Trampolini si imbatte in una donna alle soglie del giardino Bellini

 

 

Nei meriggi di luglio, quando Catania, coi suoi arsi palazzi, pare un immenso gregge assetato che scenda verso il mare, il professor Trampolini suole passeggiare su quel tratto di via Etnea che corre lungo i cancelli del giardino Bellini.

Il marciapiede, tutto scuro nell'ombra degli alberi, è come una riva di vento e di frescura sull'immensità dell'abbaglio solare.

La città cuoce nel sole. L'acqua bolle dentro gli aerei canali di acciaio. La luce sulla lava pare fermenti.

In uno di questi meriggi, Trampolini, come al solito, passeggiava sul marciapiede inombrato.

Tutti sanno che il mio maestro è vecchio, e che i suoi occhi, da sessanta anni aperti sul mondo, sono ora deboli e chiedono l'aiuto di fortissime lenti. Pochi sanno che, anche attraverso le lenti, il mio maestro non riesce a distinguere bene le cose lontane. Egli ha rinunziato, con molta eleganza, alle stelle, alle nuvole, ai campanili. Il mondo s'è fatto così più raccolto e più piccolo intorno a lui.

"Del resto," egli dice, "è inutile guardare le cose inafferrabili. La sproporzione fra la portata della nostra vista e quella della nostra mano fa nascere le chimere e provoca le grandi disillusioni. Con l'accorciarsi della mia vista, io ho ristabilito l'equilibrio nei miei desideri e circoscritto il campo della mia inquietudine."

Ad ogni modo, in quel meriggio di luglio, Trampolini passeggiava col cappello fra le mani e l'anima piena di idee così alate e inconsistenti che sembravano bei sogni.

Ed ecco, sullo sfondo della via, apparire un che di bianco e di morbido: un sorriso di donna più che una donna sorridente.

"S'avanza una divina fanciulla," mormorò Trampolini.

A quella distanza, il mio maestro non suole mai vedere. Ma egli dice che noi possediamo un sesto senso, che ci fa cogliere la bellezza femminile. Noi avvertiamo spesso, anche senza voltarci, che una bella donna si appressa. Noi sentiamo, attraverso una sorda parete, che la nostra vicina è una bella vicina.

Con questo organo, Trampolini notò la presenza della divina fanciulla. E quanto stava per nascere, lentamente, di sogni, di pensieri, di armonie, nella sua anima, nacque di colpo, con sbocci e scoppi violenti. La giovanetta si appressava rapida... Egli abbassò gli occhi, come un timido poeta, e fu avvolto in un'onda di profumo e di amore, in cui perdette uno dei sensi (quello della direzione) e sbatté contro la passante.

Chiese scusa, con molta galanteria, curvandosi per raccogliere le lenti cadute. Udì, nell'ombra confusa in cui s'erano oscurate tutte le cose, un largo riso impertinente.

Egli tornò a chiedere scusa, brancolando per ritrovare lo spettacolo di quella bellezza, smarrito con gli occhiali.

"E' inutile che facciate tanti inchini," disse la donna. "Vi ho già perdonato."

"Signorina, io vi ringrazio, ma non mi sono ancora perdonato io..."

E giù inchini, che erano in verità tentativi inutili per rintracciare le lenti.

"Io comincio a sospettare che voi siate un furbo..."

"Qualsiasi sospetto io merito, o divina giovinetta."

".e che voi restiate così curvo per guardarmi le gambe."

Vibrò nella sua anima, il professor Trampolini e sentì già di amare quella fanciulla invisibile, di cui sentiva la voce ed il riso vicini.

"Signorina," egli disse, "io non dimenticherò mai questo incontro e benedico l'urto che vi ha fermata."

"Fatevi coraggio, amico mio: voi potrete rivedermi."

Il sangue gli cadde dal volto. Dei sessanta anni, che aveva, non gliene rimasero che venti, nel cuore tremante.

"Voi dite la verità?" e trovò gli occhiali.

"Abito in via Gazometro, numero..."

Trampolini finì di inchinarsi. Inforcò gli occhiali e... tornò vecchio, sfiduciato, coi suoi mille acciacchi: si trovava dinanzi a una cinquantenne cortigiana, sul cui letto era salita più gente nuda di quanta non ne scendesse, in quel momento, nel Jonio.

"Sì!" disse con un fil di voce. "Verrò a visitarvi."

E continuò a passeggiare finché non si imbatté in me, suo discepolo.

Lo vidi triste, mi condusse nel giardino Bellini e mi narrò l'accaduto.

Il sole trapassava l'albero, sotto il quale eravamo seduti, con violente lame di luce.

"Gli occhiali," disse il mio maestro, "hanno ucciso il mio sogno."

"Vi hanno, però, salvato da un inganno, illuminando la verità." "Ci sono due verità, caro figliolo; una del sogno e una della scienza. Quest'ultima ha sulla prima la superiorità innegabile di essere crudele e di farsi cercare, prima di rivelarsi..."

"Ma voi, perdonatemi, non sognavate in quel momento: soltanto vedevate male, creando dei malintesi fra le cose e la vostra coscienza."

"Malintesi? E non sono tutte le nostre gioie basate su dei malintesi e su degli errori? La bellezza di questo paesaggio, che digrada verso il lido, è fondata sopra un errore ottico, che mi fa vedere le cose lontane più piccole, mentre, in verità, esse non lo sono. La donna, questo divino argomento, è un malinteso. Noi non abbiamo mai potuto giudicarla serenamente. Nessuno, neppure il misogeno più accanito, l'ha contemplata con serenità scientifica. Lo sguardo, il tatto, l'olfatto, l'udito, che sono i mezzi dell'esperienza e i tentacoli del pensiero, sono stati sempre alterati dalla sensualità, nell'attimo in cui ella passava dinnanzi all'uomo."

"Maestro, voi siete molto malinconico. Ma io ringrazio Iddio, che vi ha fatto ritrovare gli occhiali."

"Io non lo ringrazio. Ho perduto per sempre una giovinetta, che avevo creato con un po’ di abbaglio solare, con un confuso ammasso di linee e con il bisogno di una bella fanciulla, che avevo nell'anima."

"Occorre che i nostri sensi siano imprecisi e deboli, perché si intensifichi la nostra vita interiore. Noi abbiamo dei sogni che cercano di concretarsi in fatti. Quando la realtà è troppo precisa, essi sono costretti a perire. E' bene, dunque, che noi siamo un po’ sordi e un po’ ciechi, per vedere e per sentire quello che vorremmo. Tutti gli inganni sono a nostro favore."

"Non per nulla, disinganno è una triste parola."

"La scienza, coi suoi strumenti che rafforzano i nostri sensi e sostituiscono le illusioni con le cognizioni, non fa che disingannarci; uccidere, cioè, la nostra vita interiore e liberare il mondo dal nostro dominio."

Il mio maestro s'era alzato e pareva torreggiare il paesaggio.

"Più nobile e più grande di colui che precisa i sensi è colui che li offusca; più umanitario di Galilei, che trovò le lenti, è il Centauro, che trovò l'inebriante succo della vite, che fa vedere doppio."

"Maestro, voi avete messo le dita in una piaga dell'umanità."

"Piaga, figliolo, vera piaga. Nei tempi, in cui ero miope e non portavo gli occhiali, vedevo sui balconi magiche figure e credevo che tutte le donne mi sorridessero. Il nostro pensiero è ottimista, quando può giudicare indipendentemente dai sensi."

"E' vero! E' vero!"

"Io veggo già un'epoca di felicità, in cui gli uomini avranno spezzato tutti gli strumenti della scienza e indebolito il loro sguardo, il loro udito, il loro olfatto. Nel crepuscolo soave di tutte le cose, nel "pianissimo" di tutte le voci, quando nulla avrà contorni e certezza, e l'anima sarà libera di vedere una fanciulla in una vecchia, il mondo diverrà sereno e pieno di incantesimi."

"O maestro, o divino maestro!"

"Ed io, come precursore dell'epoca di cui sono stato il profeta, comincio col darne l'esempio."

E spezzò gli occhiali con ira, e se ne andò pei viali, urtando contro gli alberi e calpestando il piede a un tenente di cavalleria, che poi lo attese in un luogo solitario, e lo schiaffeggiò.

Sogno di un valzer e altri racconti
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