Arrivo in città
Luigi Arlini, sonnecchiando nel vagone di seconda classe, conosceva esattamente quello che doveva provare, mettendo il piede nella grande città: nostalgia, imbarazzo e mal di mare.
Alla pensione, già minutamente descritta dall'amico Artusi, egli avrebbe dormito in una cameretta pentagonale, accanto alla camera enorme, in cui alloggiava una baronessa col marito. Il pensionante che lo aveva preceduto, sul letto della camera pentagonale, era un giovane avvocato, "magro, alto un metro e settanta, con un po’ di raucedine, ma sano" La baronessa era una bella donna, un tipo di zingara, che suonava al piano nelle ore meno adatte e pranzava, col marito, nella propria camera. Qualche volta, però, una smania barbarica la spingeva a voler pranzare sola, accovacciata sulla poltrona come una jena; e allora si vedeva il marito uscire sorridendo dalla pensione, con una gardenia all'occhiello e una frase sulle labbra, come un motivo: Je mangerai dehors! Je mangerai dehors!
L'avvocatino - così scriveva l'amico Artusi - s'era innamorato della baronessa; ma, timido e piccolino, era rimasto per delle intere giornate, seduto sul suo lettuccio, ad ascoltare la voce, la musica, i passi, gli ordini della vicina, e a respirare quelle sottili atmosfere, di violenza e di dolcezza, che attraverso il muro divisorio, giungevano dalla camera accanto.
Lui, no; lui, Artusi, avrebbe agito in altro modo. La baronessa era un tipo di zingara e, come tale, era anche romantica. Artusi, due giorni dopo l'arrivo, avrebbe mandato - così consigliava l'amico - una lettera alla baronessa, esprimendo la sua gratitudine e la sua ammirazione per la musica che ella gli faceva ascoltare; poi un mazzo di rose; poi una seconda lettera, questa qui romantica ("pazienza, romantica!") sui suoi sogni di pittore e sull'eterno femminino.
Così, dati i consigli e le informazioni dell'amico, dati alcuni doveri che egli credeva necessari alla sua vita intima, Luigi Arlini sapeva minutamente come avrebbe vissuto il suo primo giorno di pensione, nella grande città. Ne vedeva già i particolari: il letto, respingente e sibillino, in cui aveva dormito uno sconosciuto; le pareti gialle della camera, su cui la luce disegnava delle faccie mai viste, faccie di uomini vissuti cent'anni fa; i rumori della strada, enormi e inutili; i camerieri con gli occhi aguzzi e indifferenti; voci, suoni e abitudini del paese natio ritrovati in certi suoni, voci e abitudini della città, ma come ingranditi da uno spirito comico; il passo di una pensionante scambiato, per un attimo, col passo della madre; la nostalgia; la paura; la musica della baronessa, che riempiva questi vuoti come un'acqua gelida; e le lettere delicate; i primi sogni, nella sua vita liscia e dura...
Invece, non appena si sdraiò sul letto della camera pentagonale e adagiò le spalle sui cuscini, si sentì amato dalle cose e forte. Quel dormire sulla traccia ancora calda di un uomo gli diede l'impressione che, a tre anni, gli aveva dato il padre, sollevandolo dal marciapiede, in cui si era smarrito, e stringendolo al petto.
La volta, sulle pareti gialle, era soffusa di una misteriosa e ferma letizia. I mobili, adoperati da sconosciuti, invece che estranei, gli apparivano vivaci, divertenti, chiacchierini, come gli album, in cui tutti hanno lasciato un pensiero, un motto... A destra, una vecchia tossiva. Nella camera della baronessa, qualcuno andava lentamente in su e in giù. Dal fondo del corridoio, giungeva un suono di violino. L'amico Artusi faceva rumore d'acqua nel bagno. Passando vicino alla porta, una ragazza disse: "Domani, sì!" Squillò il telefono e qualcuno rise; si udì un comico: "Siam pronti!" Alla finestra, bussava leggermente un che di misto e poetico: luci, rumori, suoni di radio, panorami sconosciuti.
Un benessere inatteso gli circolava per le vene e lo turbava. Cominciò ad avere dei rimorsi: che uomo era, di che pasta, se le sue impressioni non erano affatto regolari e comuni? Perché si sentiva bene, quando doveva sentirsi male?
Volle pensare delle cose lugubri: in quella pensione, solo, cadeva ammalato e moriva! Fece dei grandi sforzi, per dare a questo pensiero una evidenza. E infatti era un pensiero doloroso: in quella pensione, solo, cadere ammalato e morire! Ma quello che non riusciva a prendere un senso era il solo. Da tutte le parti, voci, passi, sbattere di porte e squilli di campanelli gli alitavano un leggero e caldo respiro di vita umana, sulla carne. Era un'umanità sconosciuta, ma presente: la più adatta, secondo lui, a vincere la solitudine. Il padre, la madre, i fratelli, li si ama troppo perché siano dei compagni e diano quel puro coraggio, che spinge all'azione senza rimorsi. Per il nostro cuore che li adora, sono esseri paurosi, soggetti ai pericoli del mistero...
Si alzò in pantofole, aprì la porta e attraversò il corridoio. Il violino taceva, come quel rumore di tarli che sembra venire da un mobile e poi, al nostro avvicinarsi, non lo si ode più, forse perché non veniva da quel mobile. Una vecchia uscì da una porta e s'infilò in un'altra, rapidamente. Un giovane seminudo faceva della ginnastica, in una stanza quadrata.
L'apparecchio telefonico era nell'angolo meno illuminato del corridoio.
"Dov'è questa porca luce?" mormorò Luigi, a fior di labbra, cercando l'interruttore. "Dov'è questa porca luce?" e ripeteva la frase con un certo godimento, come se volesse sgranchire la sua forza in un'espressione volgare. Ma trovò l'interruttore e accese.
"Telefono a quell'animale di Arnò."
Compose il numero, sentì il "lamento di pecora smarrita" che faceva il nuovo telefono; poi una voce fresca, di donna, nel cavo della grande città sconosciuta, come un richiamo dal centro di un laberinto: "Pronto. Chi parla?"
Luigi sostò un attimo, per gustare ancora una volta le inflessioni di quella voce.
"Pronto. Chi parla?"
"Luigi Arlini. E' in casa il commendatore Arnò?"
"Adesso vedo. Mi aspetti."
Nel microfono, si udiva l'interno di casa Arnò: il guaito di un cane, un suono di pianoforte, e dei colpettini secchi, indecifrabili.
"Pronto?"
"Pronto."
"Il commendatore è uscito un momento fa."
"Salute!"
E chiuse l'apparecchio: "Quell'animale è uscito!" Di nuovo attraversò il corridoio e rientrò nella sua camera. Aprì una finestrella che dava sul cortile e si sdraiò sul letto.
Nel cortile parlavano due donne:
"Cara signora, è venuto stamane."
"Dunque, la camera è affittata?"
"No, non l'ha voluta."
"Perché?"
"Ma è uno scortese! Ha guardato tutto minutamente, e poi mi ha detto: "La notte, io non voglio star solo." "Si spaventa?" ho risposto io, per voltare la cosa a scherzo. "No, mi annoio," ha detto lui, e dopo aver pensato un momento: "Lei, si capisce, tre volte la settimana dormirà con me...'"
"Oh, che briccone!"
"Ma poi gli avesse vista la faccia: seria, tranquilla!"
"E lei, signora? Cosa ha fatto lei?"
"Ma cosa vuole che facessi? Gli ho detto che questo non era possibile... e via."
"E ha perduto un pensionante!"
"Già, l'ho perduto... Pazienza!... Lei cosa avrebbe fatto?"
"Niente: avrei finto di non capire; e poi si sarebbe visto. Era simpatico?"
"Un bell'uomo."
"Eh, bisogna affittare anche i capelli, di questi tempi."
Le due donne risero.
"Benissimo!" pensò Luigi, sprofondando, fra quelle parole volgari, in un sonno beato.
Anche i suoi rapporti con la baronessa furono completamente diversi da quelli che aveva sognato.
Un giorno che batteva a macchina una lettera, Luigi vide aprirsi la porta ed entrare un cameriere, timido e divertito.
"Cosa c'è?" domandò Luigi.
"Mi perdoni, signore; non se l'abbia a male! La baronessa mi ha incaricato di dirle che il rumore della macchina la disturba."
"Mi rompe i timpani!" corresse la voce della signora, che certamente s'era avvicinata alla porta.
"Bene: dite alla baronessa che sono veramente generoso, nel vendicarmi di quel suo orribile pianoforte con una macchina da scrivere."
"Mascalzone!" gridò la voce della donna; e si udì la porta, sbattuta con violenza.
Il cameriere, impacciato, si ritirò; e Luigi seguitò a battere il foglio, in cui a poco a poco fiorirono degli improperi.
Dopo quell'episodio, i rapporti divennero sempre più tesi. La baronessa parlava a voce alta di "taluni mascalzoni!" e di "certe frustate!" che avrebbe dato volentieri. Luigi, non appena ella si metteva al piano, lasciava la sua camera, in fretta e rumorosamente, come se fosse scoppiato un incendio.
Una notte, rincasò più tardi del solito. Non volle nemmeno accendere la luce. Il chiarore di una porta a vetri illuminava vagamente il corridoio.
Numerose scarpe erano allineate presso le porte, con un'aria favolosa di pianelle che avessero ballato e ora, all'arrivo dello sconosciuto, si fossero con paura addossate ai muri. Si udiva la vecchia tossire debolmente. Si udiva quel silenzio falso, di gente che dorme, assai bene percepibile nelle pensioni.
Luigi s'incamminò per il corridoio. Ma nell'angolo che la sua porta formava con la porta vicina, trovò la baronessa, in pigiama verde, muta. Con la sensazione precisa e fredda di toccare, non un oggetto, ma qualcosa d'importante, di sconosciuto, ricco di fini particolari e di storia: un essere, mise la mano in quell'angolo; e sentì le mani, un po’ umide, della donna. Allora l'avvolse col braccio e lentamente la trasse dentro la sua camera.
Nel richiudere la porta, vide, come proiettata a distanza, in una luce da giudizio universale, la sua mano enorme girare la maniglia della porta, girare la chiave, tornare sulle spalle della baronessa. E sentì, con disgusto, la sua vita com'era realmente: condannata alla fortuna e alla brutalità.