Incontro con l'amico
Un mattino di febbraio, Rodolfo apprese che l'amico Alfredo Carmi, laureato anche in legge, anche lui trentenne, disoccupato, atleta, e buon figliuolo, era tornato a Roma. La sera stessa, egli si recò dall'amico che abitava in via Isonzo, nella dipendenza di una pensione.
Alfredo Carmi dormiva ancora il suo sonno del pomeriggio, quando Rodolfo, guidato per il corridoio tenebroso da una piccola cameriera, bussò alla porta socchiusa.
"Avanti!" disse una voce che sapeva di sbadiglio. E una lampada da capezzale mandò una forte luce rossa sopra un libro francese caduto aperto sul tappeto, un paio di scarpe piene di calze e di giarrettiere, un comodino nero e basso, una camicia da notte abbandonata ai piedi del letto come una donna piangente; e raggi più esili, sul fondo della camera, brulicante di oggetti ordinati, ma numerosi: un grammofono, librerie, tavolinetti ingombri di profumi e di rasoi, manubri, appoggi, castelli di riviste letterarie, quadri di Leonardo, di Botticelli e di Piero, in minuscole riproduzioni a colori.
L'accoglienza, che Alfredo Carmi fece a Rodolfo, avrebbe certo scandalizzato un testimone che non conoscesse i due amici. Carmi si stiracchiò sul letto e sbadigliò due volte in faccia a Rodolfo ch'egli non vedeva da un anno. Questo fu il primo saluto. Poi gli disse: "Be, come stai?" e via via che, battendo gli occhi, s'accorgeva che Rodolfo, seduto sulla sponda del letto, non era un sogno, ma una figura viva, tutta la sua faccia manifestava un forte disappunto. Che un amico così caro fosse venuto a rimettergli nel cuore la fatica dell'affetto non era molto piacevole. Si stiracchiò ancora, come provando a collocare Rodolfo nella classe, tanto carina e sopportabile, delle persone che non ci destano alcun sentimento. Ma la prova non riuscì. Allora balzò a sedere sul letto e, cedendo con gioia all'antico affetto, che non era poi così spiacevole come gli era parso nel malumore del dormiveglia, afferrò l'amico per le braccia, per i fianchi, per il collo, lo baciò, gli disse le cose più diverse e incoerenti: sei sciupato, sei ringiovanito; puoi considerarti un uomo canuto, hai la faccia di un bambino; gli disse che era bello vivere a Roma, ch'era noioso, che aveva letto, un'ora innanzi, delle cose straordinarie su Parigi, che sarebbe stato delizioso andar lassù, ma che non è possibile fare dei viaggi quando si hanno poche lire in tasca ("Ma saremo così poveri, sempre? Cos'è la vita con poche lire in tasca?"), infine gli disse che un lieto avvenire aspettava ambedue e che già era uscito dall'officina lo sleeping-car che li avrebbe portati, non solo a Parigi, ma a Bruxelles, a Madrid ecc. Egli vedeva sé e Rodolfo sonnecchianti con la testa vicino agli sportelli. E cos'erano quei colli di cigno sulle loro spalle? Erano braccia di donne... E cos'era quel profumo di essenza di pino? E quelle risa? Punto e basta. Lasciar fare all'avvenire... Carmi ridivenne duro come un precettore che ha scherzato troppo con l'allievo. Guardò Rodolfo.
"Adesso farò la doccia," disse. "Hai visto mai una doccia, sporco uomo del Sud? Vieni e vedrai. Accompagnami!"
Per una scaletta a chiocciola, Carmi scese nello stanzino da bagno, e Rodolfo lo seguì.
C'era molto caldo. Alfredo Carmi si pose sotto la doccia e fece venir giù un filo d'acqua. Poi, quel filo s'ingrossò e gli spruzzi arrivarono fin sul viso di Rodolfo. "Guarda!" faceva Carmi.
"Che bellezza! Questa è la vita: sentirsi per un momento bene! Non c'è altro nella vita... Già, la vita! Dov'è più? Non ci restano che trent'anni, di cui dieci li consumeremo per cercare di vedere e dieci appartengono alla più fetida vecchiaia. Qualche volta, penso che anche quelli che muoiono a settant'anni sono pietosi e inesperti come i morti precoci. Siamo dei mendicanti che chiedono al destino qualcosa di serio e ottengono invece o un soldo: sei mesi di vita, o due soldi: settant'anni di vita."
Rodolfo lo guardò di sottecchi. "Hai ragione" disse. Alfredo Carmi era il solo uomo con cui Rodolfo amasse parlare un linguaggio desolato; perché Alfredo Carmi, in fondo, era un'anima poetica e ingenua, e fare della malinconia con lui era come fare della musica a quattro mani: suonare dei notturni, dei valtzer tristi, delle lamentations che, per la loro estrema bellezza e poesia, sebbene parlino di morte e di sciagura, danno una grande gioia di vivere. Carmi aveva trent'anni, un anno in più di Rodolfo; s'era laureato in legge nel '12, a ventitré anni, e da quel giorno sino al '18, aveva speso la maggior parte del suo tempo nella lettura di romanzi russi e inglesi. Nella sua vecchia casa catanese, ove un difetto al pollice destro lo aveva fatto rimanere anche durante la guerra, egli aveva trascorso dei lunghi pomeriggi, avvolto, in inverno, dentro scialli a colori con la mano destra sporta fuori, come una zampetta, a reggere un libro straniero. Dei libri, più che l'arte, egli ammirava quel carattere esotico che chiamava "civiltà" e che consisteva, in fondo, nel presentare la vita così priva di risorse intime, di iniziative e di scopi, che l'unico bene restavano i viaggi, le belle donne, la forza dei muscoli adoperata in soprusi divertenti, romanzeschi e privi di cattiveria, e i libri che parlavano di viaggi, di belle donne e della forza dei muscoli adoperata in quel modo. La bontà non era né un dovere né un bene importante; egli se la trovava addosso con molta sorpresa, come quelle immagini della Madonna, che sua madre gli collocava di nascosto fra i libri e la biancheria, e che apparivano d'un tratto, quando meno egli se le aspettava, mentre per esempio apriva una valigia sotto gli occhi di una ragazza con la quale voleva comportarsi da pagano. Dopo la guerra, la necessità di un impiego s'impose anche per lui. Dal '18 al '19, egli ebbe il tempo di perdere due concorsi. Ora si preparava al terzo, di malavoglia e senz'alcuna fiducia.
Era di umore vario, perché le letture continue ma superficiali, le amarezze ch'egli credeva grandi e in realtà erano state mediocri, poco numerose e tutte di fresca data, non potevano impedire alla sua salute di ferro degli scatti di gioia. Era molto sensibile agli spettacoli della natura, ai quali aveva dedicato molti: oh! e molti: bello! bello! Amava i fiori del cactus, e gli amici attribuivano alla gran quantità di teste di vecchio, che biancheggiavano nella sua terrazza, il fatto ch'egli fosse incanutito così presto. Era assai piacevole sentirgli raccontare la storia dei cani che aveva posseduti nell'adolescenza: aiutandosi coi gesti e con le parole, egli rappresentava in un modo così toccante quella piccola bestia, che voleva tornare nella gabbia da cui era stata tolta e che cercava di capire, con le orecchie dritte, cosa si volesse da lei, che le signore, specialmente le straniere, mandavano gridi di ammirazione e avrebbero acquistato a qualsiasi prezzo quella strana creatura da cui scappava fuori, con tanta confusione, ora l'uomo selvaggio ora il decadente. Alfredo Carmi era un bel ragazzo, ma non riusciva mai ad essere elegante, perché gli mancava la fedeltà a un principio, sia pure mediocre come quello di atteggiarsi in un modo, di dividere i sì e i no in parti diseguali e distinte. Sempre inquieto e distratto, anche nei momenti in cui era felice, non aveva la pazienza di seguire un discorso dal principio alla fine, e quando c'era da raccontargli qualcosa bisognava essere rapidi, più rapidi che fosse possibile come quando si vuole afferrare una colomba per la coda. I suoi giudizi erano spesso in forma di monologo a bassa voce, in cui la stessa cosa si presentava come bella, brutta, noiosa, divertente e inutile.
In tutto quell'uomo, insomma, c'era un che di fuggitivo, d'incerto e profondo che piaceva molto a Rodolfo. Con lui, era possibile tenere qualsiasi discorso; nulla era impegnativo; tutto era ipotetico. Quando Alfredo Carmi diceva: "Siamo vecchi e nessuno di noi riuscirà a rendersi utile prima della morte!" il senso vero di quelle parole era, per Rodolfo, il seguente: "Dopo esserci divertiti a immaginare tante cose, divertiamoci ora a immaginare un caso strano, inesistente, addirittura capriccioso: che noi fossimo vecchi e che nessuno di noi riuscisse a rendersi utile prima della morte!" E Rodolfo si divertiva realmente.
Anche ora, dopo un anno in cui non s'erano visti, la conversazione di Alfredo Carmi dava a Rodolfo un'emozione molto squisita.
"Torniamo su!" disse Carmi, dopo essersi pettinato.
Nella camera, illuminata da due lampade, Alfredo Carmi eseguì alcuni esercizi di appoggi.
"Ammira questi pettorali!" disse poi, respirando con tutto il petto. "Eh?" Si guardò nello specchio: "Ma c'è qualcosa di vecchio nella mia carne... Tanta ginnastica, tante cure per della carne che finirà in una fossa! Sei preparato bene agli esami di concorso?"
"Non c'è male."
"Roma è piena di giovani bocciati, che ti domandano in prestito cinquanta lire. Se tu non le hai, ti dicono: "Bene, non importa, dammi venti lire." E infine si contentano di una lira. Che tristezza!... Ma chi se ne infischia? Noi abbiamo un destino particolare, non è così?" Si avvicinò a Rodolfo e, cercando di sollevarlo per i gomiti come un bambino "Ohé!" gridò, in uno scatto di allegria. "Noi non siamo come gli altri! Se non lo danno, a noi, un posto ben remunerato, a chi lo daranno dunque?" Gonfiando le gote, andò allo specchio e s'annodò la cravatta. "E gli amici, gli amici che abbiamo: ministri, sottosegretari, deputati? Ma non mi fare bestemmiare come un turco!"
Rodolfo rideva, sdraiato sul letto. Nei vetri della finestra, si profilavano il cancello, le mura della strada con gli annunzi degli spettacoli, un digradare di terrazze e balconi fra ciuffi d'alberi, e su tutte queste luci quiete di cielo e di lampade, ombre di persone, un gesticolare rapido e misterioso, come di una umanità che preparasse, di nascosto a Carmi e a Rodolfo, una festa dedicata a loro due e facesse cenni a qualcuno ch'era dall'altra parte, non era visibile, ma che, in fondo, dirigeva tutti quei preparativi.
"Adesso noi dobbiamo ordinare la nostra vita," disse Alfredo Carmi strofinandosi un po’ di crema sul collo, "in modo da non fare nulla e avere la coscienza in pace."
"Sei pazzo! E il concorso?"
"Ah, tu credi che gli esami di concorso si vincono con la cultura, anzi: con la coltura? Se lo credi veramente c'è da speculare su di te come sopra un uomo con tre teste, o con le corna, o con le ali."
"In che modo si vincono, allora?"
"Con la fortuna, le amicizie e l'ignoranza. Soprattutto con l'ignoranza..."
"Sarà facile, allora."
"Senti, caro: non mi prendere sulla parola! Studia piuttosto e butta sangue dalle tempie... Come ho fatto io, del resto... E con quale risultato, lo s'è visto... Ora usciamo!"
"Sì, e dove andiamo?"
"Non lo so."
Com'era suggestivo e profondo quel "non lo so" per Rodolfo! Aveva qualcosa della grotta marina in cui ci si avventura a nuoto per la prima volta. C'era Roma, la grande città di cui egli sbagliava ancora le strade e scambiava i quartieri, quello che di vero e di falso si nascondeva dietro le tendine, c'erano le ragazze dagli occhi grandi e benevoli, il segreto di quelle macchine lucide e lunghe che filavano in silenzio, la scoperta, forse, di come si vestissero e dove dormissero talune donne bionde con gli occhiali neri, posate con leggerezza di nuvole entro auto illuminate, pronte a sparire o a tramutarsi in una pioggia di delizie, c'era la chiave di quel linguaggio impenetrabile con cui il palazzo del Vaticano, fermo nella sua altezza come una nave che abbia spento i fari e finga di essere deserta, mandava nella notte i suoi segni di intelligenza - c'era tutto questo nel "non so" di Alfredo Carmi.
"Andiamo!" disse Rodolfo, mentre i denti gli battevano dal piacere.