Confidenze di un matto
Da quando gli uomini hanno rivoltato i loro corpi, e vanno per le strade coi polmoni, il cuore, l'esofago, la milza e le budella appesi esternamente, io mi son tappato in casa ed evito perfino di avvicinarmi alla finestra.
Sentirli, o vederli respirare, è stato sempre per me una tortura. Ma come, loro?, gli uomini?, questi esseri superiori, capaci, come me, di racchiudere, nel giro fulmineo di un pensiero, il concetto dell'universo o il sospetto di Dio, erano poi costretti ad aprire la bocca ogni momento, o ad allargare il naso, per tirar su un po’ di quella sostanza nella quale stanno immersi, e fuori della quale si metterebbero subito a boccheggiare come pesci fuor d'acqua?
E anche lui, il filosofo, mentre gettava uno sguardo sereno ed altero sulle cose che gli stavano intorno, e il poeta, mentre le vagheggiava come fossero sogni, e gli uomini politici, e i condottieri di popoli, mentre urlavano e si sbracciavano davanti ai microfoni con le trombe rivolte a folle sterminate, tutti, pur facendo mostra d'ignorarlo o di non accorgersene, ricevevano continuamente nel mezzo del viso una rapida imbeccata d'aria; e bastava che una mano li avesse presi per le guance, schiacciandogli contro la palma il naso e la bocca, perché tutti, filosofo, poeta e condottieri, diventassero lividi e poi neri e, torcendosi e sbattendo come tonni nella rete, cadessero morti.
Che vergogna! Io, francamente, mi sono sempre vergognato del mio corpo, e avrei dato vent'anni di vita in cambio di un possente decolorante che, sparso sulle mie membra, le rendesse invisibili. Alcune di queste membra, i puritani le chiamano pudende, ma per me tutte indistintamente le parti del corpo umano sono pudende. Io arrossisco di quegl'imbuti che si chiamano orecchie, di quella proboscide che si chiama naso, di quelle due corna di lumaca che si chiamano occhi, di quelle due ventose che si chiamano mani, io arrossisco delle mie guance che arrossiscono! In una parola: tutto quanto è materia mi suscita ira e vomito, e il pensiero che io stesso debba portare in giro, quale rappresentante visibile dei miei concetti, dei miei sentimenti e della mia coscienza, quale responsabile dei miei atti alla portata di chiunque, più forte di lui, voglia percuoterlo o chiuderlo in un carcere; debba portare in giro per le strade, e tenere sdraiato supino la notte, e vestire e ingozzare di cibo, e abbeverare d'acqua e di vino, e sessanta volte al minuto pompargli dentro un po’ d'aria, quest'animale eretto sulle zampe posteriori che è il mio corpo: il pensiero, e direi il senso vischioso di essere io, Giovanni D'Andrea, autore della "Divina Commedia", dei "Rerum vulgarium fragmenta" e dei "Canti" (che scrissi in una epoca anteriore a questa in cui vi parlo); io, che so bene cosa sono veramente nella mia ineffabile intimità; di essere Io imbrattato di tutto il sangue che contengono le mie vene... questo pensiero mi fa impazzire. O meglio: mi avrebbe fatto impazzire se una meravigliosa parte di me stesso, una parte invisibile e imponderabile, una di quelle parti di cui non mi vergogno né adiro, ma al contrario m'inorgoglisco, la Volontà dico, non avesse impedito al mio sconforto di rompere gli argini della mia ragione, trascinandomi in quello stato pietoso da cui Dio deve liberare me e i miei figli: la pazzia.
Considerate dunque quale dovette essere il mio orrore la mattina che, uscendo nella strada, vidi che tutti i miei simili avevano avuto la bella idea di rivoltare il loro corpo, mettendo in mostra le pulsazioni del cuore, l'affannoso gonfiarsi e sgonfiarsi dei polmoni, l'armeggio iroso del fegato in mezzo alle proprie salse ed emulsioni, e, su tutto, l'ondata del sangue che continuamente s'impennava e ricascava.
Indietro indietro, affascinato dal cruento spettacolo che non mi lasciava distogliere gli occhi, e respinto inesorabilmente dall'orrore di quella strada diventata d'un tratto uno smisurato banco di macellaio, rientrai nel mio portone che subito, non appena potei spezzare l'incantesimo che m'irrigidiva lo sguardo, richiusi con violenza, sprangandolo con tutti i paletti, chiavistelli e catenacci,
Da una settimana me ne sto nella mia camera, ricevendo due volte al giorno solo la visita di un servitore che ha avuto la sollecitudine di coprire il suo corpo rivoltato con un camice bianco. Alla finestra, come ho detto, non ho il coraggio di avvicinarmi, e scambio qualche parola attraverso la parete con un brav'uomo che, da un certo tempo in qua, abita nella mia stessa casa, in una camera attigua alla mia.
In verità, a furia di abitarvi notte e giorno, ho scoperto che la mia camera da letto è ben diversa da come la vedevo nel passato: è molto più semplice, più bianca, il letto è di ferro e non di legno, e alle pareti non vi sono quadri; la finestra, a cui non mi avvicino, è chiusa, grazie a Dio, con una grata di ferro.
Io sono molto contento che la mia camera sia così e non come la vedevo al tempo in cui solevo uscire di casa. E contentissimo sono del fatto che, nella camera vicina, ove una volta c'era il salotto, abbiano alloggiato una persona gentile con una voce, se ho capito bene, di contraltino. Egli mi dice ogni mattina: "Porco, asino scorticato, caprone, ruffiano!" Ma non è che me lo dica: me lo canta, e con una voce così soave che queste parole, apparentemente offensive, diventano per me la più bella musica di questo mondo, una musica che mi addormenta e mi fa sognare.
Ogni volta che egli comincia il suo: "Porco, asino scorticato!" io vado lesto lesto a sdraiarmi sul letto di fianco, appoggio una guancia sulla mano, chiudo gli occhi, e ricordo.
Che cosa ricordo? Il tempo in cui ero giovane e sereno, il tempo in cui gli uomini non avevano rivoltato i loro corpi e, ancora più indietro, il tempo in cui le parti del corpo umano non mi suscitavano né ira né vomito. E anzi, per uno di questi corpi, bianco come la neve, i capelli lunghi e nerissimi, gli occhi ora verdi ora turchini, le gambe, i piedi, le mani... che non vi dico, io mi sentivo venir meno di felicità e di adorazione.
Giovinezza finita!
E sapete quando finì? un pomeriggio del giugno 1940, quando il Capo del Governo, rientrando dal balcone dal quale aveva detto "Popolo italiano, corri alle armi!", si guardò allo specchio e si vide capovolto, coi piedi in su e la testa in giù.
Chiamò subito me, ch'ero il suo segretario, e, indicandomi lo specchio, mi disse tutto affannato: "Guarda lì! Cosa vedi?"
Io guardai nello specchio e vidi me sotto le macerie di una casa.
Subito mi misi a urlare e scappai per i saloni del palazzo, perdendo, nella mia corsa da matto, il berretto con l'aquila dorata e il teschio che portavo sempre appuntato sul petto.
"Eccellenza!" mi gridava dietro un usciere, "Eccellenza, dove andate?"
Io andavo a casa, vi correvo con tutta la furia, insieme al rumore dei miei stivali ferrati, come un vero e proprio cavallo imbizzarrito.
A casa trovai mia moglie e i miei figli che piangevano di terrore e tremavano: guardandosi nello specchio, s'erano visti sanguinanti, sfigurati e sfracellati sotto un mucchio di pietre e travi.
Io stesso li vidi così, due anni dopo, esattamente il 20 aprile 198000000000942.