del Novecento, con la camera buia, i vetri appannati, e, di là dai vetri, la città disseminata di fornelli rossi (quei fornelli, naturalmente, eran finestre illuminate, e siccome padre e madre, uscendo, avevan detto di "andare al ballo", in tutta la città, e specie nei punti luminosi, per lui si svolgeva un ballo) Insieme gli muovevano dalla gola un riso simile alla tosse, coprendosi il quale col bavero del soprabito, egli aprì la porta di casa.

Lo studio, in cui entrò, era al pian terreno, e trasmetteva dalla volta di legno, che faceva da pavimento alla sala da pranzo, i passi della moglie e della figlia: perché, all'infuori dello studio, tutta la casa era al primo piano, e si può dire che tremasse sulla testa pensierosa del suo proprietario.

"Un ballo!" mormorava Carrubba, come provando nella solitudine il suono di una parola così strana. "Un ballo!" Tirava dalle scansie, e rimetteva subito al posto, uno dopo l'altro tutti i volumi. "Un ballo!" Poi si avvicinò al tavolo da lavoro e, preso un foglio scritto, vi gettò lo sguardo, mormorando: "Un ballo!" E col medesimo gesto, e pronunciando la medesima parola, gettò lo sguardo su altri fogli, scritti e non scritti, quaderni, buste e polizze. Infine, per la scala interna, illuminata da una candela racchiusa entro un lanternino, salì al primo piano.

"Carolina!" disse alla moglie. "Preparo un ballo!"

"Lo so," fece la piccola donna, agitando una mano minuta, macchiata e carica di anelli di legno e di celluloide. "Sappiamo tutto qui! Ma Ottavio mio, apri gli occhi! Fa un ballo per i giovani! Questo ti raccomando io: fa un ballo per i giovani!"

"Come sarebbe a dire, per i giovani?"

"Prepara cose che piacciano ai giovani! Sorprese, sorprese e sorprese! Questo io ti dico, sorprese!"

"Ma è naturale, figlia di Dio!"

"E apri gli occhi nel fare gl'inviti!"

"Anche questo è naturale. Vuoi che inviti gente dappoco? La città s'aspetta da me un ballo come si deve!"

"E semplicità!"

"Naturale: semplicità!"

"E buona musica!"

"Buona musica, naturale!"

"E invita il barone Calogero!"

"Calogero, naturale!"

"Non il barone di cognome Calogero! Il barone di nome Calogero!"

"Emanuele Calogero?"

"No, mio signore: Calogero Emanuele!"

"Figlia di Dio! Come posso invitare Calogero Emanuele? E' uomo da invitarsi, quello? Se mi parli di Emanuele Calogero, la cosa cambia aspetto!"

A questo punto, la figlia Greta, più somigliante che mai a Greta Garbo, entrò nella camera da letto. Greta, a detta del padre, era una ragazza di molto riserbo. In realtà, passava i giorni con la testa vuota di parole, in uno stato perfettamente notturno. E quando l'invito del padre: "Parla, cara!" risuonava nel suo cervello, come una campana in un casone privo di servi, la sua memoria correva a svegliare quante più parole riuscisse a rintracciare nel passato. Ma erano parole di film, e la più parte di film di Greta Garbo. Alla sua bocca larga, venivano faticosamente frasi come: "Io sono tua, mio caro!", "Ma non dubitare di me!", "Datemi un cocktail!" Sicché ella doveva cambiarle in fretta e furia con un sorriso smarrito che il padre chiamava angelico.

"Greta," disse Ottavio Carrubba, "hai sentito i nostri discorsi?"

La ragazza disse: "Sì!"

"E che ne pensi?"

Greta aggrottò la fronte, poi sorrise e, voltatasi lentamente, s'incamminò verso la camera da cui era venuta.

"E io," riprese la signora, "ti dico che commetti una vera sciocchezza, se non inviti Calogero Emanuele!"

"Calogero Emanuele, a parte che non ha pagato la terza rata per la tomba di suo padre, e bastona i contadini, e giura sulla menzogna..., assorda le orecchie coi suoi discorsi di vita militare!"

"Emanuele Calogero è una mummia!"

"Non invitiamo nessuno dei due!"

"Chiudere la porta a due baroni? Ma che latte hai bevuto da piccolo?"

"Secondo te, cosa dovrei fare?"

"Mah... Invitarli tutti e due! Invitare più gente che puoi!"

"E' naturale!" mormorò il marito, ripreso dalla calma consueta. "E' naturale! Più gente che sia possibile! L'inviterò tutti e due! E metterò nel Comitato Giovanni La Pergola!"

"Come?" fece la moglie, alzando i capelli dalla fronte impallidita. "Che dici mai? Ripeti!"

"Metterò nel Comitato Giovanni La Pergola!"

"A questo punto, sei arrivato? Giovanni La Pergola nel Comitato? Con le signore?"

"Sta zitta! Può trovarsi sull'uscio."

Il timore era fondato, perché Giovanni La Pergola possedeva una misera rivendita di frutta e verdura di faccia alla casa di Ottavio Carrubba. Era un uomo taciturno, quasi analfabeta, che vestiva sempre di nero, perché aveva giurato di portare sino all'ultimo suo giorno, il lutto per il fratello, ucciso da sconosciuti quindici anni avanti. Carrubba ne aveva la più alta stima, come di un uomo straordinario. E in tutti i discorsi, quando passava da un argomento all'altro, laddove gli altri sogliono fare una pausa, egli guardando per terra mormorava: "Quel La Pergola è un uomo straordinario! Un Amico!" A questo Amico egli dava i suoi manoscritti prima di pubblicarli; e l'altro vi portava uno sguardo diradato, al lume della candelina collocata fra le mele e le pere, e ne leggeva pesantemente qualche sillaba. Poi riconsegnava il manoscritto a Carrubba, con un sorriso impacciato. "Diavolo di un uomo," mormorava Carrubba. "Ha capito tutto, lui!" Ma anche se non avesse capito nulla, La Pergola era lo stesso una persona straordinaria! Gli uomini non sono bottiglie trasparenti, col liquido dell'intelligenza riconoscibile dal color rosso, e quello del cuore riconoscibile dal color verde. Sono esseri! Sono spiriti! Misteri! Nessuno può dire: "Quegli è un asino! Quell'altro è un uomo onorato!" Dio solo può concedere a uno di noi, per una grazia speciale, di leggere chiaramente in un altro. Così si spiegano talune amicizie che, a prima giunta, sembrerebbero assurde. Ora Dio aveva concesso a Carrubba di leggere esattamente nel segreto libro di La Pergola. E chi c'era, in quel libro? Un uomo di genio, un uomo straordinario! Spiegare il perché La Pergola fosse un uomo straordinario, non riusciva possibile. Ma se nel piatto di una bilancia si poneva mezza Europa, e nell'altro piatto La Pergola, la bilancia calava da questo lato. Il tempo si sarebbe incaricato di spiegare tutto questo.

"Se tu metti La Pergola nel Comitato, il Signore metterà nella bara la tua reputazione!" gridò la moglie, perdendo, nei gesti troppo violenti, gli anelli di celluloide, e raccattandoli con un piccolo lamento.

"Cara," disse Ottavio Carrubba, "ho capito che, questa sera, noi non siamo in grado di fare una conversazione! Vado dal mio amico Cannata. Mi consiglio con lui."

E s'incamminò verso la scala. Nell'ultima camera, vide la figlia Greta che sorrideva, cedendo lentamente la mano davanti a sé, come se un'ombra gliel'avesse presa tra le sue. "Sorride agli angeli!" pensò Carrubba; e scesa la scala, e gettato un ultimo sguardo allo studio, aprì la porticina e uscì. In istrada non volle guardare nel negozio di La Pergola, per timore di vederne il proprietario: si sentiva scritte sulla faccia tutte le parole offensive che la moglie aveva pronunciato nei riguardi di quell'uomo straordinario.

In casa di Cannata, trovò Edoardo Lorena che gridava contro i filosofi moderni. Sotto le grida di Lorena, come uno che rimanga asciutto e riparato sotto la curva altissima di un getto d'acqua, Cannata parlava a bassa voce in difesa di quegli stessi filosofi. E d'un tratto i due, ignorando di aver detto cose opposte, si strinsero la mano. Lorena era sudato, anche perché aggiungeva alle parole i gesti con cui un cavaliere spagnolo, mentre canta una serenata alla sua donna, manda in aria, e ravvolge, e manda di nuovo in aria il proprio mantello.

"Lo zio Ottavio!" gridò egli, vedendo entrare Carrubba. "Siedi, zio Ottavio! Bello, zio Ottavio!"

E abbracciò il pover'uomo con tanta forza che ne cavò un lamento di cui rimasero tutti meravigliati, compreso il possessore del corpo che aveva cigolato in sì strano modo.

"Lo rovini!" disse Cannata.

"Hai ragione!" fece Lorena. "Hai ragione! Ma vi lascio subito! Non vi tormento più! Devo scappare! Stamane ho letto un romanzo francese. Niente di grande! Vi si specchia però una vita serena e comoda, e il lettore sprofonda in quello stile come fra cuscini di velluto. Vedi, zio Carrubba? Il primo dono, il più terribile, che la ricchezza fa agli uomini, è la bontà. E l'altro, è la libertà. Perché i buoni sono tolleranti. E la tolleranza si tramuta in libertà! Han fatto dire a Gesù Cristo che è più facile l'ingresso di un cammello nella cruna di un ago che quello di un ricco nel paradiso... Errore! Errore! Errore!"

Contemporaneamente, e nel sottostante piano di un tono più basso, Cannata faceva questo discorso: "Dio dice all'uomo, scacciandolo dall'Eden: Guadagnati il pane col sudore della tua fronte! Con ciò, egli afferma l'importanza dell'attività economica nella storia umana. Bisogna meditare questo punto! Nella mancanza del cibo e dei mezzi, nella povertà dunque, tu riconosci tutti i caratteri della maledizione. Ma nella ricerca faticosa del cibo e dei mezzi, riconosci i caratteri della espiazione! Osserva bene adesso l'uomo ricco! Ha egli forse espiato? No, egli ha evitato con leggerezza l'espiazione, eludendola con modi puerili che egli chiama commercio, industria e, soprattutto, fortuna. Dunque il ricco porta sulla fronte, non lavata, la maledizione di Dio... Col sudore della tua fronte! Egli non ha sudato e, cosa mostruosa, risparmia questo benedetto sudore a tutti i suoi discendenti!"

Nel momento preciso in cui Cannata, con la sua voce bassa, sboccava in questa conclusione, Lorena, con la sua voce alta, sboccava in quest'altra:

". L'uomo ricco riesce facilmente a essere buono, e Dio non guarda, infine, che alla bontà (né io saprei dargli torto) Il ricco, dunque, s'è comprato perfino la simpatia di Dio!"

Ma come al solito, non avendo l'uno ascoltato l'altro, e vedendo ciascuno nell'altro il suo medesimo sorriso, stimarono di aver detto la stessa cosa, e si abbracciarono.

"Scappo!" fece poi Lorena. "Scappo! State comodi!"

E fuggì nel corridoio, donde, con un misto rumore di sedie, e saluti alla signora, e baci ai bambini, e suono di battenti, annunciò ch'era uscito.

"Mio caro Cannata," disse Ottavio Carrubba, "sono negli impicci!"

"Per il ballo?" fece l'altro, e rimase a pensare. Poi continuò: "Socrate danzava. In fondo, cos'è il ballo? Il mondo è armonia, kosmos. Le anime, per entrare nell'ordine universale, devono rendersi più armoniose che possibile, e i corpi devono rispecchiare le anime. Ma bisogna ammettere che i corpi si muovono spesso in un modo che vorrei dire stonato, in una parola, con disordine. La musica da ballo li rimette dentro l'armonia. E la gioia, che prova il ballerino, è una gioia trascendente, che ha del divino!"

"No," disse Ottavio Carrubba, "non è la natura del ballo che mi preoccupa, ma il modo di organizzarne uno che riesca divertente. Vorrei da te consigli pratici."

"Approvo il tuo desiderio, comprendo la tua esigenza. Tu sei in un momento pratico. E anche questo è un momento rispettabile della vita. Io mi diverto spesso a essere un uomo pratico."

"Ecco, mio caro: divertiamoci a essere uomini pratici."

"Sono bravissimo in questo campo. Se tu lo vuoi, diventeremo due perfetti organizzatori di ballo."

"Bene. Dammi un qualche consiglio!"

Cannata si mise a pensare con la testa rovesciata indietro, ma poi sorrise come chi, avendo promesso di non cadere nel solito tic, subito ci cade. Infatti non era al pensiero, o almeno al pensiero profondo che richiedeva in lui quella positura della testa, ch'egli domandava suggerimenti.

"Guarda un po’," disse, piegando la fronte in avanti, "se non sia possibile radunare nella sala del Comune tutti i quadri insigni della nostra città!"

"Ma così il ballo diventa una Mostra?"

"Io non ti dico di appendere i quadri alla parete!"

"Allora?"

"Di allinearli da un capo all'altro della sala come paraventi dietro i quali possano sfilare le coppie. Tu sai che alle coppie giovani piace di nascondersi per un momento agli occhi del pubblico."

"Non credo che sia possibile."

"Perché?"

"Dove troverò tanti quadri da combinare un corridoio? E poi come farò a tenerli ritti?"

"Ma li leghi al tetto!"

"Vedremo... Dammi intanto un altro suggerimento!"

"Ubbriaca i vecchi!"

"Che vuoi dire?"

"Fa circolare per la sala dei bicchieri d'acqua, e mesci in quelli, che saran destinati ai vecchi, un potentissimo liquore che, bevuto, faccia subito delirare!"

"E cosa ne caveremo?"

"Uno spettacolo! Vecchi ubbriachi in mezzo a giovani in sensi, vecchi dissennati in mezzo a giovani sennati!"

Anche questo suggerimento non fu né accettato né respinto da Carrubba. Sicché l'amico passò ad altri suggerimenti, e consigliò, di volta in volta, di spargere una polverina nell'ambiente e provocare sternuti, di far apparire l'anima di un morto, di far sentire, da una stanza attigua al salone, un enorme suono di campana (quella della chiesa madre che, di notte tempo, sarebbe collocata al posto del lampadario, nel gabinetto del podestà), infine di far piovere fiori dalle tende.

"No!" fece Carrubba. "Dobbiamo essere ancora più semplici! Non voglio che mi si accusi di stranezza. Il ballo dovrà riuscire divertente coi soliti espedienti che si adottano in queste occasioni."

Il carbone aveva preso il posto della legna, nel caminetto, e l'aria della stanza era diventata fredda. Cannata si stropicciò le mani:

"Allora, un po’ di buona musica e qualche cotillon!"

"Bravo! Buona musica e cotillons! Cosa pensi, se io metto nel Comitato direttivo Giovanni La Pergola?"

"Mi sembra un'eccellente idea!"

I due amici rimasero di accordo che il ballo sarebbe stato un ballo come un altro, che avrebbero deluso qualche signora intellettuale, ma accontentato la gran parte dei giovani, e specialmente dei forestieri. Scartarono la proposta d'intitolare il ballo "Rumba" invece che "Valzer"

"Erano bei tempi, quelli del valzer!" disse Carrubba. "Voglio un po’ riposarmi con quelle vecchie arie. Ho bisogno di una tregua per i miei sentimenti. Da un certo tempo in qua, ho l'impressione che la mia vita non sia stata felice."

Carrubba si licenziò dall'ospite, e scese le scale salutato, per un finestrino ovale, che s'era aperto in quel momento, dalla signora Luisa, che si scusava con lui di non esser venuta a stringergli la mano nella stanza del marito.

"Un ballo coi fiocchi!" aggiungeva la signora. "Mi raccomando! Un ballo semplice e divertente!"

"Sì," fece Carrubba, "molto semplice e molto divertente!"

E uscito dalla casa dell'amico ritornò nella propria.

Nissa era contenta della piega che prendeva il ballo. Gl'impiegati di banca approvavano l'intenzione, attribuita a Carrubba, di non mescere nella festa alcun veleno intellettuale; e le signore intellettuali rimanevano fiduciose che il trattenimento non sarebbe rimasto del tutto mondano, e, per esprimerci con le parole stesse di Edoardo Lorena, "speravano che le mani di un tale organizzatore avrebbero a un certo punto tremato e fatto cadere, nel salone del comune, una goccia di filosofia dal vaso ricolmo della sapienza"

L'unica persona, che non fosse contenta, era Ottavio Carrubba, perché l'inclusione di La Pergola nel comitato direttivo incontrava seri ostacoli.

Egli passava ore e ore nel negozietto dell'Amico, guardando con stupore come la sfiducia potesse rivolgersi contro un viso così espressivo, profondo e cristiano. La strada, in cui davano la porta di Carrubba e quella di La Pergola, si chiamava via delle Calcare ed era illuminata a gas, perché un contratto, stipulato al principio del secolo, fra il comune e la società per la produzione del gas, impediva, ancora in quell'anno, che via delle Calcare avesse, come la piazza vicina e le viuzze del quartiere alto, due tre, quattro fari elettrici, di quelli che permettono, agl'inquilini dei primi piani, di leggere presso il balcone, mentre nel fondo della camera padre e madre dormono con la coperta sugli occhi.

 

Ancora in quell'anno, che aveva portato la radio in casa di Carrubba e nel "Salone del Passante", via delle Calcare, al crepuscolo, vedeva illuminarsi di colpo a una sua imboccatura la piazza principale e, a un'altra, via della Regina, mentre essa, piena di pipistrelli, doveva aspettare la luce (se pure di luce si dovesse parlare, e non piuttosto di barlume) da un misero uomo con la scala a pioli e la lanterna, un vero arnese d'altri tempi che s'arrampicava sino ai lampioni, tirandone giù alcuni tremuli raggi di luce, che i bambini chiamavano la barba dei fanali.

Tre barbe in tutta la lunghezza della strada, e tre circoli bianchi sul selciato fuori sesto. Le scalinate che, da man destra, portavano in alto il viandante e, da mano sinistra, lo portavano in basso, erano del tutto buie, e in cima a una di esse si vedeva la città finire tra pareti di montagna, le cui fenditure, a notte, s'illuminavano di luci mobili: segno che una qualche famiglia era andata a portare i suoi cenci in quelle grotte e acceso il fuoco a un mucchio di giornali.

Via delle Calcare, in quegli ultimi giorni di febbraio, dava l'idea che fosse più popolosa. In realtà, erano arrivati nuovi abitanti, e s'erano aperte talune porticine, sempre chiuse per l'innanzi, e sulle quali i ragazzi solevano lasciare col gesso, come sopra una lavagna, il segno dei loro progressi nel disegno, nel sillabario e nella cognizione delle cose del mondo. Erano, per la massima parte, rivendite di verdure, negozietti in cui si vendeva un po’ di tutto. Le porte erano così basse che, quando vi entrava un cliente (caso molto raro), vi rimaneva il segnale per parecchio tempo nel dondolio delle scope appese all'architrave, che evidentemente erano state mosse da una testa che non s'era curvata in tempo a schivarle. Le stanze erano tanto piccole che, la sera, quando i canestri pieni di pere e pomodori, i piatti ricolmi di ulive e formaggi col pepe, i vasetti in cui nuotavano le sardine, i fasci di verdura e i canicci delle castagne dovevano rientrare, i bambini uscivano di casa strillando e minacciando che avrebbero dormito fuori; minaccia che portavano a compimento nelle sere limpide in cui si udiva cantare il grillo come in campagna, ma alla quale rinunciavano nelle sere di pioggia e di vento, acconciandosi a trovar posto sopra un materassino, da cui taluno cadendo metteva il naso nell'aceto, o peggio, nel pepe. Non ostante quella medicina di tutti i fastidi, che è l'abitudine, non eran belli i sogni dei ragazzi, la notte. Più delle sardine e dei formaggi, disturbavano il riposo le mele e le pere che, nell'aria chiusa, pareva si gonfiassero e, occupando interamente lo stanzino, schiacciassero i ragazzi. Che paura, le mele! Che paura, le pere e i cocomeri! I ragazzi aprivano stentatamente un occhio e vedevano che la madre, dalla volta scalcinata, presso la quale un palchetto, che faceva da ponte alle verdure e ai formaggi, la sorreggeva supina durante la notte, dondolava la lanterna, illuminando con un raggio rosso ora l'alto ora il basso dello stanzino, finché un grosso topo, colpito da quel raggio, non si fermava ansimando e come trattenuto, e col suo nero spaventoso ricacciava in fuga dentro il sonno i ragazzi. Nelle notti di vento, la porta cigolava, e i soffi, entrando dall'alto e dal basso, facevano ballare gli odori in un modo così strambo, quello del salame con quello delle pere, quello del formaggio con quello dei cocomeri, che i bambini si mettevano a scalciare da tutte le parti, rovesciando i piatti e le gerle. Allora due braccia scendevano dalla volta a prendere il più smanioso di quei marmocchi e a sollevarlo sul palchetto, ove la madre si faceva piccola per lasciarlo dormire in pace. Le immagini sacre, specialmente quella di Gesù che si apriva il petto e mostrava il cuore, affollavano gli stanzini e, illuminate ciascuna da una piccola fiamma, costellavano il buio dei loro gesti paterni.

Nel negozietto di La Pergola, c'era un Sant'Antonio di gesso che, secondo la moglie del proprietario, somigliava esattamente al marito. Ma Carrubba negava questa somiglianza: il viso di Giovanni La Pergola era il ben noto viso del Cristo o, per meglio dire, uno di quei visi umani, in cui si riverbera, da secolo a secolo, l'immagine di Cristo. Rosa si segnava due o tre volte, e la notte guardava dormire il marito, perché le dava sgomento il pensiero che sul suo stesso cuscino riposasse, sia pure in brutta copia, la faccia di Nostro Signore. L'unico figlio rimasto in casa, Ciccino, russava piano piano sotto il palchetto, e ogni tanto, con la punta del ginocchio, faceva rotolare una pera (segno che stava sognando di perdere al giuoco, perché a dieci anni quel ragazzo aveva già tutti i vizi, e camminava con un sudicio mazzo di carte entro il berretto); l'abito nero, smesso dal marito, pendeva da una cordicella, come un impiccato; e le tre piccole teste, di Sant'Antonio, di Cristo e di Maria, l'una di gesso, l'altra in carta e la terza di stoffa, sporgevano dalla tenebra, alla fioca luce di tre fiammelle. No, il marito non somigliava a Gesù, ma a Sant'Antonio. Dove aveva gli occhi il professor Carrubba? E poi il Cristo ha la barbetta! Il marito invece era tutto rasato... Il passo di un cavallo, sui selci della via, annunciava l'alba. La donna tornava a dormire.

Di giorno, con quelle pere e mele e sardine, che aspettavano fuori dell'uscio un compratore, e con quei passi che, avvicinandosi, davano speranza, e, allontanandosi, stringevano il cuore, Rosa non aveva tempo di badare alle somiglianze. In quell'attesa continuamente delusa, che ella chiamava lavoro, poneva tutta se stessa.

Ma in quei giorni di febbraio, il lavoro era spesso interrotto dalla visita di Ottavio Carrubba. Egli sedeva entro lo stanzino, nel posto in cui la notte stavano le sardine, e guardava Giovanni La Pergola, scuotendo la testa. "Tutto comprendono, queste degne persone di Nissa," diceva all'Amico, "tranne chi sei tu!"

"Ma chi è lui?" faceva la moglie. "Un pover'uomo che deve guadagnarsi il pane!"

"Signora cara, tutti siamo poveri uomini che dobbiamo guadagnarci il pane! Ma questo che vuol dire? Lui è lui!"

La Pergola sorrideva, e mutava il mucchio dei fichi secchi dalla forma di un castello a quella di una piramide, sulla quale metteva quattro noci. Poi faceva un passettino indietro, per vedere le proporzioni della sua opera, e, diventato perplesso, aggiungeva un quadrato di mele alla base della piramide; infine copriva le noci con un cartoncino di forma rettangolare.

"Figlio di Dio!" esclamava, a questo punto, Carrubba: "Tu non capisci cosa hai fatto!"

"Che ha fatto?" domandava la donna, fra spaventata e infastidita.

"Gli è sfuggito dalle mani un segno zodiacale!"

"Che segno?"

"La figurazione d'uno spirito iniziato! Egli è in grado di vedere l'al di là! Corpo del diavolo!" gridava poi, usando termini che non gli erano familiari. "Corpo del diavolo! S'impedisce a un uomo simile di far parte di un comitato! Ma io m'inchino davanti a te, o La Pergola! Metti questo nella memoria più profonda: che io m'inchino! Fa che questa immagine di un vecchio, di nome Ottavio Carrubba, col cappello in mano davanti a te, possa seguirti per millenni, fino al trono di Dio!" E davvero si toglieva il cappello, e si piegava nei più profondi inchini che un uomo alto potesse fare tra quelle ceste e bilance.

Ogni tanto, la rivendita era onorata da una visita di Edoardo Lorena. L'angustia dello stanzino e la pericolante architettura delle frutta non impedivano al visitatore di mandar le mani più lontano che fosse possibile dalle spalle. Egli gridava, alzandosi sulla punta dei piedi, ch'era uno sconcio quello di vietare a un uomo come La Pergola, di cui zio Carrubba, buon intenditore, aveva così alta stima, l'ingresso nel comitato direttivo. Le classi ricche erano la peste del mondo! Il capitale era una fogna! L'Inghilterra, l'America, la Germania! Marx! La macchina! O ignobile nobiltà di Nissa! O gente spregevole!

Carrubba sospirava: "Fido in Maria Carnevale!"

"Zio Carrubba, meriti un bacio!" diceva Lorena, cambiando tono e facendo alle parole subito seguire l'atto. "Hai pronunciato un nome molto, molto rispettabile! La signora Carnevale è uno spirito finissimo!"

"Io spero anche in Elena Caruso."

"Ma Elena Caruso è una donna che ha un cervello grosso così! Io mi permetto di scommettere che quello di Elena Caruso è il più gran cervello di Sicilia!"

Così seguitavano a parlare, imbattendosi ogni tanto in un nome di donna:

"E Valentina Morello..."

"Ragazza straordinaria! Il sangue non mente! Chi ha conosciuto la madre e il padre, la madre specialmente, nobildonna senza pari, e anche il padre, gentiluomo di stampo antico, non si meraviglia delle grandi virtù della figlia!"

"E Giovanna Roccaraso..."

"Degnissima persona!"

"Anna Rosalia..."

"Io mi alzo in piedi, se tu la nomini..."

"Ma colei che veramente può far tutto è Lisa Martoglio!"

"Quale energia! Lisa Martoglio! Hai detto il nome e cognome dell'energia femminile! Voi non potete immaginare con quali scariche, con quali torrenti, con quali fiumi di energia, ella tenga in piedi tutta la sua casa! Una donna che potrebbe reggere un impero!"

"Compra la frutta da noi," mormorava la moglie di La Pergola. "A proposito, tu, bello spicchio d'arancio, gliel'hai portato il conto?"

Giovanni La Pergola, che si strofinava le palme delle mani al muro per nettarle, volse la testa, e indicò un foglio verde posato sul fondo di una cesta rovesciata: "E' lì!"

"Ancora lì?" fece la moglie. "Signori miei, ancora lì! Ma a che pensi, tutto il giorno, come un mammaluco? Dicono che sei genio! Per me invece è peccato l'acqua che ti bevi!"

Giovanni La Pergola s'avvicinò alla bilancia, e con un'ira, che si perdeva nella sua faccia appassita, come acqua in terreno arido, sollevò due pesi: "Che faccio, amici, che faccio?"

"No!" gridò Edoardo Lorena. "Non è degno di voi, La Pergola. E' una donna! Perdonatela."

"Lascialo fare!" disse adagio adagio Carrubba. "Lascialo fare! E' così interessante, figlio di un cane!" E lo guardava con tale ammirato stupore che Giovanni La Pergola si lasciò scivolare, dalle dita allentate, i pesi di ferro.

"Se Lisa Martoglio mi aiuta," seguitò Carrubba, "se si convince, lei almeno, che quest'uomo è degno di far parte, non solo di un comitato organizzatore di balli, ma di un senato, io spero di vincere la partita e risparmiare a Nissa il disonore di non aver capito una persona che andava capita!"

"Vedrai che Lisa Martoglio non farà torto alla sua squisita intelligenza!" rispose, levandosi per andar via, Edoardo Lorena.

Con questa speranza, si licenziarono l'uno dall'altro.

 

Lisa Martoglio non deluse le speranze di Carrubba. Un bigliettino, portato da un autista che, nel modo di vestire e di guardarsi intorno prima di parlare, aveva tutta l'aria di un evaso, annunciò a Carrubba che, l'indomani, domenica, alle ore diciannove, Lisa Martoglio gli avrebbe fatto una visita. Sulla busta era scritto: "molto riservato" e, a matita, sul rovescio del cartoncino, con un carattere minutissimo: "Verrò sola."

Il professor Carrubba passò male la sera del sabato. Poco valsero certi suoni di pianoforte che la moglie rintracciò nella radio, e lasciò vibrare sino a notte, con la pretesa che mettessero in cuore molta pace. Carrubba, fra quei suoni che gli colpivano le ginocchia al pari di martelli, errò per la casa continuamente. Dieci volte scese la scala e si rifugiò nello studio, ove, non avendo la pazienza di leggere, si dedicò a liberare da un ingombro di libri, che intieramente lo nascondeva, un vecchio letto di ferro. Questo letto era situato all'altezza di uno specchio che, essendo inchiodato alla parete, avrebbe finito di riflettere le scene, che il destino metteva sul letto, solo nel caso che fosse stato coperto o spezzato. Carrubba ebbe l'idea di rimuovere il letto; ma la stanza non permetteva, senza cadere nel disordine, lo spostamento di una tale suppellettile.

"Come si fa?" mormorò Carrubba. E rimase per un quarto d'ora, pieno di quella domanda, finché non si domandò, questa volta con apprensione, come mai si occupasse del letto e dello specchio. E la risposta fu che non c'era ragione al mondo perché egli dovesse curarsi dell'uno e dell'altro mobile. Che brutta piega prendeva il suo pensiero! Continuando di questo passo, un giorno avrebbe potuto sorprendersi intento a occuparsi, da cinque ore, del modo di piantare un chiodo sulla cima dell'Imalaia. Questi eran segni premonitori di pazzia.

Risalì la scala mogio mogio, con le scarpe in mano. Ma al primo piano, gettò un grido di paura; quando s'era tolte le scarpe, e come mai saliva a piedi nudi?

Il pianoforte di Tolosa, come un motorino musicale, prometteva a tutta la casa di farla, da un momento all'altro, salpare. E in realtà, poco dopo, una singolare sofferenza, pari a quella che danno il beccheggio e il rullìo, tolse sino all'ultima goccia di sangue dal viso di Carrubba. Quasi barcollando, egli entrò nella camera della figlia. Sul tavolo trovò un album che aveva per titolo la testata di un giornale illustrato: "Qual è l'uomo che preferite?" Dentro l'album, vide centinaia di teste maschili, con baffetti a triangolo, a punta, a macchia, in su, in giù, diritti, sfumati, e tutte più o meno aperte, come frutti maturi, sul bianco dei denti, e spiegate, assai confusamente, da parole e nomi stranieri. Una foglia appassita e calpestata che, dai pie d'un albero, guardi le foglie verdi della cima, può dare un'idea del viso di Carrubba nel momento in cui guardava i visi di quegli americani. "Senza dubbio, non sono un bell'uomo!" si disse. Ma anche questo pensiero, di cui d'un tratto s'accorse, gli diede serie preoccupazioni nei riguardi di se stesso. Per quale ragione si curava della bellezza fisica? Nemmeno questa volta c'era una ragione. Decise di addormentarsi. Ma entrò nel letto in sì strano modo che la moglie, la quale fingeva di dormire, scoppiò a ridere.

"Si può spegnere quella maledetta radio?" disse Carrubba.

"Ma sì! Greta, spegni la radio!"

Non appena si fece silenzio, Carrubba cadde a capofitto nel sonno, con l'aspetto pietoso di chi, da un balcone, sprofonda nella strada insieme alla ringhiera sulla quale s'appoggiava. Nel sonno, si rivide in tutte le occasioni dell'infanzia in cui era rimasto nudo sotto gli occhi di estranei. Vedeva anche un pigiamino, appeso così in alto sulla parete, che non si riusciva a metterlo giù nemmeno con la pertica. Egli piangeva, e chiedeva il pigiama, strappandosi i capelli brizzolati, perché, nella scena del pianto, non era più un bambino, ma l'uomo maturo della veglia.

Si svegliò in un altro mondo, in una Nissa, in una casa, di cui la Nissa e la casa della sera avanti non erano che le copie mal riuscite. Si alzò e vestì adagio adagio. Sentiva di avere negli occhi uno sguardo sereno, entro cui le cose prendevano quell'ordine che le stelle prendono in una zona di cielo: ferme in apparenza, e, in realtà, mosse da un tale divino congegno che un filosofo poté, una notte, immaginare di sentirne la musica. Vero è che gli oggetti, a cui lo sguardo di Carrubba conferiva questo moto e geometria celesti, erano molto umili, e andavano da una sveglia con una sola spera a un paladino di legno tarlato, da un'arancia indurita dal tempo a un asciugamano, in cui erano rimasti impressi, come in un sudario di famiglia, cento volte le labbra rosse di Greta e dieci i capelli nero-seppia della moglie; ma "l'umiltà della materia non degrada l'altezza della forma"

Ottavio Carrubba andò al balcone.

Su via delle Calcare scendeva, da tre parti, il sole. Le verdure di La Pergola, colpite dalla luce, luccicavano lietamente; i cesti e le panche degli altri negozietti, allineati in un'ombra azzurrina, splendevano col decoro di oggetti rari in una mostra a vetri; un ragazzo, seduto sotto un raggio di sole che illuminava solo lui, pareva legato con un filo al cielo d'oriente; vicino allo stipite del balcone, il canarino si difendeva, col becco aperto e le ali alzate a metà, da una vespa che bussava alla gabbia: era un duello ad armi diverse, mandando il canarino, ad ogni scatto d'ira e di paura, un lampo d'oro, e la vespa una nota musicale di estrema delicatezza: sorvegliava il duello, dall'alto, una farfalla bianca, con le ali dipinte di un nobile lutto.

A questo punto, la parte più segreta di Ottavio Carrubba confidò alla meno segreta un nome: Lisa Martoglio! Il corpo del professore rabbrividì e un disordine senza pari ne disturbò gli organi tutti, non essendo alcuno di questi organi abituato a svolgere serenamente la sua missione nel trambusto dei sensi esaltati. Il caffè e latte, ch'era sceso da due minuti in quel magro stomaco, saltò alla gola come un daino impaurito; il cuore batté un punto nel petto così strano, così basso, così a destra che i polsi parvero fermarsi; sulla nuca, i capelli si drizzarono come per piegarsi dall'altra parte; e l'indice della mano destra non poté più tenersi dal battere su tutti gli oggetti che gli capitavano sotto, con un rumore inuguale e misurato, come se qualcuno, di dentro al corpo del professore, comunicasse nell'alfabeto dei suoni: "Qui dentro, aspettiamo una donna e abbiamo paura!"

Per un momento, Ottavio Carrubba pensò di avvertire la signora, che, quella sera, non sarebbe rimasto in casa. Ma la vista di La Pergola, che buttava un secchio d'acqua sulle verdure, lo fermò: dall'incontro con Lisa Martoglio, dipendeva l'inclusione dell'Amico nel comitato direttivo. Ed era poi stabilito che la signora avesse intenzione di dare al colloquio un carattere troppo intimo? Non era lecito supporre ch'ella fidasse nelle sue doti intellettuali per rimanere tranquillamente sola con un uomo? Questo era vero; ma non era men vero che quelle doti intellettuali sarebbero venute con una scarpina dal tacco alto; e braccia bianche, e dita affusolate, e lunghe ciglia, e riccioli non avrebbero lasciato per un momento Ottavio Carrubba solo con quell'intelligenza femminile. E non era men vero ch'egli desiderava quella donna. Qui cento voci scherzose, come le teste d'angioli che, in taluni quadri, piovono ridendo dal cielo, lo assordarono: "Bene, bene, bene! Tu desideri la signora! Tu l'aspetti! e che vorresti farne? Confessaci, via, cosa pensi di fare quando ella entrerà nello studio, richiudendo la porta dietro di sé? La lascerai in piedi? Non le dirai: - Segga, signora, la prego! - Pensi ch'ella siederà con una gamba sull'altra, o con le gambe strette? O pensi ch'ella si abbandonerà ad una confidenza tutta moderna, cavando distrattamente il calcagno dalla scarpa?" E ridevano, adesso non come teste d'angioli, ma come anatre in fuga. Ottavio Carrubba cominciò a ridere anche lui. E il suo piccolo riso ballonzolava sul tremito di tutta la persona, col suono spezzato che manda uno strumento in bocca a uno che vada a cavallo. Non era più felice, come al mattino: ma rideva continuamente. Che briccone, in fondo, egli era!

Con questo caro insulto, ch'egli rivolgeva verso di sé, come uno che, al buio, si diverte a mandare la luce della lanterna sul proprio viso, Carrubba giunse al meriggio.

Dopo il pranzo, disse alla moglie che avrebbe voluto rimaner solo.

"Ma tu stai male!" fece la donna. "Come vuoi che ti lasci?"

"Sto benissimo, e voglio rimaner solo! Andrete al cinema, tu e Greta!"

Scese nello studio, e si sdraiò sulla rete del letto. Da quella positura, s'accorse che, nello specchio, stava sdraiato il più misero uomo che avesse mai veduto. Si alzò e si avvicinò alla propria immagine: in quale strana veste da camera s'era avvolto!

Risalì al primo piano.

"Dunque, non uscite?" gridò alla moglie.

"Usciamo subito. Ma non vorresti un po’ d'acqua bollita con la scorza di limone?"

"Non voglio acqua bollita!" Si pentì: "Fa pure! Lasciami la tazza nello studio! Ma svelta!"

Il rumore del portoncino lo avvertì, poco dopo, che moglie e figlia avevano lasciato la casa. Il profumo dell'acqua, bollita con la scorza di limone, riempiva la stanza di un'aria di degenza. Ottavio bevve l'acqua d'un sorso, bruciandosi la gola, e nascose la tazza in una scansia.

Scendeva la sera. Da via delle Calcare, veniva il pessimo odore delle panche e ceste lavate. Era quello il momento in cui la strada si liberava, la merce non venduta rientrava nelle case, e le donne accendevano i lumini davanti alle immagini sacre.

Già stanco dell'avventura mondana in cui viveva da un giorno, Ottavio Carrubba pensò con nostalgia alla casa di La Pergola, in cui, venuta la sera, i cuori rallentavano i loro battiti, la porta si chiudeva e le poche parole di commento, agli sforzi sostenuti durante il giorno, eran pronunciate la prima chiaramente e l'ultima col balbettio del sonno.

Il campanello della porta dondolò un poco. Ottavio saltò dalla sedia, e si guardò le mani con la vana speranza che fossero meno gialle di come se le sentiva. Ma forse l'orecchio s'era ingannato. Il cuore di Ottavio si calmò nel silenzio. Ma ecco che il campanello torna a dondolare come per una scossa di vento, e un suono impercettibile se ne parte. In quel momento, da via delle Calcare entra la luce di un fanale a gas. Ottavio s'affaccia al davanzale, e vede stesa nella strada, dal lato della porta a quello della finestra, l'ombra smisurata di una signora. Non c'è più dubbio. E' la mano di Lisa Martoglio che muove il campanello. Ottavio accende una piccola lampada nello studio, e va al portoncino stropicciandosi fortemente le dita e le palme perché si sente come disarmato con due mani così fredde.

Lisa Martoglio entra di scatto, e chiude con le spalle il portoncino:

"Professore, non mi aspettava dunque?"

"M'ero un po’ addormentato!"

"E si dorme quando si aspetta una signora?"

"No, non si dorme, in verità... Venga, signora Lisa, la prego, venga nello studio!"

Lisa portava al collo una sciarpa di seta giallo-limone; sull'abito scuro e nella penombra della stanza, le braccia, le mani, il viso e le gambe, così finemente calzate da parer nude, biancheggiavano come le penne di un cigno. Lisa scelse un volume dalla scansia più vicina, lo aprì e cominciò a leggere. Le ultime parole erano di Pindaro: "Chi siamo? Dove andiamo? Donde veniamo? L'uomo è il sogno di un'ombra!"

"Che bello!" fece Lisa Martoglio, aggiustandosi i capelli e riempiendo la stanza di qualcosa che a Carrubba parve un ronzio e un odore singolari, come se ella avesse cacciato dai propri riccioli un gran numero di api profumate: "Lei, professore, non può immaginare quanto mi piace lo studio! E adesso, sentiamo: come mi giudica lei?"

Carrubba diede un incerto giudizio nel quale si confondevano l'ammirazione e il disordine in cui si trovava. La signora ne rimase lusingata.

"Perché non mi legge qualche cosa?" continuò. "So che lei è un lettore insuperabile!"

"Ai suoi ordini!" fece Carrubba e, toltisi gli occhiali e aperto il libro che aveva sul tavolo, sprofondò il viso tra le pagine, e lo rialzò mormorando un primo periodo: era l'Etica di Aristotele.

"Molto bello!" disse Lisa Martoglio. "Non si fermi!"

Mezz'ora passò al suono dei pensieri di Aristotele sul Bene e il Male, e della voce sempre più fioca di Carrubba. D'un tratto Lisa Martoglio, che si baloccava col tasto della lampada, distrattamente premé il bottone, e fece buio. Ottavio Carrubba finì di leggere, e, invece di parole, mandò all'intorno un leggero e continuo stridore di denti. Egli tremava, e s'aspettava da ogni parte la mano fredda della signora. Così passò un tempo che a Carrubba parve della lunghezza di una notte d'inverno. Quando Lisa ripescò il tasto, che l'era sfuggito di mano, e riaccese la luce, Carrubba era diventato un cencio. D'improvviso questo cencio, animato da una decisione che non pareva la sua, si alzò e s'avvicinò a Lisa. Ella lo tenne lontano col braccio disteso, meravigliata che un uomo potesse pesare così poco, e un cuore potesse battere con tanta forza e rapidità. Per un momento, Carrubba le piacque anche fisicamente, e proprio per questa sua mancanza di peso che gli dava un che di piumato e leggero, quasi da uccello. Ma presto si pentì, e respinse lontano il pover'uomo che, barcollando, giunse fino al punto in cui un raggio di luce, non più trattenuto dal paralume, gl'illuminò il viso disfatto.

"Professore," fece Lisa Martoglio, alzandosi con molta calma. "Io ero venuta da lei per parlare di La Pergola. Non per altro, caro!"

Il nome di La Pergola, pronunciato in quel punto e con quel tono, fu come la fine di un sogno, forse bello, ma senza dubbio pauroso.

"Oh sì," disse Carrubba. "Voi sola potete capire!"

"Ma perché ammirate tanto questo rivenditore?"

"Perché egli è un uomo perfetto!"

"Come fate a dire ch'è perfetto?"

Carrubba si accalorò:

"E' uno spirito perfetto. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa pensi, qualunque cosa dica, sebbene l'educazione non lo abbia fornito di grandi mezzi, egli rimane sempre atteggiato a una grazia superiore. Vedere questa grazia non è di tutti. Ma io la vedo. L'innocenza, la gentilezza, la perspicacia, lo spirito di verità sono sempre in opera dentro di lui. E che fabbricano? mi direte voi. Piccoli gesti, monosillabi! Ma son cose perfette! Gioielli, pietre preziose! Ci vuole un buon intenditore per distinguere questi piccoli diamanti umani di La Pergola dai grossi diamanti falsi degli altri. Un no, detto a bassa voce da La Pergola, brilla come un purissimo diamante, e il lungo discorso negativo di un altro, sia pure pieno d'argomenti e citazioni, riluce malamente come un vetro sporco. Un che di simile si potrebbe dire per il sì."

Lisa Martoglio gli porse la mano:

"Caro professore, anche se quello che avete detto, fosse tutto una vostra illusione, avete parlato così bene che Giovanni La Pergola farà parte del comitato. Ve lo prometto."

Ottavio Carrubba baciò la mano della signora:

"Grato, grato sino alla morte!"

"E vostra moglie?"

"Non è in casa."

"E vostra figlia?"

"Anche lei... fuori di casa!"

"Non sapevano dunque della mia visita?"

"No, non credo!" balbettò, inchinandosi, Ottavio Carrubba, mentre il suo pensiero correva al biglietto di Lisa Martoglio, alle parole scritte a matita: verrò sola. "Ma dunque non ho capito nulla?" pensava la sua testa, chinata rispettosamente.

Il rumore del portoncino, aperto e richiuso con un "addio, professore!", gli disse che l'unica avventura mondana della sua vita era terminata.

Oramai le cose erano a buon punto: La Pergola era stato accolto nel comitato direttivo del ballo; il salone municipale mandava sulla piazza, dai balconi spalancati, nuvole di polvere e rumore di tappeti battuti; non esistendo a Nissa un'orchestra vera e propria, l'incarico della musica venne dato ad alcuni fiati della banda municipale. La stessa questione, che soleva alzare le voci in casa Carrubba, se invitare il barone Emanuele Calogero o il barone Calogero Emanuele, o tutti e due, o nessuno dei due, era stata risolta, tragicamente sì, ma risolta. Calogero Emanuele era morto di tifo, e la banda municipale, smesso lo studio dei ballabili, lo aveva accompagnato sino alle porte della città. Dietro la banda, venivano i migliori cittadini, che parlavano a bassa voce del mistero della morte e si chiedevano ove fosse in quel momento l'anima dello scomparso. Una nota estranea alla cerimonia portava il fatto che, dietro la bara di Calogero Emanuele, marciava a capo nudo Emanuele Calogero. Era un piccolo episodio, ma che faceva guizzare strani sorrisi per tutto il corteo sino alla coda: subito spenti, com'è naturale, tuttavia non così subito da sfuggire agli occhi della folla ferma sui marciapiedi. Tutti domandavano a Emanuele Calogero se il morto fosse Calogero Emanuele o l'"altro" (al che l'interrogato metteva la mano nella tasca dei pantaloni, e stringeva una chiave); alcuni se lo domandavano fra loro; e un caposcarico immaginò che, come i vivi domandavano a Emanuele Calogero se dentro la bara stesse Calogero Emanuele, così nel cielo la folla dei morti, indicando il piccolo barone che marciava a capo scoperto in testa al corteo, domandava a Calogero Emanuele se quel vivo fosse Emanuele Calogero; al che, non toccando la chiave, ma sospirando di malinconia e d'invidia, l'interrogato rispondeva di sì.

Il lutto non rallentò i preparativi, anche perché dei due baroni era scomparso il meno buono e gradito. Tornò in tutti la cura del ballo. Gl'impiegati di banca invitarono gli amici di Palermo; sicché fu stabilito che, per il giorno del ballo, le sezioni catanese e palermitana del Banco di Sicilia avrebbero combinato una gita a Nissa. La signora Cannata acquistò un abito bianco entro il quale, una sera, al lume di luna, fece una tale impressione al cavaliere Cucco ch'ella non finì mai di parlare di questa impressione, di questo abito, di questa sera di luna e di questo cavaliere Cucco (di lui un mese dopo non si seppe più nulla, avendolo un arresto immeritato sottratto ai circoli di tennis e ai salotti di Palermo)

Ottavio Carrubba, più lieto che mai, trascorreva giornate intere nella rivendita di La Pergola, parlando di valzer, di mazurca, di verdure e di economia domestica. In quest'ultimo campo, La Pergola aveva ricevuto un fiero colpo, proprio in quei giorni. Il figlio Ciccino, una sera, era rimasto a giocare, alla luce di un'icona, con un brutto tipo di Enna. Avendo perduto i pochi soldi che aveva in tasca, i bottoni della giacca, quelli dei pantaloni, che dovette tenersi per il resto del giuoco stretti sullo stomaco con una mano, i lacci delle scarpe, e le scarpe stesse, si mise a girare col pensiero la propria casa, di cui aveva impressi nella memoria i minimi oggetti; e quando col pensiero s'imbatteva in una sveglia, si giocava la sveglia, e quando in un berretto, si giocava il berretto, e quando in un lume, si giocava il lume. Giunse persino a giocarsi e a perdere la statuetta in gesso di Sant'Antonio. L'indomani, la casa di La Pergola si spogliò completamente, perché Ciccino era un ragazzo onesto e consegnò al vincitore una per una le cose perdute sulla parola. La Pergola voleva spezzare il figlio con una ginocchiata come un legno da buttare nel fuoco; ma poi pensò che anch'egli, in questo modo, si sarebbe giocato e avrebbe perduto l'ultimo ornamento della casa, e gioia della vita. Nondimeno, toltasi la cintura dai pantaloni che, abbandonati a se stessi, scivolavano lentamente, diede tali colpi sulla schiena del ragazzo che le grida fecero volare spaventate le colombe dal tetto. La signora Lisa Martoglio ebbe il pensiero squisito di acquistare, e regalare a La Pergola, su per giù gli stessi oggetti che il figlio gli aveva perduto. Ella arrivò una sera in automobile e rivestì la casa spoglia. Al muro, nel chiodo rimasto libero, venne riappesa la sveglia. Ma non era più l'antica, col suo ticchettio dimesso: il motore rombante della signora pareva aver partorito questa macchinetta elegante che segnava il tempo su numeri strani e illeggibili. La Pergola, la notte, non riusciva a dormire e, rimpiangendo il vecchio orologio, svegliava con tremendi ceffoni il figlio che gli dormiva sotto.

Di giorno, andava al municipio insieme all'amico Carrubba e tastava il pavimento con le scarpe, le cui suole bucate davano a quest'assaggio un carattere molto intimo e preciso. Gli specchi riflettevano la grande stanza e le finestre aperte sui campanili; i mattoni luccicavano. "Ehi, La Pergola!" gli gridava Ottavio Carrubba, dal fondo della sala. "Ci siamo! Che ne pensi?"

"Ma," faceva La Pergola. "Si scivola bene!"

E sorrideva nell'aria festosa che veniva, per le finestre aperte, dai monti vicini: era grato al professore di poter trascorrere molte ore entro un edificio così pulito e spazioso: il sangue, in quel salone, gli diventava puro e saliva al viso col sano colore che si acquista nelle villeggiature. Perché era tanto gentile, il professor Carrubba? Iddio gli preparasse una buona sedia in paradiso: non era mai nato un cristiano più degno di quell'uomo! Un giorno, in una strada deserta, un brigante avrebbe cercato di pugnalare alle spalle il professor Carrubba; egli, Giovanni La Pergola, avrebbe afferrato quel brigante per la nuca e la schiena e, sollevandolo da terra, lo avrebbe buttato in un fosso! Nel vedere con la fantasia questa scena, piangeva di tenerezza.

Era diventato anche nottambulo, perché l'abitudine di passare qualche ora in quel salone gentilizio, gli aveva resa insopportabile quella di passare la notte nel proprio sgabuzzino. Non era raro che il professor Carrubba lasciasse anche lui la casa e s'avviasse lento lento verso la piazza. Andavano insieme, scambiandosi poche parole.

In quelle notti di febbraio, c'era la luna. Nissa, deposta irregolarmente su un gruppo di colli, riceveva e rimandava la luce in un modo tutto suo. Ecco il grande quadrato bianco della piazza deserta, con le due chiese dirimpetto, l'una bianca, l'altra scura; e via via che i due si dilungavano dalla piazza e andavano verso nordest, ove le case erano sempre più rade, e la strada correva da una parte sotto un monte ripido e a ridosso, dall'altra lungo una balaustra da cui si dominava un vasto spazio di monti e vallate, ecco i quartieri sghembi di Nissa, ecco le scalinate mezze bianche e mezze nere, e le case ammassate come i fiocchi di spuma sulla cresta di un'onda, presentando chi uno spigolo, chi la facciata posteriore con un balcone trasformato in gabbia per le galline, chi la facciata principale con due soli balconi, lontani l'uno dall'altro, chi un fanale spento, chi una parata di camicie e mutande d'argento; ecco, fra scala e scala, un ripiano aperto alla luna con un cane fermo nel mezzo, e un altro, più su, anch'esso bianco di luna, attraversato lentamente dalla figura nera di un passante.

S'avvicinava la mezzanotte. Le strade erano deserte, ma la vita faceva ancora un po’ di rumore dentro le case. La città si occupava, con segni evidenti, del prossimo ballo: a nord un clarinetto provava un valzer di Strauss, e a ovest una tromba mandava i pochi suoni che le appartenevano in quello stesso valzer; e non era difficile che, passando vicino a una porta chiusa, si sentissero fischiettare quelle medesime note che il clarino e la tromba mandavano alte nello spazio luminoso. Belle erano le finestre con le tendine a colori, o i balconi di stanze tappezzate di rosso, quando una lampada elettrica li faceva soavemente splendere nel fulgore della luna.

La Pergola vi portava subito gli occhi, e diceva:

"Professore, può essere che le cose cambino?"

"Come cambino?"

"Che il re d'Inghilterra venga a dormire a casa mia, e io a casa sua?"

"Ma tu non hai bisogno di dormire nella reggia di Londra, caro La Pergola!"

"Professore, perché lei è così buono con me?"

"Io faccio il mio dovere!"

"Dice che dovrò ballare anch'io?"

"E perché no?"

"I forestieri si faranno fidanzati con le nostre signorine."

"Sì, dopo il ballo avremo molti matrimoni."

Questo di sposarsi con signorine del luogo era accaduto a parecchi giudici e segretari di prefettura, ch'eran venuti a Nissa col solo conforto di una lettera che, nei gravi momenti di tristezza, traevano di tasca e leggevano a voce alta, dal numero del protocollo ai saluti cordiali, calcando la voce sul punto in cui il foglio prometteva il trasferimento "per una data sperabilmente non lontana" Essi s'erano nutriti di quella lettera e ora, invece, dormivano insieme alla sposa, in un letto nel quale speravano di morire, con una stufa a ruote vicino al capezzale, in una di quelle case dai rari balconi sul vasto muro a secco, mentre la loro camicia ondeggiava sulla ringhiera, al vento di febbraio e al lume di luna. Gli scapoli risiedevano nei due alberghi principali della città, uno dei quali, confortevole e sereno come una villa, s'affacciava, con una grande terrazza, sopra un giardino e una scalinata. Nelle camere del secondo e del terzo piano, prima di spegnere la lampada, essi guardavano la loro invecchiata vita di celibi nel bianco lavabo che avevano davanti, nel bidè coperto da un panno rosa e nella zanzara, che, aspettando il buio, si posava sulla tazzina del comò. Alcuni di questi giovani erano innamorati, e lasciavano il letto per scrivere in pantofole la loro brava lettera d'amore, ignorando quello che Carrubba sapeva e vedeva nella chiara notte: che alla finestra accesa di ciascuno di loro, corrispondeva la finestra accesa di una ragazza, anch'essa occupata a scrivere. Oh, perché, avrebbe detto un poeta al tempo antico, queste lettere non possono correre sui raggi di luna? Come colombe, si partirebbero da un davanzale all'altro e, dopo aver tubato un pochino nell'aria alta, passerebbero l'una al posto dell'altra...

"Quanti giorni ci vogliono ancora per questo ballo?" disse La Pergola.

"Ci siamo, mio caro! Non mancano che due giorni. Vedrai che serata divertente! Semplicità e spasso! Dobbiamo dare una bella lezione alle male lingue!"

"Quali male lingue?"

"Ah, tu non sai, mio carissimo Giovanni! Si dice che noi siciliani della parte occidentale siamo arabi, cavillosi, filosofi, che tutto complichiamo, che non ci riesce possibile esser semplici, che vogliamo in ogni caso apparire profondi, che non sappiamo divertirci come tutti i mortali. E invece domenica, vedranno una festa da ballo, una graziosa, una divertente, una semplicissima festa da ballo!"

Questo, Giovanni La Pergola non lo capì, e da quel momento, per paura di non capire, non disse più nulla. Sicché l'uno e l'altro credettero opportuno rincasare. Prima di chiudere la porta, Ottavio Carrubba ripeté a Giovanni La Pergola, che stava per chiudere la sua:

"Una graziosa, una divertente, una semplicissima festa da ballo!"

"Sissignore!" fece La Pergola.

L'indomani, qualche minuto dopo il tramonto del sole, Ottavio Carrubba attraversava un piccolo crocevia, il cui unico segno di vita svolazzava in una gabbia, senza dubbio dimenticata fuori del balcone chiuso: un cardellino a cui il vento freddo sembrava avesse tolto per sempre la facoltà di cantare. D'improvviso, ode una voce di donna, sproporzionata fra il timbro sottile e l'enorme volume:

"Fratelli, tenetemi le palpebre sollevate, tenetemi nella vita ancora per un minuto, affinché io possa ancora per un minuto chiedere perdono a Dio! Considerate ora queste parole! Considerate quest'uomo supino, col pallore dell'agonia sul viso!"

La voce rimbombava fra le porte e le finestre chiuse, e bussava al vetro scuro di una finestra, dietro la quale un che di più scuro e di pallido faceva pensare a una donna. Ottavio Carrubba si mise a guardare da ogni parte: non c'era nessuno.

"Considerate, fratelli," continuò la voce, "che tutti noi avremo bisogno di quel minuto, tutti noi chiederemo ai nostri cari di tenerci sollevate le palpebre già gravate dalla morte, tutti noi!"

Dalle tegole dei tetti, due vasi di terracotta alzavano nel turchino del cielo alcune pianticine fra le cui foglie spuntarono le prime stelle. Da una gronda, una colomba sporgeva il petto su cui s'era seduta a dormire. Quello che traspariva dal vetro scuro della finestra, non pareva più una donna, ma una tendina.

"Amici!" tuonò ancora la voce. "Amici e fratelli!..." e subito un foglio accartocciato di giornale, senza dubbio spinto dal vento, ma per il momento in cui si mosse, quasi spinto e cacciato dalla voce, si mise a rotolare dal mezzo della strada verso uno degl'imbocchi.

"Fratelli, pensate, pensate, pensate!"

E mentre la voce continuava, e il giornale fuggiva e svoltava una cantonata, Ottavio Carrubba, assai preoccupato, lasciò il crocevia e si diresse verso la piazza principale.

Quivi una folla, per la gran parte d'uomini ravvolti entro mantelli turchini, col cappuccio abbassato sopra l'uno e l'altro occhio, stava intorno a un palco rizzato davanti a una chiesa, la cui porta spalancata e buia pareva aver partorito il palco, la folla, la piazza tutta. Il palco reggeva una piccola donna che, in piedi, gridava dentro un apparecchio. Ma la sua voce non era con lei: la sua voce era nei punti più lontani della piazza, entro altoparlanti dalla forma di gabbie.

Ottavio Carrubba chiese informazioni: e seppe ch'erano arrivate le paoline, predicatrici laiche alle quali era permessa la predica in piazza e nei ritrovi. Carrubba storse le labbra.

Nissa, piena di altoparlanti, risuonava di racconti di agonie e di esortazioni. Quei racconti non erano malfatti; anzi erano pieni di grazia e di evidenza poetica, ma il sistema degli altoparlanti li offriva, oltre che al pubblico della piazza, ad ascoltatori troppo singolari. Qui la voce della paolina cadeva sopra una ragazza che, imbacuccata entro una giacca d'uomo, faceva la guardia a una panchetta piena di fichidindia, con un grosso coltello che sarebbe servito a sbucciarli, nel caso che per la via fosse passato qualcuno, e costui avesse chiesto di quei frutti; lì, quella stessa voce risuonava sopra un asinello che, legato alla parte posteriore di un carro rovesciato all'indietro, socchiudeva gli occhi e si preparava a dormire; più in là, era dentro una piccola farmacia, con la lampada elettrica fulminata e una candelina accesa sulla cassetta della bilancia, che la voce rimbombava, accrescendo la confusione di una vecchia che aveva perduto due soldi e non sapeva rintracciarli nel buio; ancora più in là, due ragazzi, costruendo, con le mani rosse di freddo, un castello di fango, alzavano ogni tanto il capo verso quelle parole, di cui non si può dire che tenessero gran conto: "Si muore, fratelli, si muore!"

Questo avveniva al mattino e a prima sera. Sul tardi, le paoline lasciavano gli scanni della piazza e predicavano nei caffè, nei ristoranti e negli alberghi. Nello stesso tempo, i paolini tenevano conferenze nei circoli, con argomenti assai più sottili e filosofici che non quelli usati per la piazza.

La sera del sabato, vigilia della festa da ballo, Ottavio Carrubba e Giovanni La Pergola trovarono il salone del municipio sfarzosamente illuminato, e una gran folla, pigiata fin dentro il corridoio, intenta ad ascoltare una conferenza sulla castità:

"Badate bene," ripeteva un giovane vestito di grigio, agitando le dita lunghissime la cui ombra correva sulla volta bianca, "badate bene, amici! L'inquietudine, che dà l'astinenza, non è segno di debolezza, ma, al contrario, di energia incontenibile. Sì, è vero: dopo tre settimane di privazioni, la notte non si riesce a dormire! Ma questo dimostra solo che il corpo ha accumulato tante forze da non aver più bisogno di molto sonno riparatore!"

 

Ottavio Carrubba apprese con dolore che il "Valzer" si sarebbe rimandato, perché il salone del municipio era destinato per sette giorni alle conferenze. Il pubblico s'interessava molto ai paolini; e il cardinale aveva raccomandato al prefetto quei trattenimenti. Ma il pubblico s'interessò maggiormente, quando argomento delle conferenze non fu più l'astinenza, ma l'immortalità dell'anima. Il paolino portò venti prove a favore della sua tesi. Sorsero gentili dispute. L'avvocato Luigi Noretti scambiò con l'oratore cinque o sei battute piene d'intelligenza. Il paolino, terminata la conferenza, dovette discutere con Edoardo Lorena, mentre un crocchio di persone si stringeva intorno, e tutte con argomenti che saltavan dagli occhi, ma che rimanevano taciuti, solo perché le parole erano men rapide delle idee, e le occasioni si perdevano.

"Tutto è materia!" sosteneva Edoardo Lorena. "Lo spirito sta al corpo come la luce alla lampada elettrica."

"Ma la luce," replicava il paolino, fra l'approvazione dei più, "non ha coscienza né di sé né della lampada dalla quale deriva, né afferma, come fa lei: io sono il prodotto della lampada!"

L'avvocato Luigi Noretti sosteneva la immortalità dello spirito universale, ma negava quella degli spiriti individuali. Questi muoiono in sé, pur continuando a vivere nell'universalità dello spirito.

"Avvocato, avvocato, che dice mai?" gridava il paolino. "Domani parlerò del pensiero cattolico e dell'idealismo moderno!"

E l'indomani, il salone del municipio risuonava dei nomi di Kant, di Hegel, di Croce e di Gentile.

"Ah, no! questo no!" mormorò fra sé l'avvocato Noretti. "Questo è troppo puerile!"

Tre ore dopo la conferenza, a notte alta, Carlo Cannata andò a svegliare il paolino che lo ricevette in camicia da notte, ravvolto in uno scialle.

"Mi perdoni," disse Cannata. "Ma io credo che nessuna cosa sia tanto urgente come chiarire un argomento. Sono andato, l'inverno scorso, a Parigi per scambiare non più di cento parole con un letterato francese sulla natura dell'Arte. Ho fatto un viaggio così lungo per offrire a un amico in pasto me stesso, ed io nutrirmi di lui. E che cos'è conversare fra due amici, se non sfamarsi l'uno dell'altro?"

Il paolino sbadigliava, e, alzando nervosamente le ciglia, guardava l'orologio.

"Sediamoci!" disse Cannata.

Il paolino telefonò al portiere dell'albergo per domandare come mai di notte i termosifoni fossero spenti. Aperti gli scuri della finestra, la notte non mandò altra luce che quella della neve.

"C'è freddo, a Nissa!" mormorò, sedendo, il paolino.

"Sì, c'è freddo!" confermò Cannata; poi cambiando tono: "Lei ha detto, questa sera, che lo spirito universale è inconcepibile in quanto esclude la responsabilità dell'individuo... Dobbiamo chiarire questo punto!"

Il colloquio s'interruppe due ore dopo, e solo per un minuto, a causa dell'ingresso di un cameriere che portava una conchetta sfavillante.

"Bene!" disse il paolino. "Grazie!" e riprese la discussione.

Parlarono di tutto; il problema fu presentato da ogni parte; le teorie di Aristotele, la sintesi a priori, l'io e il non io, il determinismo, l'atto puro, l'intuizione, la medianità, l'immediatezza furono nominati a voce alta e a voce bassa. Cannata non negava Dio né l'immortalità dello spirito individuale. Dieci volte si trovarono d'accordo, e dieci volte scoprirono di essersi ingannati. Spazzate le nuvole e sciolta la neve, il vento riportò una luna, grande e priva di forza, nel cielo dell'alba. Il primo raggio di sole colpì la faccia di Cannata nell'atto di dire sorridendo:

"E adesso me ne vado!"

Il paolino, stanco della veglia, l'indomani non tenne alcuna conferenza, e rimase in albergo. Al crepuscolo, la sua camera si riempì d'intellettuali nisseni. C'era anche Edoardo Lorena. Questi era già in grado di amare il paolino e di abbracciarlo di tanto in tanto, pur ammettendo che la loro concezione del mondo fosse del tutto diversa. Sul tardi, il paolino, rimasto solo, ricevette la visita di Lisa Martoglio. Ella portava intorno al collo un fazzoletto di seta giallo limone: trovò che la stanza era troppo illuminata e, chiedendo graziosamente permesso, spense due lampade e coprì la terza. Sull'abito scuro, e nella penombra, le braccia di lei, le mani, il viso e le gambe, così finemente calzate da parer nude, biancheggiarono come le penne di un cigno.

"Io ho una grande ammirazione per il suo ingegno!" disse Lisa. "Non ha mai scritto un libro?"

In quel momento, fu annunziata la dottoressa Elena Caruso, e guaendo per la strozzatura del collare, il piccolo cane, ch'ella aveva acquistato a Parigi, cercò di entrare per l'uscio socchiuso. "Avanti!" disse il paolino. "Che venga!"

Le due donne rimasero impacciate; poi sorrisero, si baciarono con le labbra fredde e, sedutesi accanto, il braccio dell'una dietro le spalle dell'altra, ascoltarono il paolino che leggiucchiava un suo manoscritto, masticando un po’ di liquerizia che gli rendeva le labbra nere.

Il giovedì, in casa di Lisa Martoglio, si svolse un ricevimento. Poiché il teatro a Nissa, in quei giorni, ospitava una compagnia lirica, insieme ai paolini furono invitati gli artisti. L'avvocato Luigi Noretti chiese a voce alta al paolino come spiegasse il mistero della generazione. Egli, per suo conto, lo spiegava così: la vita non consiste nel sangue, ma in una forza circolare come il moto impresso a una trottola. Questo moto può trasferirsi di trottola in trottola, vuol dire da sangue a sangue. Naturalmente, esso tende a spegnersi nei vari individui, e difatti si spegne con la morte. Ma gl'individui possono unirsi, uomo e donna, e generare. L'unione dei sessi non è altro che un colpo di martello dato di sbieco al moto della trottola, in modo ch'esso riacquisti la prima velocità, e, così rafforzato, si parta verso una nuova trottola. Molti approvarono; il paolino scuoté la testa; Elena Caruso disse:

"Che bello!"

Poi il tenore cantò: Tutto tace, e tutto al cor mi parla!

Il soprano: Casta diva che inargenti queste sacre antiche piante!

Edoardo Lorena, pregato dalle signorine, chiedendo scusa per tanta presunzione, fece sentire anch'egli la sua voce in Fenestra che lucive e chiù non luce!

Carlo Cannata recitò la poesia in prosa di un suo conterraneo, poco noto, ma del quale egli aveva la più alta stima: "Leopardi crea un canto, ed ha gioia. Di che cosa ha gioia? Le parole della sua poesia non si conoscono fra loro e nemmeno ciascuna per sé. Sono intelligibili al poeta, il quale, non della gioia che esse non sentono, ma gode dello slancio della sua fantasia. Un orologio segna le ore, ma non lo sa; lo sa l'orologiaio. Se Dio avesse creato mare, terra, luna... la terra, la luna, le stelle, vibranti ciascuna di una sua misteriosa nota, roterebbero le une intorno alle altre come danzatrici cieche e sorde al canto e alla luce celesti. E la gloria di Dio, grande sarebbe! Ma una delle parole di Dio - o forse tutte? - è di carne: l'uomo. L'uomo è intelligibile ed è intelligente! Ed ecco il problema: Dio gode della sua e anche della mia intelligenza? Ed io, io che sono una parola con un cervello, vorrei, vorrei conoscere, ora il significato di tutto il suo interminabile canto!"

Fu molto applaudito. Maria Carnevale baciò Lisa Martoglio:

"Cara, cara, che pomeriggio ci hai regalato! Per me la vita dovrebbe sempre esser fatta di pensiero e d'arte!"

Furono serviti rinfreschi, bicchierini, dolci, di nuovo rinfreschi e bicchierini. Gli occhi del tenore cominciarono a brillare. Adesso egli cantava non pregato, nel mezzo della conversazione, senza accompagnamento. Spesso si accontentava di mandare un acuto, e ripigliava il discorso. Lisa Martoglio gli confidò ch'era stanca di vivere a Nissa. Il tenore approvò con un gorgheggio, mentre dai due bicchierini, ch'egli teneva in cima alle braccia divaricate, saltavano gocce di vermut. Insomma, tutti risero di cuore, in quella sera straordinaria.

Solo Gaetano Nardelli, chiuso nella camera di un terzo piano, pensava con tristezza al ballo rimandato. Non meno triste di lui era Ottavio Carrubba, che non mise una sola parola in questa rete di conferenze, polemiche e contraddittori. E ancor più triste Giovanni La Pergola che passava l'intera giornata nel suo sgabuzzino, col pessimo odore delle verdure che la totale mancanza di acquirenti aveva fatto marcire. Si sperava che questa smania di parlare e di ascoltare passasse entro una settimana; ma fu vana speranza, perché quel vento di parole spirò per altri sei giorni. Ancora per altri sei giorni, la piazza affollata e le strade deserte appresero come fosse morto un contadino della Bessarabia e come Santa Teresa; e i bambini, con voce allegra, cantarono a sera inoltrata: Ma domani che sarà? Tutto il mondo è vanità.

A queste conferenze di carattere teologico, altre se ne aggiunsero, di carattere letterario. La folla ormai ascoltava tutti e passava da un punto all'altro, senza diminuire di una sola persona. Un medico parlò di Pirandello e sostenne che il grande scrittore agrigentino aveva descritto "mirabilmente uno squilibrio dell'animo umano che, indebolito dalle passioni, non sente più la concretezza della propria personalità" L'avvocato Luigi Noretti gli diede sulla voce: che diceva? che pensava mai? Sentirsi mille e centomila è cosa naturale, è di tutti, deboli e forti, equilibrati e squilibrati! L'uomo, anche il più normale, non si sente mai uno!

Finalmente, il primo sabato di marzo, i paolini partirono. Scese su Nissa una sera silenziosa. Le signore non si abbigliarono per uscire; gli altoparlanti, ancora appesi nella piazza e nei crocevia, parevano gabbie rimaste vuote. Il salone del municipio riaprì le sue finestre e confuse la polvere del pavimento, scacciata da cinque ramazzatori, alla penombra del crepuscolo. Ottavio Carrubba e Giovanni La Pergola girarono invano i tasti della luce: per ordine del podestà, i lavori di pulizia dovevano esser terminati prima di sera o eseguiti al buio.

Pazienza! Purché il ballo avesse luogo!

 

Ma non erano i paolini arrivati alle loro destinazioni, che un altro guaio cadde su Nissa. Profittando del fervore che le prediche avevano lasciato; pensando che i nisseni avrebbero visto con piacere chi rinfocolasse le loro dispute, le signore di nuovo trovato un motivo per abbigliarsi e lasciare le case al crepuscolo, gli avvocati per alzare la voce anche fuori del Tribunale, e il popolo per togliersi il cappuccio e passare l'ora del tramonto, invece che al vento della piazza, nel caldo salone municipale, il farmacista chiamò con un telegramma, e fece arrivare da Milano, il capo degli antroposofi italiani, il rinomato signor Giovanni Castelli.

Di nuovo il salone municipale venne tolto a Carrubba e La Pergola, i quali però furono invitati a sedere nella prima fila delle poltrone, in posti riserbati con due cartoncini. L'uno e l'altro fecero buon viso a cattiva sorte, e puntualmente ogni sera, toltisi il primo il cappotto, il secondo lo scialle, sedettero a pochi passi dall'oratore.

Era costui un uomo alto e magro, con una mano appesa al collo, e l'altra, grande e ossuta, sempre sul mento, nel gesto di chi dice: "Mi è ricresciuta la barba!" Quando però toglieva la mano dal mento l'espressione aggrottata e sgradevole gli cadeva dalle guance e gli occhi gli brillavano, nel viso rasserenato, come le prime stelle nel cielo sgombro. "Steiner" diceva egli, "Steiner è il nostro grande genio! Colui che ha dato a tutti i modi di penetrare nell'ultrasensibile, scoperti dagl'iniziati nel corso dei millenni, un ordine da scienza. Chiunque di voi può impadronirsi di questa scienza e spiegarsi l'al di là!" Il pubblico si agitava sulle sedie. Giovanni La Pergola, stupefatto, guardava Ottavio Carrubba che, sentendo lo sguardo dell'Amico sulla guancia, si voltava verso di lui.

"L'uomo non è un essere semplice" continuava l'oratore. "L'uomo è composto di sette elementi: 1. Corpo fisico; 2. Corpo eterico e corpo vitale; 3. Corpo astrale; 4. Io; 5. Personalità (sé) spirituale; 6. Spirito vitale; 7. Uomo-spirito. Il corpo fisico è la parte in cui l'uomo è simile al mondo minerale; e solo in essa, è visibile. Nel resto, l'uomo è invisibile tranne che all'occultista. Il corpo eterico, o forza vitale, interpreta tutto il corpo fisico e ne è come l'architetto. Tutti gli organi mantengono la loro forma e la loro figura grazie alle correnti del corpo eterico. Questo rappresenta la vita vegetativa e, se l'uomo si fermasse su tale gradino, passerebbe i suoi giorni allo stato di sonno. Per fortuna, c'è chi lo sveglia dallo stato di sonno del corpo eterico; ed è il corpo astrale. Più su, abbiamo l'io a cui è affidato il senso del permanere, dell'esser noi di oggi quelli di ieri e quelli di ieri l'altro. E più su, c'è l'anima coscienza, o personalità. Nel punto estremo, nel punto opposto alla bruta fisicità, ecco l'Uomo-spirito!"

La conferenza colpì profondamente il pubblico; parecchie signore, la notte, ebbero paura, e dormirono con la lampada accesa. Una ragazza si fece promettere dal fidanzato, pena la rottura del fidanzamento, di non andar più ad ascoltare il signor Castelli. Ma la sera dell'indomani, il salone del municipio si riempì di tutta Nissa: c'era perfino la ragazza. Castelli spiegò che, durante il sonno, il corpo astrale si distacca dal corpo eterico e raggiunge il mondo delle costellazioni, il suo mondo, dal quale torna provvisto di forze. Nella morte, il corpo fisico cade, come un frutto marcio, dal ramo del corpo eterico, il quale resiste ancora per un giorno, e poi vacilla e cade anch'esso, lasciando intatto il resto dell'uomo, dal corpo astrale in su. Castelli espose con molta chiarezza quello che accade all'uomo durante l'agonia. Quando il corpo eterico si stacca dal corpo fisico (e i chiaroveggenti sono in grado di vedere questo fenomeno), il passato si ripresenta tutto intero all'uomo, come raccolto sopra una lavagna. Castelli lesse alcune pagine del grande Steiner: "Maurizio Benedict, l'illustre antropologo criminalista, narra nei Ricordi della sua vita che, un giorno, essendo sul punto di annegare, vide tutta la sua vita passata presentarglisi dinnanzi. Dopo di essersi separato dal corpo eterico, il corpo astrale prosegue da solo il suo viaggio. Un altro mondo può brillare nel campo della coscienza, nell'istante in cui l'Io è tratto fuori del mondo fisico, che ne vincola l'attività durante la vita. Vi sono però ragioni per le quali anche in quel momento non cessa per l'uomo ogni rapporto col mondo esteriore. L'Io può ancora conservare bassi desideri, come quello di cibarsi; ma non ha più gli organi per soddisfarli... Soffre terribilmente... L'Io è nella necessità di liberarsi da quel suo legame di attrazione col mondo esteriore. L'Io deve operare in sé a questo riguardo una purificazione, una liberazione. Ci si trova allora di fronte a quel mondo, che la scienza occulta designa col nome di mondo del fuoco spirituale distruttore. Tale fuoco divora quei desideri dei sensi, in cui questi non sono una espressione dello spirito. Può apparire invero spaventevole che una speranza, la cui attuazione richiede organi sensori, debba, dopo la morte, trasformarsi in disperazione. Ma la colpa è dell'Io che, in terra, si è troppo legato a desideri di ordine non spirituale... Se si appaga un desiderio di tal natura nel mondo sensibile, il suo effetto nocivo sull'Io tuttavia permane; soltanto, prima della morte, esso non è percepibile dall'Io. Nella vita perciò la soddisfazione di tali desideri può creare nuovi desideri simili, e l'uomo non si accorge affatto che da se stesso si va avviluppando nel fuoco divoratore."

Nessuno ebbe il coraggio di fiatare. Lo stesso avvocato Noretti aveva perduto il gusto della polemica. La folla tornò a casa, fortemente scossa. La Pergola andò a scovare entro una cassa il ritratto del fratello ucciso da sconosciuti quindici anni avanti, e, pulitolo con la manica, lo avvolse in un lungo e singolare sguardo. Le macchie avevano aggiunto come un sorriso a quel volto di ragazzo. La Pergola non aveva capito gran che, dalla conferenza del signor Castelli, tranne che i morti ci guardano, e forse torneranno.

La terza sera, l'antroposofo parlò delle sedute spiritiche: egli non negava che il corpo astrale può rendersi visibile, ma gli spiriti che vengono intorno ai tavolini sono, nella maggior parte, basse entità.

La quarta sera, il signor Castelli provocò nella sala brividi di paura e di delizia, descrivendo come le anime dei morti tornino a incarnarsi, e come quelle dei vivi diventino chiaroveggenti. A questo proposito, consigliava alcuni esercizi, come per esempio immaginare un cespo di foglie accanto a un uomo nudo; fissare fortemente il pensiero sul fatto che, dentro le foglie, scorre una linfa verde, e dentro l'uomo un sangue rosso; immaginare poi che nell'uomo scorra un sangue verde; e così di questo passo.

Per sette sere, il signor Castelli tenne Nissa col fiato sospeso. Poi, d'un tratto, partì. Qualcuno tornò a parlare del "Valzer"; ma in verità gli animi eran rimasti assai turbati e, più che al ballo, pensavano all'al di là; e non più da filosofi, ma da occultisti. Nemmeno Edoardo [Carlo] Cannata riuscì a rimettere questo pensiero nella serena luce delle idee: esso si era ridotto, da pensiero, a una sensazione talvolta viscida, talvolta fredda, come se il signor Castelli avesse lasciato aperto il finestrino di un sotterraneo. Poi tale sensazione si pulì e calmò: Dio riapparve, anche da questo lato.

Noretti confidava a Cannata: "Di quando in quando, sento di aver dimenticato qualche cosa, qualche cosa di molto importante; allora, cerco di ricordare con tutte le forze, con tutto me stesso. Ed ecco: mi pare d'essere vicino a quello che cerco nella memoria, di sfiorarlo, di toccarlo come nel buio! Un altro piccolo sforzo, e il segreto della vita sarà svelato! Ma sono stanco, ricado giù... Insomma, prima di entrare nella vita, io avevo deciso di fare tutto quello che ho fatto e farò, perché, allora, ne sapevo bene lo scopo, perché, allora, avevo un fine: questo scopo, questo fine, corpo del diavolo, io li ho dimenticati! Ma mi sembra talvolta di essere lì lì per ricordarli! Sono i casi in cui le mie più grosse sciagure mi appaiono come volute e preparate accuratamente da me!"

Maria Carnevale, entrando nel regno delle esperienze antroposofiche, non dimenticò il suo Pirandello: essa fece un sogno straordinario, e fu incapace di narrarlo, essendo il vero senso di quello che aveva provato rimasto dentro il momento in cui lo provava. Nel sogno ella vedeva tutte le sue impressioni, e pensieri e sentimenti, convergere, invece che verso di lei, verso un punto distante da lei. Riusciva veramente impossibile spiegare questo fatto: perché si trattava proprio delle sue impressioni, dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, e nello stesso tempo queste impressioni, questi pensieri e questi sentimenti si riferivano non più a lei, ma a un punto lontano. Evidentemente era la personalità che usciva dall'Io.

Una sera, Lisa Martoglio si alzò gridando dalla tavola perché, dal lato opposto, vedeva seduta un'altra se stessa.

Anche Giovanni La Pergola ebbe un sogno: il fratello, di cui aveva cavato il ritratto dal fondo della cassa, gli apparve verso l'alba: "Giuoca 21, 30, 42!" gli disse. La Pergola giuocò il terno, e perdette due lire. "Questi morti non sanno quello che dicono!" ripeté la sera del sabato, mettendo il ritratto del fratello ai piedi di Sant'Antonio in modo che quel viso caro, scialbo e sorridente partecipasse del po’ di luce che una fiammella mandava sulla statua. La notte, il fratello gli riapparve. Piangeva e non diceva nulla. Finalmente aprì la bocca, e mormorò:

"Hai parlato male di me!"

"Quando?" fece Giovanni.

"Ieri sera!"

"Mi hai dato un terno sbagliato!"

"E' vero! Ma io credevo che fosse esatto. La colpa non è mia, ma della mia mala sorte; perché non sono riuscito a entrare nella stanza di Dio, ove si vede la verità e si legge sul botteghino del lotto a distanza di mesi nell'avvenire! Io volevo aiutarti, come fanno, coi fratelli vivi, i morti che abitano nella stanza di Dio!"

"Ma tu perché non ci abiti?"

"Perché sono vestito male!"

Giovanni La Pergola cavò una mano di sotto al cuscino per toccarsi la fronte:

"Come? Che mi dici? Anche i morti sono vestiti male e bene?"

"I morti uccisi, sì. Per entrare nella stanza di Dio, devono esser vestiti bene: altrimenti la porta non si apre."

"E come si fa a vestirsi bene? Non vorrai che ti mandi un po’ di soldi?"

Il fratello sorrise:

"No! Se tu metti un soldo nella mia mano, essa si apre come una ragnatela e lo lascia cadere nel burrone del cielo."

"Allora?"

"Noi morti, in cielo, siamo vestiti come i nostri fratelli vivi sono vestiti in terra. Se tu sarai vestito bene, anch'io lo sarò. Se il tuo abito puzza delle cipolle di un anno fa, delle verdure di gennaio, di strada, di concime, di legno vecchio, di tabacco, anch'io puzzo, i morti si scostano da me, e la porta di Dio mi sbatte in faccia ogni volta che m'avvicino!"

"Ma Dio è Dio dei signori, dunque?"

"No, tu non puoi capire! Vuole pulizia, nella sua stanza, ecco!"

"E perché non me l'hai detto prima, che io mi sarei vestito da signore?"

"Hai avuto sempre il sonno pesante e non sono mai riuscito ad entrare! Ho battuto più io alla tua testa che un martello di vecchio orologio alla sua campana!"

"Fratello caro, fratello mio, questa porca miseria è la dannazione della nostra famiglia! Tu però, quand'eri vivo, fratello mio, hai speso più di me e di Rosaria! Ma eri tanto grazioso, corpo del diavolo! Eri il solo di noi che dovevi vivere!"

"Sai quanto sono costato a mio padre, in quindici anni di vita?"

"Dimmelo!"

"Mille e settecento lire!"

"Solamente?"

"Solamente! Non consumavo più di mezza lira al giorno!"

"Mille e settecento lire? Quanto un abito della signora Lisa Martoglio, o la radio del professor Carrubba."

"Non mi nominare quell'uomo!"

"Perché?"

Il fratello divenne serio in viso, e scomparve.

L'indomani, Giovanni La Pergola andò a trovare Ottavio Carrubba. Il professore teneva sullo scrittoio un mucchio di coriandoli, e li andava legando con pazienza, i verdi coi rossi, i gialli coi bianchi.

"Aiutami!" gli disse.

Giovanni La Pergola mise le grosse mani nella nuvola di carta velina, e narrò il sogno all'Amico.

"Credi ai sogni?" domandò Carrubba.

"Nossignore! Non ci credo!"

"Perché?"

La Pergola esaminò una per una, con molto acume, tutte le assurdità del proprio sogno. Il fratello era stato ucciso a vent'anni, e non a quindici; al padre non era costato nulla, perché il padre era morto prima della nascita di lui; la pretesa che i morti fossero coperti dell'abito stesso che i fratelli vivi indossano in terra, non era una cosa seria. Tacque l'ultimo episodio del sogno: e cioè che aveva nominato Ottavio Carrubba al fratello, e questi s'era subito rabbuiato in viso, e poco dopo ecclissato.

 

L'avvocato Luigi Noretti si convertì all'antroposofia, acquistò tutti i volumi di Steiner, si mise in corrispondenza con la baronessa De Renzis di Roma e con lo scrittore Kufferle di Milano, si abbonò alla rivista parigina Science spirituelle e a quella ginevrina Das Goethianum. Riuscì finalmente a spiegarsi quello strano sentimento che lo aveva sempre accompagnato nella vita: di essere al mondo da milioni di anni. Una notte, ebbe il sogno rivelatore: tutti gli uomini non erano che un uomo solo, e quest'uomo era lui. Si svelava per un attimo il mistero per cui egli appariva a se stesso come un altro, come gli altri; ma all'alba quel mistero si richiudeva. Noretti espose il sogno, in una lunga lettera, alla baronessa De Renzis di Roma, e questa gli rispose che non era un sogno del tutto rivelatore; ma che continuasse ugualmente a sognare, e si affinasse sempre di più. Basta, in una città, uno spirito chiaroveggente perché intorno l'aria acquisti poteri spirituali impreveduti, e avvengano quei fenomeni che agli spiriti semplici paiono miracoli. E' provato che un ottimo suonatore di violino può modificare, per un raggio di chilometri, le tonalità dell'etere.

Il salone municipale fu ancora una volta destinato alle polemiche: Noretti dava un tema, e gli altri, sotto la sua direzione, cercavano di svolgerlo. La signora Lisa Martoglio scoprì di essere amata dall'anima di un morto. Una sera, dunque, fu proposto il seguente tema: può un corpo astrale, privo del corpo eterico e del corpo fisico, amare una donna? Si decise di sì. Lisa Martoglio, avvolta, come in una nube oscura, in questo amore dell'al di là, fu guardata con meraviglia e paura. Ella divise il letto dal marito, perché temeva la gelosia di quel corpo astrale che aveva dato un primo saggio di sé col far cadere un pesante quadro dall'alto di una parete.

Giovanni La Pergola, una mattina che restò solo in casa, si pentì di non aver creduto alle parole del fratello, tremò al dubbio che il sogno avesse detto la verità; e la sera, strapazzò la moglie che aveva cambiato posto al ritratto del morto. Due giorni dopo, svendette, per una piccola somma, le verdure, i formaggi, la frutta, le panchette, le bilance, i pesi a un venditore ambulante, e acquistò, da un poeta dialettale, sfiduciato dell'esercizio della poesia e dell'eleganza particolare che esso richiede, una redingotte grigia, un alto colletto duro e un cappello a cencio. La moglie che, rientrando, trovò la casa vuota, e sopra l'unica sedia un signore assai buffo nel quale riconobbe il marito, fuggì spaventata dal professor Carrubba.

"Mio marito impazzisce!" gridava, battendosi le ginocchia con le palme aperte. "E vostra signoria n'è stata la causa!"

"Lasciatelo fare!" mormorò il professor Carrubba, quando apprese i fatti di La Pergola. "Egli ne sa più di noi!"

La moglie tornò a casa mogia mogia, si sciolse le cocche del fazzoletto di sotto al collo e si buttò sopra il letto del figlio. Non c'era nulla da fare per quella giornata, né per l'indomani, né forse per tutto il mese e l'anno: perché non c'era nulla da vendere. Il marito accendeva lumini e ne poneva uno davanti a ogni immagine, poi li aggruppava davanti al ritratto del fratello, quindi scuoteva la testa con malumore e tornava a distribuirli per lo stanzino: il bavero della sua redingotte si riempiva di gocce di cera, e la luce si spostava mandando l'ombra di Rosa, con la fronte tra le dita, ora grande sulla volta, ora piccola sul muro, ora sbilenca sul pavimento.

"Sì," diceva Giovanni La Pergola, "uno torna! Prima muore, poi sta un pezzetto dall'altra parte, e poi torna! E perché no, signori miei? perché no?"

La notte, sebbene si fosse addormentato con un gran desiderio di vedere il fratello vestito elegantemente e di sentirgli annunciare ch'era entrato nella stanza di Dio, Giovanni non sognò che due grossi topi, quieti quieti sul pavimento, al posto delle scarpe.

L'indomani, via delle Calcare fu messa sottosopra da una lite: le lenzuola del dottor Rovelli, stese al balcone del primo piano, avevano fatto piovere troppe gocce d'acqua sulle castagne di Corrado Carnevale. Questi si mise a gridare, dalla strada, contro il balcone chiuso dei Rovelli. Il dottore, che rincasava in quel momento, prese Corrado Carnevale per il bavero e lo minacciò di farlo sedere sul carbone acceso. Quindi sparì nella propria casa, sbattendo il portoncino.

Giovanni La Pergola, che aveva assistito alla scena, si mise a predicare che i poveri non devono mai alzare la voce, perché non sono nelle buone grazie di Dio; spiegò come la stanza di Nostro Signore accolga soltanto i ben vestiti, o almeno i fratelli dei ben vestiti. Le donne si segnavano, ma gli uomini guardavano torvi il cielo nuvoloso; uno mormorò alla moglie:

"Ti pare che non è così?"

La sera, Ciccino chiese un po’ di formaggio, perché il pane scompagnato gli rimaneva di traverso nella gola. Rosa lo sgridò. Egli buttò il pezzo di pane duro contro la parete, e fuggì fuori di casa. Pioveva. La madre lo chiamò, bagnandosi il viso fuori dell'uscio e non vedendo dove mandasse la voce attraverso i fili dell'acqua. Poi rientrò e scoppiò a piangere. Giovanni, che aveva fretta di addormentarsi, per ricevere, dopo tanti sacrifici, i ringraziamenti del fratello che non s'era fatto più vivo nei sogni, ordinò secco:

"Basta ora! Si va a letto!" Fu subito ubbidito, il lume si spense; ma egli non riuscì a chiudere occhio. Gli pareva che tutto, le strade, le piazze, gli alberi, i fanali, le tegole, i cani randagi, le scatole di latta, stessero dentro, e uno solo invece rimanesse fuori, alla pioggia: Ciccino. Si arrabbiava per questo, e si arrabbiava perché questo gl'impediva di dormire e di sognare. La moglie, che teneva anch'essa gli occhi aperti, domandò: "Hai un altro colletto duro?"

"No!"

"E come farai adesso? Questo che porti è bisunto!"

"Ne compro un altro!"

"Con quali soldi?"

"Tengo questo! Ma il disgraziato dov'è andato a finire?"

Ciccino, in quel momento, trascorreva la notte con le mani all'inferriata di una icona: lo consolava del freddo, che gli soffiava dietro, dell'acqua, che gli sgrondava su una spalla, del buio, che aveva intorno, il vedere l'interno dell'icona, come una piccola stanza illuminata fortemente, con le rose asciutte e le fiammelle dei lumini che, chiuse entro coppe di vetro, non vacillavano al vento. Non potendo altro, teneva almeno lo sguardo al calore, alla luce e sotto un tetto. All'alba, tornò a casa con l'abito sbrindellato.

"Ora ti vesti di giornali!" gli gridò la madre, trattenendo a fatica la gran voglia, che aveva, di morderlo.

La moglie del dottor Rovelli cominciò a uscir sola di mattina, e poi anche di sera. Corrado Carnevale le sbatté contro inavvertitamente, al lume di un fanale: così vide che la faccia della signora era umida di colori. Lo raccontò alla moglie, che a sua volta gli raccontò come dal balcone del dottore non pendessero più lenzuola rattoppate, ma lunghe calze di seta.

"Ahi, ahi" fece Carnevale. "E' stato un cornuto che mi ha minacciato di farmi sedere sulla brace!" E la notte, disegnò la testa di un bove sul portoncino di Rovelli.

Di tutto fu informato Giovanni La Pergola che godeva ormai di una grande autorità in via delle Calcare. "Dio ama i ricchi!" mormorò Giovanni. Ma proprio per essere entrato nella fucina di un fabbro con questa frase sulla bocca, il fabbro, ch'era un uomo violento, e aveva al suo attivo alcune liti con cocchieri di Roma, e altrettanti cavalli stesi a terra e uccisi con un pugno solo, gli gridò: "Tu bestemmi, maledetto turco! Dio ama i poveri!" Si afferrarono l'un l'altro per il polso sinistro. "Dio ama i ricchi!" "No, Dio ama i poveri!" Un cavallo, ch'era legato vicino al fuoco, sulla cui schiena ballava il riverbero della fiamma, volse la testa, coi grandi occhi tetri, verso i due. Dall'uscio, il professor Carrubba sentenziò: "Dio ama tutti, poveri e ricchi!"

Giovanni e il fabbro si lasciarono.

"Perché litigate?" disse Carrubba. "Discutete piuttosto!"

"Eh!" fece il fabbro. "Noi non c'intendiamo di questo! Siamo povera gente!"

"Io," disse Carrubba, "vorrei sapere la metà di quello che sa La Pergola!

"Ma che sa La Pergola?" gridò il fabbro.

"So quello che so!" rispose furente La Pergola.

Stavano di nuovo per afferrarsi. Carrubba li divise e calmò. Al rumore dei fiati grossi si univa ora quello del mantice e della fiamma; poi risuonarono i martelli sugli zoccoli dei cavalli. Si parlò di via delle Calcare: prima era tutta di donne oneste e ora, a poco a poco, l'albero delle corna vi metteva radici.

"Vuoi parlare della signora Rovelli?" disse La Pergola.

"Non soltanto di lei!" disse il fabbro, chinando la faccia sull'incudine e illuminandosi di rosso come un diavolo.

La notte, La Pergola rivide in sogno il fratello. Era elegantemente vestito, e sorrideva:

"Sono entrato nella stanza di Dio! Vedo la verità!"

"E' bello Dio?" fece Giovanni commosso.

Il fratello curvò il capo.

"Grande?"

Il fratello curvò il capo.

"Buono?"

Il fratello curvò ancora il capo.

"Dammeli ora tre numeri da giocare al lotto!"

"Non posso, ora. Ma ti rivelo qualcosa di molto interessante: via delle Calcare è diventata una via di donnacce!"

"Non è solo la moglie del dottore?"

"Non è solo lei! Guarda bene la notte per gli usci socchiusi!"

E detto questo, il fratello sparì.

In verità, quell'anno, la miseria si faceva troppo sentire, in via delle Calcare. Un mercato nuovo, che s'era aperto in una piazza contigua, aveva tolto i pochi clienti di verdure e salami; il prezzo delle pigioni era cresciuto, e, insieme, quello del petrolio per i lumi, dell'acetilene e delle candele: sicché la corta giornata d'inverno diminuiva senza rimedio le occasioni della vendita; gl'impiegati che, tornando dagli uffici verso sera, passavano con un certo appetito per via delle Calcare, non riuscivano a vedere che merce si vendesse nel buio di quei bugigattoli.

Il buio, però, favoriva un'altra vendita: spegnendo le timidezze, ispirava un singolare pensiero alle donne che si vedevan cercate, nel fondo della casa, da sguardi luccicanti di signori che passavano rasente alla porta.

La prima a mettere in pratica quel pensiero, fu Giovanna Petrali. Tutto il giorno, aveva guardato il marito che faceva un solitario con le carte sudice sul cuscino del letto. I tre figli, ch'erano andati per la prima volta in piazza a chiedere l'elemosina, tornarono a sera, uno con la mano chiusa e gli altri due ballando di gioia e alzando in aria il pugno del fratello. Nella mano chiusa, c'era un soldo. Grande fu la delusione dei ragazzi quando videro che con quella moneta non si poteva comprare nulla. Il pane, che incoronò il loro trionfo di postulanti, fu sempre quello nero e duro che si conservava nel cassetto del tavolo. La sera non passò felicemente. Giovanna Petrali mostrò al marito il cuscino sporcato dalle carte da giuoco e lo pregò di uscire. Dei bambini, due s'erano già addormentati; il terzo, messo a letto fra quei due, non trovando chi rispondesse ai suoi pizzicotti, si addormentò, anch'egli. Giovanna sedette vicino alla soglia, in modo da esser visibile ai passanti per l'uscio socchiuso. Due ore dopo, un signore mezzo ubbriaco barcollava dentro la stanza. Giovanna lo trovò pesante e pericoloso come una trave che può cadere sulla testa e schiacciarla, ma il suo pudore preferiva che quell'uomo fosse così: ubbriaco, stanco, con un occhio socchiuso e l'altro velato. Egli lasciò dieci lire sul tavolo. Giovanna raccontò la cosa a due vicine che le dissero sottovoce: "Disgraziata, che fai?" Ma alcune sere dopo, anch'esse, tremando di paura, lasciarono l'uscio socchiuso.

Non erano più signori quelli che entravano, ma soldati e carrettieri con un fiore all'orecchio. I nuovi clienti avevan molte pretese: il buio li annoiava, il freddo li scoraggiava; chiedevano un po’ di luce e di tepore.

Sicché quando, a notte inoltrata, Giovanni La Pergola si mise a camminare per via delle Calcare, quatto quatto e imbacuccato entro uno scialle la cui frangia si univa alla coda della redingotte, le donne, che sedevano vicino all'uscio, erano illuminate da un lume posato sul pavimento, e tenevano fra i piedi una conchetta di carbonella.

Nell'onorata casa di Cantella, di cui tutti ricordavano il modo col quale venivan festeggiati battesimi e prime comunioni, una piccola donna, con le braccia raccolte sotto una sciarpa rossa, incipriata di fresco nell'ora in cui le facce sogliono perdere la cipria sui cuscini, col pallore del sonno in certe righe di pelle rimaste nude fra la cipria e il rossetto, apriva di tanto in tanto gli occhi per guardare la strada. Nella ben messa casa di Scarpulla, famosa in via delle Calcare per una piccola acquasantiera in cui tutte le amiche del vicinato avevano intinto le dita, il quadro della donna illuminata si ornava di un gatto nero con la testa addormentata sulle zampe. Nel piccolo tugurio di Angelieri si vedevano, a poca distanza dalla donna, i piedi del letto con sopra quelli di molti bambini. Il balcone chiuso del dottor Rovelli mandava una musica leggera leggera, alternata a parole francesi, e un raggio sottile che illuminava, sulla ringhiera, mezzo vaso di terracotta. La stessa musica, ma in tono più forte, usciva dalla casa del professor Carrubba. Qui la strada era tutta buia; le porte chiuse.

Giovanni La Pergola si abbassò lo scialle sul viso, e rifece il cammino. La moglie di Scarpulla, non avendolo riconosciuto, lo chiamò con un cenno del dito. Giovanni accelerò il passo. "Ma i mariti dove sono?" pensò. "Che cristo fanno?" Ne incontrò uno poco più in là, che, appoggiato a un muro, diceva lentamente, guardandosi un dito, l'Europa e l'America, l'America con l'Europa, l'Europa senza America, l'Europa per l'America, non l'Europa non l'America, perché l'Europa sull'America eccetera.

In piazza, Giovanni fece un secondo incontro, inaspettato a quell'ora: Giuseppe Battaglia, figlio di una sua cugina, ch'era tornato dall'America per sposarsi in Sicilia. Moglie e buoi dei paesi tuoi. "Ma," aggiungeva il giovanotto, "mi pare che la Sicilia non sia quella di un tempo!"

"Hai visto?" fece Giovanni. "Hai visto anche tu?"

"Sì, quella stradaccia..."

Conversarono fino all'alba sulla decadenza del mondo, l'onestà che scompare, la bugia, il disonore: la radio, sì, la luce elettrica nei piccoli negozi, il treno per i poveri, il cinema per gli operai, ma i nostri figli non avranno madri come le nostre, e i figli dei nostri figli saranno figli di...

 

L'indomani, Battaglia e La Pergola andarono dal professor Carrubba: accanto a lui trovarono la figlia Greta che provava un cappuccetto di cartavelina rossa, ultima trovata del professore per l'atteso "Valzer" Mandato a Battaglia quel medesimo sguardo che da una finestra si manda a un cielo stellato, Greta uscì dalla stanza.

"E' vero ch'è un angelo?" disse il padre.

"Sì, è un angelo!" fece La Pergola. "Io e il mio amico siamo venuti per dirle che in via delle Calcare..."

E togliendosi a vicenda la parola di bocca, i due narrarono a Carrubba quello che accadeva di notte.

Il professore restò di sasso:

"Ma mi dite davvero?" andava ripetendo. "Ma è proprio la verità?"

"Questo giovane era venuto dall'America," continuò La Pergola, "per sposare una ragazza della sua strada. Ma che ha trovato? Donne," e qui La Pergola rise, "donne di strada!"

Due giorni dopo, alla presenza di La Pergola e Battaglia, il professor Carrubba radunò nel suo studio tutte le donne che, in via delle Calcare, lasciavano di notte l'uscio socchiuso.

"Figlie mie..." disse, "figlie mie, dove andiamo? Codesto è il disonore!"

La moglie di Angelieri divenne rossa dalla sola guancia destra, come se lì avesse ricevuto uno schiaffo. La moglie di Scarpulla masticò alcune parole amare: era alla presenza di un americano che dovevano farsi tali discorsi?

"Figlie mie!" continuò Carrubba. "Io so la risposta che mi darete: facciamo questo per procurare il pane ai nostri figli!"

"Ecco!" disse la moglie di Cantella.

"Sì, lo comprendo. Il fine è nobile. Ma non è vero che il fine giustifica i mezzi. Tutti si ha un fine nobile, anche il ladro, anche il più efferato omicida. Anche essi cercano, come noi, di raggiungere la felicità e di fare giustizia! Ma essi sono diversi da noi per i mezzi che adoperano. Non è il fine quello che distingue i barbari dagli uomini civili, i santi dai delinquenti, ma i mezzi che si adoperano per raggiungere questo fine. Valentino, per amore di patria, avvelenava le persone; Silvio Pellico, per quello stesso amore, saliva al patibolo. Il medesimo fine non impedisce che l'uno sia un delinquente e l'altro un eroe. Insomma, il fine non giustifica i mezzi. Non: Dimmi il fine che hai e ti dirò chi sei! ma: Dimmi i mezzi che adoperi e ti dirò chi sei! Figlie mie, voi fate quello che fate per l'amore che portate ai vostri figli: è un atto materno quello con cui, la sera, lasciate la porta mezza aperta. Ma a poco a poco il nobile scopo, come una lampada a cui manchi l'olio, illuminerà sempre di meno la vostra vita! L'atto, con cui lascerete aperto l'uscio, di notte, diventerà sempre meno materno. Voi rimarrete sepolte nei brutti mezzi con cui cercate di raggiungere il nobile fine di dar pane ai vostri figli! Avrete praticato espedienti da, perdonatemi, cattive donne per esser madri amorose e provvide? Ebbene, la madre sparirà presto dai vostri visi e resterà la cattiva donna!"

Che razza di discorso era andato a pescare nella mente, il professor Carrubba? Il fine, i mezzi, Valentino, Silvio... Le donne, Battaglia e La Pergola non ci capirono un'acca. La Pergola, uscendo dalla casa di Carrubba, era assai preoccupato: che fosse diventato uno sciocco, incapace di capire le parole dell'Amico?

Ma la sera, essendosi alzato, nel salone municipale, per spiegare ai convenuti come vestono i morti e come viene regolato l'ingresso nella stanza di Dio, non fu capito nemmeno lui.

In realtà, si era un po’ stanchi di quelle discussioni sull'al di là. Gaetano Nardelli, che un giorno prima aveva scritto a Lisa Martoglio: "L'anima del morto, che vi amerà veramente, fra poco sarà la mia, se mi tratterete ancora con tanta indifferenza!"; Gaetano Nardelli propose che s'interrompessero queste discussioni antropofisiche e si affrettasse il ballo.

Prima pochi, poi molti, poi tutti approvarono. Ottavio Carrubba esultò. Fra cinque giorni, il Valzer!

La notte, La Pergola, sudò freddo, dormendo. Il fratello, entrato furente nel sogno, come uno che spezzi la porta, gli gridò:

"Sai tu chi mi ha ucciso?"

"No!" fece Giovanni.

"Mi vendicherai se te lo dico?"

"Sì!" fece Giovanni. "Con l'ascia!"

"Domani te lo dirò!"

 

"Tu e io siamo poveri; mio padre era povero; il padre di mio padre era povero; il padre di costui era povero... Se tu potessi vedere, come posso io, la catena dei padri dei nostri padri, sino al principio del mondo, ti accorgeresti che tutti hanno il berretto, e sono poveri!"

Giovanni si rivoltava sul letto, non per cambiar sogno, ma per far sì che il fratello, apparsogli ancora una volta, cambiasse discorso. Ma il fratello, un po’ più fioco per le palpebre che ora Giovanni comprimeva sul cuscino, continuò il suo discorso:

"In tutte le famiglie di poveri, c'è un signore, uno c'è (io lo vedo, di qui), o almeno chi possegga una casa al primo piano. Noi, invece, abbiamo sempre pagato la pigione, e al pian terreno. Le nostre donne sono state tutte oneste, sicché nessuno di noi è figlio di un cavaliere. Il nonno di mio nonno è morto sopra il carro di un mugnaio, mentre il giovane, che stava alle redini, gli diceva scherzando ch'egli era una vecchia patata, una vecchia scarpa, una vecchia stuoia. Il nonno di lui era nato sopra un altro carro, e per l'inavvertenza di un tale gli fu riempita la bocca di fieno, come a un puledro. Il possesso più prezioso della nostra stirpe è stata una pecora nera, verso il mille e duecento; l'arnese più signorile, che ci abbia procurato il pane, un clarino, al principio del secolo scorso. Questo nostro avolo, suonatore nella banda municipale, è stato il più felice di noi, sino ad oggi. Egli mandava talvolta, dal clarino, un suono profondo, ma stonato, che faceva sobbalzare il direttore. "Voi, La Pergola" gli gridava costui "siete un bravo suonatore, ma vi capita spesso di pensare ad altro!" No, egli non pensava a nulla: solo che, dal suo clarino, per la sua bocca, si effondeva talvolta il gemito di tutta la nostra famiglia povera e paziente; ed era come un armento bastonato e muto che figli, un bel giorno, una pecora capace finalmente di mandare un belato... Insomma, tolto costui, tutti uomini di poche parole e di pochi soldi. Se ti facessi il conto, come una notte te lo feci per me, di quello che siamo costati, dal principio del mondo ad oggi, rimarresti di stucco. Pochi alberi ci hanno nutrito, pochissime bestie sono andate a finire nel nostro sangue, e poco panno ci ha fornito i vestiti. In certe epoche, la nostra famiglia ha comprato un solo paio di scarpe in vent'anni."

"Ma basta!" mormorò Giovanni.

"Sempre la nostra casa è stata al livello del fango della strada, e sempre abbiamo sentito, al termine del nostro pavimento, battere la pioggia sul selciato. Molti animali di fogna, come blatte, topi, scorpioni, ci conoscono e ci hanno visto dormire! Uno di noi, che possedeva un canarino, fu arrestato perché dissero che egli non lo aveva tirato dal cielo, ma dalla gabbia di un negozio... E purtroppo era vero! Ma finalmente questa brutta musica di miseria e di tristezza stava per cambiare..."

"E quando?"

"Con me, caro fratello, con me! Io ero destinato a voltare pagina, nella storia della famiglia. Ero destinato a grandi cose! Ma mi hanno ucciso!"

"E chi, figlio di un cane? Dimmi il nome!"

"Non ti dico il nome! Sappi soltanto che fu un tuo amico!"

"Ancora vivo?"

"Ancora vivo!"

"Dimmi il nome, ti prego!"

"Io sarei stato un uomo ricco e rispettato; avrei avuto un cappello a cencio, ma non buffo come il tuo: bene adatto alla mia testa, e nuovo! E i miei figli, e i figli dei miei figli, avrebbero tutti portato il cappello a cencio, il tubino, il panama, il cilindro, e mai più il berretto, tranne che nei viaggi, per diporto."

"Oh, Dio mio, Dio mio!" sospirò Giovanni.

"Già prendevano la laurea coloro che sarebbero stati miei professori! Sulle braccia di governanti straniere, in vesti di seta e di velluto, dicevano già le prime parole molte figlie di signori che poi mi avrebbero amato, adorato, e una sposato! Quando il tuo amico mi guardò per la prima volta raccogliere da terra, sul palmo della mano, una trottola rossa! E cinque anni dopo, mi uccise!"

"Ma chi è costui? Dimmi il nome, ti scongiuro!"

"E' un tuo amico!"

"Non dire più ch'è mio amico! Non dirlo più!"

"Purtroppo è così: è un tuo amico!"

"Ma chi è?"

"Il tuo colletto è bisunto! Cerca di cambiarlo!"

Giovanni La Pergola si svegliò: due gocce di sudore gli correvano sulla fronte; soffi di vento, penetrando per le fessure della porta, mettevano nel buio rumori di fogli che oscillino sulla parete: erano i santi che andavano a destra e a sinistra.

"Rosa!" fece egli, togliendo la mano pesante della moglie dal petto su cui stava. "Rosa, accendi il lume!"

La moglie accese il lume, mormorando:

"Che c'è? Che c'è?"

"Sono ammalato! Faccio brutti sogni! Io non credo ai sogni!"

"Tutti facciamo brutti sogni!" disse la moglie.

"E' vero! E' vero! Spegni la luce! E' vero!"

Nel momento in cui la donna soffiò entro il tubo del lume, egli si accorse che le guance di lei erano incipriate, e forse anche dipinte. Ma questo pensiero non fu capace di produrne altri, in quel cervello intirizzito dallo spavento.

Sorto il sole, Giovanni si recò dal professor Carrubba.

"Non credo ai sogni!" disse, prima di salutarlo. "E' inutile! Non posso credere ai sogni!"

Poi arrossendo e guardandosi le mani dalla parte ora del dorso ora della palma, chiese un piccolo prestito: doveva acquistare un altro colletto duro; quello che portava era bisunto. E se lo tolse dal collo come una striscia di pelle vecchia sotto la quale sia cresciuta la nuova.

"Io sono un tuo amico!" disse Carrubba.

Giovanni ebbe un fremito:

"Non parliamo di amici!"

"Ma oggi, caro La Pergola, non ho un soldo. Pare strano che, in una casa con la radio e la luce elettrica, non ci sia un soldo! Eppure è così! Se un terremoto mette sottosopra la mia casa, un soldo non ne esce!"

"Fa niente!" mormorò La Pergola. "Fa niente!"

La ruga, che per un momento era scomparsa, gli si tornò a mettere fra le ciglia. "Lei crede ai sogni?" disse.

Carrubba spiegò che la vita è strana: Dio, con la vita, ci ha regalato un giocattolo superiore alla nostra intelligenza; come quando a un bambino di due anni si regala la cartina geografica con le capitali scritte in varie lingue; siamo troppo immaturi per capire quale sia il vero uso di questo splendido giocattolo che c'è capitato fra le mani. I sogni? Probabile che siano più veri delle cose che vediamo da svegli.

La Pergola si sentì sbocciare sulla fronte, in cima alla ruga, quella stessa goccia di sudore che, all'alba, s'era sentito scivolare verso il naso.

"Io sono un tuo amico!" ripeté Carrubba; e, per colmo di semplicità, aggiunse che, pur essendo un uomo onesto, aveva molti rimorsi e molte cose da farsi perdonare.

La Pergola cominciò a tremare; chiese un sorso d'acqua; bevve con la gola ansimante, e uscì nella strada. Il denaro per il nuovo colletto glielo diede la moglie, scegliendo, in un borsellino elegante, un biglietto da dieci lire. Egli notò che mai un borsellino nero aveva abitato il suo sgabuzzino, notò ch'era il caso di domandarsi donde venisse tanto denaro. Ma il suo cervello, al quale pareva fosse arrivata, come la punta di un chiodo, la ruga che divideva la fronte, non fu, nemmeno questa volta, in grado di continuare quei pensieri.

S'era aperta, in via delle Calcare, una Casa della Permanente. Le donne entravano coi capelli lisci e uscivano con un castello di riccioli posato sulla testa. Come un primo piano elegante accresce lo squallore del pianterreno sudicio e senza porte, così quei riccioli aumentavano il pallore e l'abbattimento di quei volti troppo usati di notte e disfatti. A sera, la Casa della Permanente abbassava quasi fino alla soglia la saracinesca, una musichetta da ballo cominciava a ronzare, e sul pavimento illuminato si vedevano piedi con scarpine dal tacco alto ballare con piedi maschili. Uguale musica veniva dalla casa del dottor Rovelli, sulle cui cortine, una sera, passò e ripassò l'ombra di una coppia.

L'indomani sera, accadde qualcosa che nessuno si sarebbe aspettato, in via delle Calcare. Il dottor Rovelli fu preso da un dubbio; e d'un tratto, solo nel punto in cui era stato questo dubbio, ci fu la certezza, e nel resto tutto fu dubbio. Egli capì alcune parole della moglie, capì alcuni suoi ritardi, capì le vesti nuove, capì le calze di seta, capì la testa di bove disegnata sul portoncino, capì un proverbio che Corrado Carnevale ripeteva sempre ad alta voce. La sua memoria ripercorse, trionfalmente avida e ferita, i giorni del passato, raccogliendo in omaggio, da destra e da sinistra, tutti i significati di certe piccole cose che fino a quel momento erano state mute per lui, e ora gli dicevano con perfetta chiarezza quale aggettivo egli meritasse. Salì furente le scale, avvicinando le orecchie stordite a quel suono di valzer che veniva dalla radio. Le stanze erano tutte illuminate. La moglie, in un angolo, si dava il lustro alle unghie con un pennellino; sorrideva alle sue mani, pensando ad altro. Egli la chiamò perché vedesse ch'era puntata da una rivoltella. La donna alzò le mani con le unghie umide e luccicanti, e aprì inutilmente la bocca per gridare. Il colpo partì, mescolandosi rudemente al valzer della radio. Quando i vicini accorsero, nessuno aveva ancora girato il tasto dell'apparecchio, sicché le grida di coloro che chiedevano notizie, o imprecavano, attorno al corpo della povera donna in cui, spento per sempre lo sguardo, impallidite le mani, scintillavano soltanto le unghie, eran dominate da una robusta voce straniera: Vous avez entendu, messieurs, le valtzer de Strauss.

Giovanni La Pergola, accorso coi vicini, guardò e riguardò la rivoltella, batté il calcio sulla palma, appoggiò l'occhio alla canna. Poi si mise a predicare: la vita, la morte; bisogna vendicare; ma più che i vivi, bisogna vendicare i morti. Era ubriaco, e fu messo alla porta. La strada deserta non gli chiuse la bocca: egli continuò a predicare. La polizia credette che quell'uomo la sapesse lunga, e lo condusse al commissariato. Egli predicò anche lì, pretendendo che si scrivessero tutte le sue parole. Intervenne il professor Carrubba per liberarlo. La predica di La Pergola, ch'egli ascoltò sulla fine, pur nella sua confusione, gli parve superba. L'amico acquistava coscienza di sé.

La sera, nel salone municipale, ove ormai tutto era pronto per il ballo, La Pergola fu pregato di dire qualche cosa. Egli parlò dei morti uccisi, e del dovere di vendicarli. Due sguardi di ammirazione lo colpivano: quello di Carrubba, che ormai aveva preso l'aspetto dimesso e beato di un discepolo, e quello di Lisa Martoglio, che rigirava il piede sinistro intorno al tacco. Terminata la predica, Lisa Martoglio si fece accompagnare da La Pergola nel corridoio perché l'aiutasse ad aprire una scatola. Nel corridoio, ella si voltò verso La Pergola, e gli prese le grosse mani. La Pergola divenne furente: non sapeva che fare di quel gingillo di signora, ma cercava di afferrarlo, mugolando. Lisa diede alcuni passi indietro, ridendo come una matta dei gesti forsennati di La Pergola. D'un tratto, però, gli ricadde fra le mani: egli la prese per le spalle e, sempre non sapendo che farne, la curvò sul suo petto: vide così la nuca bianca fra i capelli e la veste, sentì un odore che gli parve di crema, capì quanto fosse facile guastare con le mani il corpo di un vivo.

A questo punto, quasi avesse trovato quello che cercava, fissando bene in mente, come chi voglia mandare a memoria tre parole indispensabili, quel senso di debole che gli aveva dato il corpo di uno che poteva essere tanto una donna quanto un uomo, tanto una signora quanto un "professore", lasciò Lisa e uscì dal municipio.

Il cielo era in subbuglio, per un vento che spirava appena appena sulle strade e mostrava, invece, tutta la sua rapidità e violenza nell'alto, ove grosse e piccole nuvole bianche non avevano il tempo di fuggire, accalcandosi sulla porta dell'oriente, entrando le une nelle altre e rotolando poi, come una grossa palla nera, al di là dell'orizzonte. Le stelle parevano sobbalzare al di sopra delle creste, naufragare, e riapparire quasi con un maggiore scintillio, dovuto al cielo che diventava più puro e al risalto che piglia un punto di luce in un fondo turchino chiuso da nuvole. Quel gran moto celeste si frangeva sui tetti di Nissa e sulla statua del Redentore che, alta e ferma in cima al monte, con la croce in mano, aveva tutta l'aria del pastore intorno al quale il gregge si sia messo a correre impaurito. Colpiti dai fuggevoli riflessi, i vetri delle finestre scintillavano; e l'enorme confusione del cielo pareva contagiarsi agli ultimi piani. Sicché nulla di strano, pensava La Pergola, che fra poco il balcone di sua eccellenza il Pubblico Ministero, pieno di mutande e di vasi di fiori, volasse a oriente, verso Enna e Catania, su quei monti ove la cima nevosa dell'Etna si posava come una cupola di marmo; e il Pubblico Ministero s'affacciasse dalla ringhiera in corsa e, prima di sparire con le nuvole, pronunciasse una sentenza di morte contro il nominato Giovanni La Pergola, abitante in via delle Calcare. Perché questo era il destino dei La Pergola: di lasciare i figli orfani a otto anni; e anche Ciccino sarebbe andato per la prima volta da una donna, col vestito a lutto; e forse anche a Ciccino sarebbe accaduto, come a lui Giovanni, di pensare, guardando dal letto di paglia, l'abito nero smesso, nella prima malinconia dell'amore per la prima volta appagato, mentre la donna mormora: "E ora alzati, marmocchio!"; di pensare al padre morto da alcuni anni. La vita degli orfani non è facile: se fai a pugni con altri ragazzi, questi t'insultano la madre, t'inseguono fino a casa, e un sasso entra prima di te, sbattendo ai piedi dell'altarino di rose vecchie dal quale certo la fotografia del padre non si muoverà per difenderti! Ma il destino è il destino! E sugli uomini soffia quello stesso vento che fa correre le nuvole; tu non lo senti mai, tranne che nei momenti in cui esso cerca di strapparti, come una foglia, dal ramo dell'onestà, della tranquillità, della famiglia, della vita; e tu capisci che il vento batte solo su di te, e non sul ramo, e che già fai la ruota sul gambo, e fra poco l'albero rimarrà dietro di te, Dio sa fino a quando, e tu solo volerai chissà dove col vento.

Entrò in casa senza bussare, perché trovò l'uscio accostato. Vicino al letto, c'era un tale, che con una mano si agganciava il mantello sotto il mento, e con l'altra prendeva il resto di un certo denaro che aveva dato a Rosa. L'uomo e la donna rimasero interdetti, e si strinsero al muro. Ma Giovanni, che badava ad altro e aveva fretta di andare a letto, disse semplicemente:

"Via, usciamo!"

Lo sconosciuto si calcò il berretto sugli occhi e, con un salto, fu nella strada.

Rosa voleva anche lei uscire; ma Giovanni la trattenne per un braccio:

"Si va a letto!" gridò. "Hai capito? E' ora di dormire!"

La donna, tremando tutta di paura, appuntellò la porta, guardò per il finestrino se ai balconi dirimpetto ci fosse un po’ di luce, qualcuno sveglio a cui chiedere aiuto in caso di pericolo. Giovanni le gridò ancora di chiudere lo sportello. S'era già sdraiato a letto, bell'e vestito, e sdrusciava la nuca sul cuscino, cercando il sonno al modo stesso con cui chi ha perduto la vista cerca smaniosamente la luce. Rosa si sdraiò discosta da lui, appoggiandosi a un cuscino, messo ritto contro la parete. Vide così che Giovanni entrava finalmente nel sonno, raddoppiando il grosso respiro che gli usciva dalle labbra. Anche lei si appisolò.

"Sì!" disse subito il fratello, apparso subito a Giovanni. "Sì: è come tu credi! Mi ha ucciso il nobile professor Carrubba!"

"Ma come? Quell'anima morta?"

"Lui, sì! Mi ha ucciso!"

"E perché mi tratta così bene, mi guarda come una madre, mi dice parole gentili?"

"Per il rimorso! Per il rimorso! Vuol farsi perdonare da te! E quale altra ragione potrebbero avere le cortesie di un uomo istruito verso un povero ignorante come sei tu?"

"E' vero! Mi apri gli occhi, fratello! Ma perché ti uccise, questo cane?"

"Non c'è un vero perché! Io andavo per una strada di campagna, prendendo a calci una scatola di latta, che faceva un gran rumore e svegliava l'eco del monte. Egli veniva dopo di me, con le braccia dietro le spalle. Pensava al libro che aveva letto, credeva di poterne scrivere uno simile, e forse anche più bello, e dava una grande importanza a tutti i pensieri che gli venivano in mente... Il rumore della latta lo disturbava. Mi gridò di smettere! Io mi voltai e gli feci le fiche. Egli mi inseguì e mi afferrò sul ciglio della strada. "Canaglia!" mi disse. Io guardai in basso, e vidi un asino legato in fondo al burrone. Stava per lasciarmi, quando si accorse che aveva perduto il filo dei suoi ragionamenti; credette che io, con quel rumore, gli avessi tolto l'onore di scrivere il più bel libro che si fosse mai scritto. Allora mi diede un calcio sul petto. Io allargai le mani e scivolai all'indietro... Una pianta mi trattenne! I miei piedi affondavano nella creta scivolosa, ma io, facendo forza con le braccia, li riportavo in su. Egli scese verso di me, e mi diede un altro calcio che mi mandò nel fondo del burrone, ai piedi dell'asino, che si mise ad annusarmi, mentre io a poco a poco morivo."

"Figlio di un cane!" gridò La Pergola, balzando a sedere sul letto e aprendo stentatamente un occhio. "Così si ammazza un bambino? Così si ammazza la carne innocente?"

Rosa saltò fuori dalle lenzuola, corse alla porta, vi si aggrappò spalancando il finestrino, e si mise a gridare.

"Che fai, femminaccia?" le disse il marito, chiudendo lo sportello e turandole la bocca. "Che fai? Chi ti tocca? Va a letto!"

La moglie capì finalmente che Giovanni aveva la testa lontana un miglio da lei e dalla casa. Questo, da una parte, la rassicurò, dall'altra le diede una paura strana, che la riempì di freddo, l'accorciò sotto le coperte, le tolse le forze e la voce. Quando si fece silenzio, Ciccino, che aveva dormito placidamente durante il fracasso, si svegliò piangendo e lamentandosi. Senza smettere di dire: "Ahi, che vita! Ahi, che vita!", indossò quei pochi cenci di cui andava vestito e fece due o tre giri per la casa; poi, d'un tratto, aprì la porta e fuggì via.

Il padre si alzò, gridandogli di fermarsi. Con la redingotte, che gli si apriva sui fianchi a guisa d'ali nere, si diede a correre per la strada, dietro al figlio. Rosa, dall'uscio, temeva che quel forsennato avrebbe ucciso il bambino. Invece, vide con stupore che, non appena egli l'ebbe raggiunto, lo sollevò all'altezza del proprio viso, e lo baciò due volte. Poi lo depose in terra, si volse alla moglie con un cenno che poteva essere saluto, e sparì in fondo a via delle Calcare.

L'alba scintillò sui tetti. Una donna aprì le imposte di una finestra per agganciare al muro la gabbia di un canarino; un'altra donna stese un tappeto sulla ringhiera del suo balcone; una terza fece rotolare due fichi nella via, mentre collocava un canniccio sulle tegole. Si aprirono le porte dei piani terreni. Passò un carro, con figure in atto di pugnalarsi dipinte sui parapetti. Un circolo aprì a mezzo i battenti, e fece leggere alcune parole nere e alte scritte sulla parete. Un vecchio appiccò un manifesto rosso, con una grossa parola: "Valzer" e, sotto, un rigo della grandezza di una lucertola: "Questa sera al municipio" Cigolò un carro. Poco dopo, il sole gettò una luce, che pareva bagnasse d'oro le scarpe, per il lungo della strada. Alcune porte di una casa, che chiudeva la strada, si aprirono subito, come se quei raggi vi avessero leggermente bussato. Sulla fine della città, gl'interni erano già spazzati e assettati. Una donna incinta, con un abito a fiori, sedeva sulla soglia tenendo il ventre sulle ginocchia come un bimbo ritto. Sul pavimento di un'altra casa, una bambina cercava di cantare entro l'orecchio, che sempre le sfuggiva, di un marmocchio di pochi mesi. Un gatto, con le zampe in alto e rattratte, alzava il capo per vedere se il sole gl'illuminasse bene la pancia. Terminate le case, La Pergola vide il monte, ripido e a ridosso della strada, pieno di capre che vi salivano lentamente come le mosche sul vetro. Da alcune grotte uscirono, coi cenci in mano, figure seminude di uomini e donne che avevano trascorso la notte in quei buchi della montagna, e ora venivano al sole per vestirsi.

Ecco arrivare Corrado Carnevale, giù da un viottolo del monte. Egli ricondusse Giovanni in via delle Calcare, dopo avergli messo in bocca una sigaretta. Giovanni non parlava, si buttava il fumo sulle dita, e si annusava la mano. D'improvviso, dietro al cristallo appannato di una casa terrena, girò uno straccetto, e dal tondo, che rese limpido e trasparente, apparve il viso di una ragazza.

"Ma questa è la Madonna!" disse Carnevale.

"Non ci sono Madonne, in via delle Calcare!" fece La Pergola.

"Io la sposo domani stesso!" continuò Carnevale, avvicinandosi al vetro della porta.

"E sarai becco!" gridò La Pergola.

L'altro si voltò di scatto, e gli diede un pugno sul mento.

La Pergola fece un salto indietro, inciampò in uno scalino, fu costretto, per non cadere, a un secondo passo indietro, che lo portò entro la bottega di un falegname.

"Ehi!" disse un vecchio. "Ehi!"

La Pergola prese l'ascia che stava appoggiata a un panchetto, e uscì brandendola. Ma non appena mise il piede in istrada, e si vide con quell'arma in pugno, voltò le spalle a Carnevale, e si diede a correre per via delle Calcare. Non sapeva ove andasse. D'un tratto, bussò alla porta di Ottavio Carrubba.

"La Pergola, figlio mio!" gli disse questi, venendo ad aprirgli. "Che avete fatto, figlio mio? Entrate!"

La Pergola entrò, e richiuse la porta.

"Vi siete macchiato le mani?" domandò, con paura, Ottavio Carrubba.

"No!" disse La Pergola. "No!"

Carrubba lo fissava con lo sguardo devoto che si manda a un dio, il cui aspetto terribile supera il nostro coraggio senza scuotere la nostra fede e il nostro amore. Quello sguardo tirò a sé la mano armata di La Pergola, come una carezza mal destra e insopportabile.

Fu nel viso che La Pergola colpì. E subito ebbe l'impressione di svegliarsi da un brutto sogno. Il fratello, l'antroposofo, il ballo... Quante sciocchezze gli affastellavano la mente! Ora ricordava, con esattezza, che il fratello era stato ucciso da una schioppettata, in via Cavour. La storia del burrone mostrava la sua assurdità.

Ma di questo brutto sogno, che rapidamente gli lasciava il cervello, solo rimaneva, con l'aria di non voler più sparire, il viso, ferito a morte, del professor Carrubba, nel quale la contrazione del dolore non turbava del tutto la consueta dolcezza. Questo era spaventoso.

La Pergola si tirò i capelli, per tentare se anche da questo potesse svegliarsi. Ma non riuscì che a farsi male, e a vedersi la mano piena di capelli grigi.

Allora buttò l'ascia fra i libri, e uscì, e s'incamminò per la via, volgendo a destra e a sinistra gli occhi senza più sospetto, né ira, né desiderio di vendicarsi, né di essere perdonato, né di fuggire né di essere preso; mordendo, tra brividi di freddo, la ciocca di capelli che la mano gli aveva messo fra i denti.

 

La notizia della morte di Carrubba fu data a Nissa da centinaia di scritte listate di nero. Taluni di questi fogli coprirono quelli che annunciavano il "Valzer"; altri furono subito coperti da disegni e annunci d'aste pubbliche; altri ebbero in sorte posti così alti su muri solitari, che fu chiaro, vi sarebbero rimasti intatti per uno o due anni.

Edoardo Lorena, preso da una strana frenesia, che lo spingeva a parlare continuamente e gli negava, nel tempo stesso, ogni parola, all'infuori di "Egli è morto!", pronunciava in tutti i toni l'orribile notizia, e, nel sonno, ne riempiva il cuscino; lavandosi, l'acqua e gli asciugamani; leggendo, i libri; per le strade, il bavero del soprabito. Talvolta, nel mezzo della piazza, vedendosi a gran distanza dai rari passanti, toglieva la bocca dal bavero, e gridava a voce alta: "Egli è morto!" E quando la nuvola del fiato si allontanava da lui, con un nuovo grido le metteva dietro una seconda nuvola; poi una terza; infine, rimaneva a guardare quei fiocchi bianchi, nei quali il proprio dolore errava, in una forma mite e taciturna, per l'aria senza vento.

Carlo Cannata, nell'apprendere la notizia, svenne e appoggiò la testa sul boa della moglie, che lo ricondusse alla coscienza col suo forte odore di "Coty" Si rizzò mormorando: "Dio dice: Tu hai pensato molto a me, dunque mi hai amato. Io ricambio il tuo amore: dunque, ti voglio!" Il segreto della morte di Ottavio Carrubba era tutto racchiuso in queste parole.

Il capo degli antroposofi, richiamato da un telegramma, tornò a Nissa. Egli negò che il sogno di La Pergola avesse detto apertamente la verità, sull'innocenza di Carrubba, giuravano anche le pietre. Ma senza dubbio, in una vita precedente, Carrubba aveva danneggiato La Pergola. Questi agiva per vendicarsi; non assistendolo però una perfetta memoria di quello ch'era accaduto fra lui e il professore qualche secolo avanti, la coscienza gli aveva foggiato un pretesto qualunque. E come si sarebbe spiegata altrimenti la gentilezza di Carrubba verso La Pergola? Perché tanta ammirazione? Castelli batteva le nocche sui tavoli dei caffè: era evidente che gli spiriti di Carrubba e La Pergola s'erano tornati a incarnare, l'uno col rimorso, l'altro col desiderio di vendicarsi.

Ma la moglie di Carrubba comprò un fazzoletto nero e vi legò il viso, come un pane che ha preso di muffa, e si deve lo stesso conservarlo. Non piangeva né diceva nulla. Una poltrona l'accolse: ella mise i piedi sul piuolo di una sedia, e così rimase per molti giorni. Greta, invece, gridava. Nella sua mente, le poche parole da film, che sole vi facevan rumore, cominciarono quasi sbattute dal dolore, a cozzare e a rompersi. Finalmente, dalla sua bocca uscì qualcosa che non era né: "Perdonami, caro!" né: "Datemi un cocteil!" Ella trascorreva la sera al buio, nella stanza terrena in cui il padre era stato colpito. Le parole del signor Castelli sull'esistenza degli spiriti e dell'al di là, che un giorno le avevano fatta tanta paura, le tornavano ora alla memoria come un arcano conforto. Se un mobile scricchiolava, se una luce azzurrina percorreva, come uno scoiattolo, il pavimento, se le corde della chitarra mandavano un gemito, Greta volgeva attentamente il viso a quel segno misterioso, e aspettava. In tutti quei minuti fenomeni, che la ragione non riesce a spiegarsi, e che di solito fanno trasalire, c'era ormai il padre per Greta.

La moglie di La Pergola si vestì a lutto; ma verso sera, si toglieva l'abito nero e ne indossava uno bianco a fiori verdi. I clienti canticchiavano, rimettendosi la giacca; guardato poi il ritratto di Giovanni, e saputo ch'era il marito, facevano una smorfia maliziosa. La donna decise di comprare un velo rosa da potersi alzare e abbassare, secondo le ore del giorno, su quel ritratto che si faceva tanto guardare e guardava tanto. Rosa lavorava per il figlio e per l'avvocato di Giovanni. Contrariamente a quello che aveva detto il professor Carrubba alle donne di via delle Calcare, Rosa andava acquistando sempre meglio un aspetto di povera ragazza; e più s'ingolfava in quella miserabile vita, e più innocente diventava il suo occhio, e più numerosi le fiorivano in viso taluni piccoli tic che son propri delle bambine.

Ma il dolore, che fra i poveri operava in questo modo, fra i ricchi e benestanti, operava in modo diverso. L'aria intellettuale divenne più alta e fine, a Nissa.

Lisa Martoglio apparve, un mattino, nello studio del marito, chiusa entro una giacca nera abbottonata sino al collo. Ella era venuta col proposito di confessare che, se Ottavio Carrubba non fosse morto, col tempo ella avrebbe potuto diventarne l'amica. Ma poiché, nel cervello di quella giovane donna, il pensiero correva, Lisa si gettò ai piedi del marito e confessò di "essere stata l'amante di Ottavio Carrubba!" Uno strano dolore oscurò la faccia dell'ingegnere Martoglio, ancora una volta levata verso l'al di là per cercare il rivale. Ma quella stessa aria intellettuale, che aveva spinto Lisa Martoglio ad arricchire la vita di Carrubba di un nobile peccato, ch'egli non aveva mai commesso, portò il marito al perdono. "Carrubba era un uomo superiore!" disse egli, la sera, baciando, con le labbra calde di febbre, la guancia di Lisa.

Il funerale di Carrubba fu solenne. Gli amici portarono a spalla il feretro sino al cimitero che sta inerpicato sulla cresta di una montagna e dà un aspetto di fatica e di affanno anche al riposo della morte.

Non appena la terra si chiuse sul corpo dell'amico, una violenta discussione fermò le lacrime negli occhi di Cannata, Lorena e Castelli. "Tutta la filosofia di Steiner," gridava Cannata, "è una briciola caduta dalla mensa di Hegel! L'antroposofia è un idealismo a uso e consumo del volgo che ha bisogno di molte favole e di poco rigore logico."

"Falso!" gridava il capo degli antroposofi italiani. "Il pensiero di Hegel è compreso nella filosofia di Steiner (che, sia detto fra parentesi, si serve dei sistemi di tutti i filosofi e nessuno ne ripudia) come la piccola parte nel gran tutto!"

"Io vi dico solamente questo!" dichiarò Cannata. "L'idea dell'evoluzione è un'idea, dunque un parto del pensiero! Del resto, chi crede più alle cose in sé?"

"Negate l'epoca di Saturno?" domandò allibito il signor Castelli.

"Io non nego nulla! Io affermo!"

"E l'Atlantide?" fece ancora il signor Castelli.

"Credo nell'esistenza dell'Atlantide!" intervenne Edoardo Lorena. "Un libro di Meriscoschi mi ha convinto!"

"Per favore, un po’ di largo!" disse uno degli interratori.

I tre s'internarono nel giardino irregolare, portando la discussione fra i mausolei dei nobili e degli avvocati di grido.

"E l'Atlantide?" ripeté il signor Castelli, alzando la voce.

In questo punto del giardino, gli echi erano profondi. Angeli e colonne spezzate vibravano, al suono delle parole, e le lampade stesse, nel fondo delle cappelle, pareva che, al termine di ogni frase, alzassero le fiammelle. Tutti i nomi, che si leggevano sulle lapidi, erano stati di ottimi polemisti; le bocche, che qui tacevano e si cambiavano lentamente in polvere, avevano, ai loro tempi, molto parlato. L'avvocato Edoardo Buti (1794-1857) aveva sostenuto, con opuscoli e conferenze, che l'uomo è un uccello, e scoperto un residuo delle ali in talune forme di orecchie. Il barone Calogero Landolina (1802-1877) aveva trovato che il pensiero, in tutti i casi, è tripartito, e comprende ogni cosa da tre versi: religioso, ateo e noioso; si presenta agli occhi una violetta? ecco il pensiero a spiegarla, simultaneamente, come un dono di Dio, come una forma solitaria e come una ripetizione fastidiosa del solito avvenimento per cui ogni anno rinascono i fiori. La contessa Filadelfia Recupero (1810-1871), precorrendo un poeta della sua terra, aveva detto al marito di sentirsi due; il figlio di lei, ricco nella fanciullezza, povero nella maturità, avrebbe fatto volentieri una "rivoluzione contro il proprio passato", contro il giovane che aveva speso tutto; e sosteneva, in lunghe lettere agli amici, e con molto fervore, che "noi siamo pieni di estranei", che una lotta di classe "si deve, si deve ingaggiare anche nell'interno della propria persona" Il benestante cavaliere Paolo Perrotti (1840-1925) si era guarito presto e bene di una forma di pazzia che lo aveva tormentato in gioventù (non poteva dirsi un difetto preoccupante, quello che gli rimase sino alla vecchiaia, di non riconoscersi subito allo specchio: dopo un solo minuto di attenta osservazione, col naso sul vetro, si batteva la fronte ed esclamava sennatamente: "Ah, sono io!") e s'era dato, coi migliori risultati, allo studio dei fenomeni elettrici. L'avvocato Roberto Cantarella (1870-1930) aveva speso l'intera vita per dimostrare che Dante è un pagano. Uguale spesa aveva fatto l'avvocato Luigi Grillo (1890-1927) per dimostrare che Dante è un Buddista. Ma anche i morti precoci avevano avuto il tempo di gridare un'idea insolita, prima di tornare al silenzio. Per nessuno la vita era stata semplice; nessuno, prima di chiudere la sua giornata, aveva potuto frenare il bisogno di salire su qualche cosa e dire a voce alta che non era d'accordo col senso comune. Tutti lo avevano odiato, questo volgare senso comune; e negli occhi dei ritratti, che finivano di ornare talune tombe, si leggeva chiaramente quell'odio. Non era stata semplice la vita, e neanche felice. Una giovinetta, di cui si ammirava il mezzo busto in marmo, era la sola che sembrasse felice, ma con una sorta di sforzo e dispetto, come di chi rimane in piedi a vegliare, mentre gli altri dormono sul pavimento. Uno, Rosario Panebianchi (1899-1935), che aveva pubblicato, e letto in ogni dove, dieci volumi di versi intitolati: Canarini contenti, Serpi contente, Mosche contente, Erbe contente, Cavalli contenti, Fiori contenti, Stelle contente, Sassi contenti, Malati contenti, Morti contenti (poderosa opera di un ingegno che avrà il suo trionfo) aveva voluto che sulla tomba, in cui soleva ripetere che sarebbe entrato contento, fosse incisa una sua poesia giovanile, nella quale tutto si può trovare, fuorché la contentezza:

Se il mio cuore tacerà,/ la mia vita se ne andrà,/ come un sogno passerà./ Questa pessima giornata/ sarà alfine tramontata./ E la notte tornerà!/

"E l'Atlantide?" domandò, ancora una volta, il signor Castelli al professor Cannata.

"L'Atlantide, secondo me..." cominciò lentamente il professor Cannata; poi s'interruppe: "Parliamo piuttosto delle idee!"

Parlarono delle idee.

Il tempo s'era messo al brutto, e una pioggia fine fine cominciò a tamburellare sui marmi. Vicino alle cappelle, la pioggia s'illuminava del riflesso delle lampade.

I tre amici si ritirarono sotto un cipresso, senza smettere un solo minuto di discutere. Le idee, le non idee... Il signor Castelli tirò fuori una pipa e l'accese. Il lampo del fiammifero fece trasalire Lorena, che si guardò intorno, continuando, com'è naturale, a parlare delle idee. Sentì anche lui che discutere di filosofia, tra i marmi del cimitero di Nissa, era come duellare in un cimitero di guerrieri. Tutto intorno sembrava confortato da quel suono ininterrotto di parole. Le idee, le non idee!... Il gemito che, sotto la pioggia, mandavano le tombe, era come un grazie dei morti alla vita che ad essi si rivolgeva nel più caro dei modi.

Sogno di un valzer e altri racconti
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