Confusione in montagna

 

 

Gli ultimi ad arrivare sono i "lupi della montagna", gli sciatori dai pantaloni neri e dal giubbetto bianco, il gruppo che, due anni fa, passò la settimana di Natale nel rifugio Elta, piccolo, scomodo, vera tana da lupi. Come si poté vivere per una settimana, e per una settimana così rigida e piena di tormente come quella, in un ricovero basso, nero, mal chiuso, di cui la fiamma delle legna diventava esile e cominciava subito a fuggire? Nessuno l'ha mai capito; e il gruppo, che a quella domanda ha risposto sempre con sorrisi molto calmi: "Era così carino, lassù!", si è acquistato una grande reputazione.

Oggi, però, la reputazione non basta a fargli avere un po’ di posto in quel caffè di mezza montagna, ove una folla di sciatori, messa in fuga dai soliti tuoni del crepuscolo di marzo, si pigia come un gruppo di anatre attorno a delle miche galleggianti. "Non c'è posto, non c'è posto!" Dicono le ragazze, togliendosi, con molta stanchezza, il berretto di pelo e volgendo agli specchi delle pareti uno sguardo distratto. "Come si fa? Come si fa, eh?" Adesso Emma comincia a interessarsi a quella figura così strana e graziosa che le presenta lo specchio. "Mi dà una sigaretta?" Il giovane le porge una sigaretta, le avvicina alla bocca una fiammella dentro la mano chiusa. "Grazie, molto gentile!" Ma Emma non si volge a lui nemmeno per un momento, perché tutto questo è assai interessante laggiù, lontano, nello specchio ove sembra una scena di film. "Davvero queste grandi attrici non sono poi così grandi!" Ma una nuova ondata di sciatori preme dalla porta, e spinge lentamente verso il fondo. Nello specchio c'è ancora qualcosa di fronte a Emma; ma non è più lei, è un'altra, sono molte altre. Tuttavia quella nuova immagine dello specchio è lì, di fronte a Emma, troppo ben chiara e diretta perché Emma possa pensare che non sia più lei. Quanto le somiglia, del resto! Anch'essa ha le guance rosse, la fronte pallida, gli occhi stanchi e lucidi; anch'essa volge allo specchio uno sguardo di quieta curiosità. Oh, è lei, è proprio lei, Emma! Che sciocchina! Come ha potuto credere che quella immagine fosse di un'altra? E' sempre lei... Ma la sigaretta? Già: la sigaretta? Emma sta fumando, getta il fumo verso l'alto; l'immagine, invece, non ha alcuna sigaretta fra le labbra, non manda fumo né dalla bocca né dal piccolo naso, e semplicemente sorride. Oh, che confusione, che confusione! Ma non importa. Tutto questo è assai piacevole. L'aria calda ha ravvivato il sangue nelle vene. Passano, sopra vassoi galleggianti sul mare delle teste, file di bicchierini di cognac che vengono bevuti all'impazzata. In un angolo, ragazzi in maglia bianca si sono seduti in un modo incomprensibile, che ha forse per base l'apparecchio della radio, o forse un tavolo, o forse qualcosa che si muove tristemente sotto il gran peso, un cane di San Bernardo per esempio: certo è che formano una piramide; questa piramide ondeggia lentamente e, dalle sue bocche, situate, sotto e sopra, con molto disordine, canta canzoni di montagna. A quale testa appartengono quelle braccia che segnano il tempo? E a quali braccia appartiene quella testa che si volge con stento in su e straluna gli occhi? Poco dopo, la piramide cade e lascia libero un atleta che sta ancora sui quattro piedi ed è stordito dal grande sforzo sostenuto. Ma non è passato un minuto che, al posto della piramide, succede un gruppo di signore, venute queste qui non dalla montagna, ma dal basso, dalla città. Esse sono quasi sepolte sotto voluminose pellicce scolorite, in mezzo alle quali si arrampicano bambini vestiti di rosso, piangendo e chiedendo il gelato. Alcuni giovanotti in abito nero, che non si sa donde siano piovuti, passano con aria intontita da un punto all'altro della sala, dopo avere ricevuto alle spalle la bussatina con la quale chi sedeva dietro di loro li ha pregati di togliersi di mezzo.

"Se almeno si ballasse!" I loro voti vengono presto esauditi. Con un rantolo grave, l'altoparlante comincia a dire in inglese: "E' un giorno di tempesta, è un giorno di tempesta." Questo lo sappiamo tutti, pensa la folla. Ma ciò che la folla non sapeva è che questo si potesse dirlo con una musica così graziosa. Balla?... Balla?... Facciamo questo ballo? Vuole? Non tutte, nell'accettare l'invito, rispondono sì. Molte si contentano di aprire le braccia con stanchezza e felicità; altre semplicemente di posare la sigaretta sul vassoio dei gelati. La musica, invece di calmare la confusione, la rende più veloce, come una ruota alla quale si diano colpettini in ritmo. Ora davvero non si capisce più nulla. Le ragazze non sanno più chi sia il loro cavaliere; anche per il fatto che basta un battere di mani perché un giovanotto lasci la sua dama e la consegni a colui che l'ha richiesta in quel modo di prammatica. Tuoni bassi e di corta durata fanno tremare il tetto, oscillare la luce delle lampade. La grandine, come un pugno di sale, colpisce la casa di fronte. Arrivano, più spaventate che mai, altre ragazze. I vetri della porta sono pieni di piccoli nasi schiacciati, di pupille che cercano di guardare entro la sala. L'espressione di questi visi, che appaiono attraverso il velo di fiati, è sempre la stessa: "Uh, che confusione!" Ancora musica e ancora tuoni.

Presso la finestra di levante, si è rifugiata Emma insieme a un ragazzo biondo. Qualcosa doveva dirgli, una cosa molto importante. Ma tale è il gridio, tale il disordine, che questa cosa non si decide mai a venire sulle labbra di Emma, perché davvero, se la dicesse, le sembrerebbe di averla detta in sogno a qualcuno che somigliava a Enrico, ma non era Enrico, o addirittura di averla sentita pronunciare da un'altra. Eppure questa è l'ultima domenica che si va in montagna; questa è l'ultima nevicata; la primavera è alle porte; la primavera vola via rapida; di nuovo sarà l'estate, e di nuovo quello che i ragazzi hanno letto in inverno sulla mano di lei, che il fidanzamento è vicino, che c'è un tale, biondo, che si farà vivo prima dell'estate... sarà stato un inganno. Bisognerebbe parlare, dirla questa cosa! Ma non si può, non si può. Fra l'altro, Emma non è più con Enrico vicino alla finestra di levante: è fra le braccia di un grosso sciatore che la porta su e giù e la fa tremare di freddo ogni volta che le accosta al viso il proprio petto, coperto da una giubba di gomma, nelle cui cuciture non si sono ancora sciolti taluni chicchi di grandine. Quando l'ha invitata, questo grosso uomo taciturno? Ed era proprio lei ch'egli voleva invitare? Non l'ha scambiata con un'altra? Disordine, confusione! Presso il muro di sinistra, alcune vecchie signore, che sono entrate con un bambino e una miss dai capelli biondi, sono ora circondate di ragazzi in maglia bianca, seduti a cavalcione, con le braccia poggiate sulla spalliera della sedia, e sulle braccia poggiata la fronte o la guancia. Dormono? Come si può dormire? La signorina Leni ha intorno al collo la sciarpa di una sconosciuta, mentre la sua borsetta è fra le mani di un tale ch'ella non ha mai veduto prima d'ora e che adesso le sorride mostrandole gli specchietti e le matite che ha cavato dalla borsetta.

"Non si sa più dove mettere i piedi!" grida un vecchio, rigirando fra le dita un orologio d'oro, come un oggetto strano del quale non si sappia che fare e come sia capitato nelle mani di un uomo serio, e che egli alla fine deposita sul tavolo quadrato, dietro cui siede un piccolo uomo dalle mani gialle e dalla faccia grossa e butterata.

"Non si capisce più quali siano i tuoi piedi e quali i piedi degli altri! E' un locale insufficiente... Mia figlia adesso dov'è?... Maledetta la neve, la montagna, lo sci, le scarpe coi chiodi! Un disordine così non l'ho mai visto..."

Ma c'è uno che è molto lieto di quel disordine e di quella confusione; ed è il piccolo uomo dalle mani gialle e dalla faccia grossa e butterata. Qual è stato il peso di tutta la sua vita? Avere sempre quelle mani gialle, quegli occhi porcini in una faccia che sembra un pezzo di zolfo, occupare con quanto si ha di più grande e caro, con la propria figura, uno spazio così meschino e di forma così ridicola. Sempre. Talvolta egli si sentiva davvero carino, davvero pieno di grazia, di affetto e di ardire! Ma cosa c'era nello spazio, anche in quei momenti? C'era sempre un uomo di così piccole dimensioni che nessuna simpatia da parte di altri, specialmente di una donna, avrebbe potuto realmente trovarvi posto; c'era un arnese che la simpatia e l'amore non avrebbero saputo da che lato prendere; e gli occhi, per quanto egli dal di dentro li spingesse a rilucere di grazia, di affetto e di ardire, erano sempre due occhi porcini su cui le palpebre si abbassavano di tanto in tanto, come quelle degli animali che, stesi al sole, cedono con indolenza a un principio di sonno. Lo aveva accompagnato, per tutta la vita, il desiderio di una guarigione veramente assai strana: guarire di se stesso, svegliarsi un altro. Negli anni dell'adolescenza, aveva sperato che l'altro, il guarito, si ricordasse del primo e ne sorridesse. Poi desiderò che l'altro non si ricordasse per nulla del primo, fosse del tutto un altro. Ma questo era un desiderio di morire, di non esistere? No, non era così. Il desiderio di esistere era forte in lui, specie dopo l'affronto che gli avevano fatto: di costringerlo ad esistere in quel modo buffo.

Ed ecco che adesso il piccolo uomo si sente davvero felice. Sente che una carezza vola nella sala e toglie a tutti quanti i loro aspetti, come se quegli aspetti fossero leggeri strati di cipria, e li confonde nell'aria. Oh, questo è il paradiso: sentirsi vivere in mezzo a un gran disordine di cose belle e sorridenti, delle quali una, non sai bene quale, sei tu! Questo significa potersi alzare dalla sedia, poter fare dei passi sotto gli occhi di tutti, potersi inchinare dinanzi a una donna, poterla invitare al ballo. Con quale donna ballerà? Eccola, in fondo alla sala, una ragazza così graziosa, che si guarda la mano destra e sorride di gioia; i suoi scarponi chiodati stanno a terra con pesantezza, ed ella vi è legata, come un uccellino mansueto che abbia i piedi rosei stretti nella tagliola. Come sarà delizioso, fra poco, avere fra le braccia quella donna, sentire la sua piccola mano sinistra sulla spalla, spingerla a parlare da vicino, da così vicino! Dirle per esempio... Egli ha tante cose da dire a una donna, cose pensate per tutta una vita solitaria.

L'orchestra suona un valzer; egli si alza; la confusione è nel colmo, una confusione tale ch'egli deve aspettare che un gruppo dinanzi a lui si sciolga e gli lasci aperta una piccola strada. Nel frattempo, si volge indietro e vede una bambina che, seduta in un angolo, con gli scarponi sul piuolo della sedia, guarda qualcosa di tanto triste e penoso che tutta la sua faccia ne è amareggiata. Perché quella tristezza, bambina? Su, lieta! Egli sta per compiangerla, quando si accorge che lo spettacolo triste e penoso, che fa tanto male alla bambina, è lui, nient'altro che lui. Egli si tira istintivamente indietro. Proprio lui guarda, quella bambina? Sì, lui. Quello sguardo non potrebbe essere meno triste, meno disgustato? Proprio su di lui deve scendere quello sguardo degno di posarsi sopra un mucchio di cenci? Sì, proprio su di lui. E non c'è verso di spingere quella bambina a togliere lo sguardo dal punto che in così triste modo l'affascina. Egli fa ancora un passettino indietro, egli torna a sedere lentamente, e quello sguardo sta sempre su di lui, sempre a quel modo.

Il valzer accelera d'un tratto il ritmo.

Non sarebbe possibile - pensa egli - che gli uomini diventassero così crudeli che io non facessi loro pietà?

Lo sguardo è sempre su di lui, egli se lo sente dentro il petto come un chiodo che lo tenga infisso alla parete.

Torna frattanto il vecchio, facendosi largo nella calca. E' ubbriaco, rosso in faccia, e alza le mani.

"Nulla, nulla si capisce!" grida nelle orecchie delle ragazze. "Confusione!"

"Sentite!" fa l'ometto dalla faccia di zolfo. "C'è qui il vostro orologio d'oro."

"Il mio orologio?"

"Sì, eccolo, il vostro orologio! Prendetelo! A ciascuno il suo!"

Il vecchio solleva l'orologio, barcolla, cerca di guardarlo come la cruna di un ago, ma l'orologio gli sfugge sempre dallo sguardo: "Date a Cesare, sì, date a Cesare quello ch'è di Cesare," va mormorando. "A me date il mio orologio, a voi il vostro naso! Dare al naso quello ch'è del naso, all'orologio quello ch'è dell'orologio! Date all'orologio il naso! No! A me date il naso, a voi l'orologio. No, no! A me il mio orologio, a voi il vostro naso!"

Ecco, bene, pensa l'ometto, a me il mio naso! E la mia gobba? Anche la mia gobba! E le mie mani gialle? Anche le mie mani gialle! Tutto quello che mi appartiene, a me, sempre a me! La confusione per gli altri, non per me.

Sogno di un valzer e altri racconti
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