Una formica

 

 

La vita del falegname Domenico Rinaldi non era stata mai regolare. Prendeva un solo pasto al giorno, un pasto enorme, durante il quale ingeriva chilogrammi su chilogrammi di pane, pasta e vino, e dopo il quale rimaneva a letto stordito, senza memoria, senza forza, legato al suo ventre come un masso. Dopo dieci ore di sonno, quel legame si spezzava, il ventre pareva sciogliersi come il ghiaccio in aprile, ed egli era in grado di lavorare. Nel lavoro, Domenico portava gli stessi disordini che nel cibo. Era capace di rimanere in piedi, con un martello in pugno, per dodici ore di seguito, così com'era capace di chiudere la sua bottega per un'intera settimana. Nascosto in un angolo del cortile, ai clienti che venivano a sollecitare il lavoro e a domandare notizie su di lui, rispondeva con un misterioso e cavernale:

"E' crepato!"

Si era diviso dalla moglie e non era più amato dal figlio che adesso cominciava a capire. Il padre, poche ore prima di morire, aveva ordinato che nella tomba di famiglia, Domenico non doveva entrare, perché altrimenti "così morto com'era, avrebbe raccolto le sue quattro ossa e se ne sarebbe andato lui" Gli amici non lo cercavano più.

Ma Domenico non era mai riuscito ad avere dei rimorsi. I suoi occhi, ora duri ora sorridenti, ma continuamente semplici e vuoti, dicevano che non era possibile pentirsi di qualche cosa. E del resto la vita irregolare, il sonno pesante, a cui seguiva il digiuno con le sue limpidezze e le sue commozioni infantili, non permettevano il rimorso.

Ma un sabato, ch'era anche la vigilia della festa di Santa Rosalia, patrona della città, accadde un fatto che non sappiamo come spiegare: Domenico bruciò una formica alla fiamma della candela; subito dopo, scoppiò a piangere, a ripetere ch'era stato maledetto, che sarebbe morto presto e che il suo corpo sarebbe finito nella Valle degli Asini. La sera, mangiando, tremava e piangeva, ma il suo pasto non fu meno abbondante del solito, e come al solito dormì dieci ore.

L'indomani, udì suoni di fanfare e scoppi di bombe. Allora, decise di uscire e di divertirsi come non si era mai divertito.

 

Nella strada, capitò dietro una famiglia di sei persone, tutte grasse e tonde, che andava lentamente verso la piazza principale e, con l'aria più ingenua di questo mondo, impediva di passare. Domenico tentò, prima, di ficcarsi nel mezzo della fila, ma, al suo avvicinarsi, il piccolo spiraglio che s'era fatto fra l'uomo col soprabito e la donna col mantello di velluto, si chiuse bruscamente. Allora egli si fece a destra, cercando di uscire dalla parte di una ragazzina che aveva lasciato uno spazio considerevole fra sé e il muro, ma lo chiudeva col braccio teso, perché aveva la stupida mania di andar toccando le porte e le saracinesche dei negozi. In un primo momento Domenico pensò di dare un bel pugno, come un colpo di martello, su quel braccio, ma poi strinse le labbra e si fece a sinistra. Qui l'estremo componente della famiglia era un signore che pareva il fratello di una botte e andava avanti con un triste moto di rotazione per cui continuamente sbatteva contro i ferri che proteggevano le vetrine.

Domenico incrociò le braccia: "Maledetta gente! Esce di casa una volta l'anno e cammina come i barili. La strada è tutta per loro... Maledetta gente!" E irritato svoltò in una piazzetta. Qui crepitavano le bombe, si produceva fumo e puzzo; e dei bambini, che s'erano messi a piangere, venivano costretti a piangere di più con ceffoni e pizzicotti: ridicoli bambini, gonfiati dal fagotto degli abiti, dei nastri e delle cuffie e che, dalle maniche voluminose, sporgevano una manina piccola come una zampetta di topo per chiedere un palloncino. Ma i padri dei bambini non erano meno ridicoli dei bambini, con quei loro abiti neri e alti colletti inamidati che, pensava Domenico, un poveruomo deve indossare quando se ne va, perché allora non fa più ridere. Molti di quei lugubri signori in abito nero, egli li ricordava nelle botteghe, in maniche di camicia; altri erano dei fannulloni, lieti di potere una volta tanto perdere il giorno insieme a tutta la città. Aveva voglia di afferrarli per la nuca e di tirare una pedata sui loro bui pantaloni: quasi ci teneva a vedere la traccia bianca del suo piede, come una numerazione in gesso, su quelle schiene di abiti neri.

Lasciò la piazza e infilò un vicoletto.

"Ohé, Domenico!" disse una voce argentina; e una ragazza gli mise il braccio nel braccio. "Andiamo a bere!"

"Io non bevo di giorno," disse egli.

"Allora, andiamo a mangiare!"

"Io non mangio di giorno."

"Come? come?" La ragazza scoppiò a ridere. "Non mangi di giorno? E quando allora? Ma tu sei già ubriaco, il mio bel topo."

Questa ragazza era noiosa per i vezzeggiativi che usava: la mia scimmietta, il mio canarino, il mio gattino... Si era sempre un animale, a sentir lei: carino, piccolino, ma un animale.

Sotto la pergola dell'osteria, bevendo l'uno di fronte all'altra, con le faccie dentro i boccali, ella gli pizzicò l'orecchio: "Oh, il mio cagnolino!"

Domenico non protestò. Scendeva dalla pergola una luce penosa, verde, vitrea, come se uno fosse rimasto chiuso dentro una bottiglia. E forse che lui non stava per finire dentro una bottiglia, molti anni fa? Era stato un miracolo che sua madre non si fosse abortita. Egli era in fondo un aborto rimandato... Gli organi di Barberia suonavano vecchie canzoni; in fondo, le mura delle case popolari si alzavano a perdita d'occhio verso il cielo, ma senza dare alcun senso di potenza e di abbondanza: come se la povertà si fosse aggiunta alla povertà, e così, piano su piano, avesse fatto un grattacielo enorme e vuoto, un grattacielo da cinque lire.

"Sei già ubriaco fradicio!" disse la ragazza. "Me ne vado, formica mia."

E se ne andò.

 

Domenico restò solo, ma come in fondo a un burrone in cui un giorno cascava il fiume e ora c'è silenzio. Né gli scoppi delle bombe, né i suoni delle fanfare, né le grida dei passanti o di coloro che, seduti ai tavoli, chiedevano "ancora del vino, per Dio!", nulla di tutto questo riusciva a far chiasso, un po’ di quel chiasso di cui Domenico aveva tanto bisogno, per stordirsi e dimenticare.

"Formica mia..." Domenico si mise a piangere. Oh, maledetto! Assassino! Aborto fallito! Cosa gli aveva fatto di male, quella formica, quella creatura del Signore, per bruciarla così? Nulla, nulla gli aveva fatto. Ed egli si era divertito a vederla morire. Signore Iddio, morire! Quella cosa di cui tutti hanno paura, la cosa più orribile del mondo: morire!

Domenico ricominciò a tremare, a battersi la testa con le mani, a promettere che avrebbe pensato sempre alla "povera formica"

Al resto, non voleva pensare: al padre che era spirato lontano da lui, alla moglie e al figlio che soffrivano la fame, alla sua vita disordinata e animalesca. I rimorsi, che in tanti anni aveva rifiutato, ora tornavano insieme; ma Domenico, con la sua prepotenza d'uomo semplice, si permetteva ancora un arbitrio: di riferirli tutti all'uccisione della formica.

E piangeva, e si batteva la testa, e pensava alla valle di Josafat piena d'insetti neri. Ma in una parte segreta dell'anima, sentiva che i bei giorni di incoscienza non sarebbero tornati più e che la formica non lo avrebbe mai perdonato, appunto perché a lei non importava nulla di essere stata uccisa, ma importava moltissimo (cosa strana, in una formica, impicciarsi tanto dei casi degli uomini) che egli, Domenico, tornasse dalla moglie e dal figlio e pensasse con orrore di non aver voluto bene al vecchio padre.

"Tutto, tutto è andato a male per una formica!" gridava Domenico dentro di sé. "Chi lo avrebbe detto? Per una formica!"

Sogno di un valzer e altri racconti
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