Un bel sogno
Il treno si fermò davanti a una cattedrale, le cui colonne, imbrunite dal fumo delle locomitive, erano gremite di uccelli neri come l'inchiostro. Questi uccelli erano perfettamente immobili, e nessun fragore, sia pure inaspettato, riusciva a disegnare minimamente, nella loro compattezza, quella pennellata di colore meno denso dovuta al sollevarsi delle piume. Succedeva invece che in qualcuno dei rari momenti di silenzio, che sogliono cadere con pesantezza di ferro nei luoghi abitualmente rumorosi, due o tre di questi uccelli sollevassero nervosamente un'ala rivelando che il rovescio delle penne nere era di un rosso cardinale.
I facchini che accorsero da ogni parte per prendere le valigie indossavano un saio color cannella.
Sotto la loro guida, facemmo il giro della cattedrale, e uscimmo in una piazza cinta da un colonnato fitto come una selva. Qui salii su una carrozza trainata da due cavalli. Il facchino, quando gli domandai che cosa gli spettasse, voltò la bocca dall'altra parte con disgusto, agitando davanti a sé le mani aperte. Mi disse che non gli spettava assolutamente nulla. Lo ringraziai stupito, ed egli mi baciò la mano devotamente, spiegandomi che, in una società bene retta, la miglior ricompensa che il padrone possa dare al servitore è di lasciarsi baciare la mano. Cosa che egli continuava a fare con grande trasporto. Io respirai felice, staccai la mano dalle mani del facchino, e pregai il cocchiere di portarmi nel più elegante albergo della città.
"Degli alberghi per soli uomini," mi disse il cocchiere, "il più elegante è senz'altro l'Albergo del Pellegrino!"
Compresi che ero arrivato nella più saggia città del mondo. Gli uomini e le donne avevano alberghi separati, e le lotte sociali avevano ceduto il posto a quelle effusioni di cui il facchino mi aveva dato una prova che mi scaldava e inumidiva ancora la mano.
"Andiamo all'Albergo del Pellegrino!" dissi.
Il cocchiere alzò e agitò una frusta consistente in un manico colorato e privo di cordone a cui erano appese medaglie di ogni grandezza, e, col suono dolce e sacro che ne cavò, mise subito i cavalli al trotto.
Scendeva la sera, e mano a mano che m'inoltravo nella città, mi accorsi di due cose che mi fecero un grande piacere. La prima che le strade erano illuminate a candele, come i palazzi antichi nelle serate di gala, la seconda che tutte indistintamente portavano il nome di un santo.
Due strade, ritenute particolarmente miracolose a causa della persona a cui erano dedicate, traboccavano di folla e il cocchiere mi spiegò che gli affitti delle case circostanti erano elevatissimi. Al Comune era stata presentata un'interrogazione al Sindaco "per sapere se non credesse opportuno trasportare tutti gli ospedali e le cliniche della città nelle due strade di cui era noto a tutti che alcuni malati, passandovi in carrozzella o sorretti dai parenti, avevano riacquistato la salute" Dissi al cocchiere che io ero completamente d'accordo coi consiglieri che avevano presentato l'interrogazione, e anzi mi meravigliavo che una proposta simile non fosse stata già attuata. Il cocchiere mi rispose: "Non lo si è fatto, perché i parenti del Sindaco, e il Sindaco stesso, abitano tutti in quelle strade." Ma subito si pentì della sua malignità. "Sono un mascalzone," cominciò a borbottare, prima fra sé poi a voce sempre più alta, "sono un mascalzone, e un ingrato; perché il Sindaco è una bravissima persona, e mi ha pure beneficato! Sono un mascalzone, un mascalzone!" Le ultime parole addirittura le urlò, e i cavalli spaventati si misero al galoppo, portandomi in un baleno davanti all'Albergo del Pellegrino.
Domandai al cocchiere il prezzo della corsa, ma il brav'uomo non mi ascoltava nemmeno e andava guardando a destra e a sinistra con angoscia. Finalmente, ebbe un lampo di felicità. Passava accanto a noi un'automobile molto singolare: le ruote erano gommate, il motore aveva la forma comune a tutti i motori, ma al posto della carrozzeria c'era un casotto di legno, della forma di un confessionale. E infatti si trattava di un vero e proprio confessionale, col confessore seduto dentro, due grate e due inginocchiatoi. Al cenno disperato del cocchiere, la macchina si fermò accostandosi al marciapiede. Il cocchiere si precipitò dalla serpa e, ficcatosi dentro la nicchia del confessionale, s'inginocchiò davanti alla grata, dietro la quale immediatamente il sacerdote aprì lo sportello accostando il viso. Seppi in seguito che la città, giustamente più sollecita verso le anime che verso i corpi, disponeva di confessionali celerissimi, capaci di accorrere in ogni punto, a un richiamo telefonico. Nei casi urgenti, la macchina era fornita di una sirena che col suo suono prolungato immobilizzava il traffico, in modo che il confessore potesse attraversare come un bolide gl'incroci, i ponti e le strade affollate, senza dover rispettare le regole della circolazione. Nelle piazze principali c'erano dei veri e propri posteggi di macchine-confessionarie, che univano l'utilità pratica a quella superiore dello spirito, perché un cittadino poteva farsi trasportare nel luogo in cui doveva sbrigare i suoi affari, e nel frattempo scaricarsi di qualche peccato. Non era raro il caso che il confessore ordinasse all'autista di tornare indietro, perché il luogo in cui voleva recarsi il passeggero era quello in cui avrebbe commesso un peccato.
L'Albergo del Pellegrino, da non confondersi con l'Albergo della Pellegrina che sorge nel centro della città, era abitato da soli uomini, e anche i quadri che lo adornavano erano stati scelti in modo che non facessero pensare troppo all'altro sesso. In portineria, dovetti riempire un questionario molto minuzioso. Risposi fra l'altro a queste domande: "Ammogliato? Ha conosciuto altre donne prima delle nozze? Tiene presente la regola che basta solamente desiderare una donna che non sia la propria per commettere adulterio?"
Il portiere e il segretario mi accompagnarono poi nella mia camera che dava su un campanile, e mi lasciarono augurandomi un genere di felicità molto particolare.
Le pareti della camera erano tutte tappezzate di velluto color cioccolata, il pavimento era coperto di un tappeto che sembrava il silenzio stesso, talmente spegneva i passi e perfino le voci che vi cadevano. Sulla parete di fondo una cassetta di legno chiusa da un vetro custodiva qualcosa che dapprima mi parve un orologio poi un barometro. Ma le supposizioni erano ambedue sbagliate. Lo capii cinque minuti dopo, allorché la cassetta ronzò con dolcezza e quindi emise una voce talmente umana da sembrare un'allucinazione uditiva. "Non fornicare" disse la voce e subito si spense in un ronzio ancora più dolce.
Quando uscii dall'albergo, mi accorsi che la voce, che avevo sentito nella mia camera, veniva trasmessa per tutta la città da altoparlanti collocati in ogni strada a distanza di cinquanta metri l'uno dall'altro. "Non fornicare!" ripeteva la voce al termine di ogni ora, e la dolcezza che aveva all'aperto non era inferiore a quella che avevo già notato nella camera chiusa. Qualcuno mi spiegò che ai bambini e a tutti gl'innocenti che chiedevano cosa volesse dire "non fornicare", veniva subito risposto: "Vuol dire non avvicinarti a un forno acceso perché ti puoi bruciare!" Domandai se per tutto il giorno venisse ripetuto dalla voce un solo comandamento.
L'uomo che mi accompagnava, un giovane di venticinque anni con occhiali a stanghetta, mi spiegò: "Per tutta la settimana!"
"Dedicate una settimana a ogni comandamento?"
"No, fino ad oggi il solo comandamento a cui si siano dedicate le due settimane di ogni mese, nelle quali si fanno le trasmissioni pubbliche, è quello che ha già sentito. Un po’ perché la città è molto sensuale e ha bisogno di essere frenata da questo lato, un po’ perché non si è potuta accettare la proposta dell'opposizione di trasmettere il settimo comandamento che, come lei sa, è "non rubare!""
"E perché?"
"Prima di tutto per non darla vinta all'opposizione, e poi perché su certi peccati bisogna agire con cautela."
"Non capisco."
"Ci sono in corso opere pubbliche di grandissima importanza sociale, ma che sfortunatamente rimarrebbero interrotte se si applicasse scrupolosamente il settimo comandamento."
Mentre andavamo discorrendo, mi accorsi che qualcuno ci seguiva, fermandosi davanti alle vetrine dei negozi quando noi rallentavamo il passo, e facendo un balzo in avanti quando ci aveva lasciati dilungare.
"Non si volti," mi consigliò il giovane, "finga di non vederlo!"
"Ma chi è?"
Il giovane si fece scuro in viso: "Purtroppo anche la nostra città ha i suoi inconvenienti. Ma che cosa è perfetto in questo mondo? Come lei sa, prima dell'attuale regime ne abbiamo avuto uno di tirannide, che è durato a lungo. La tirannide formò e impiegò un numero di spie veramente incredibile. Queste persone hanno avuto un periodo di disoccupazione. Adesso vengono richiamate."
"Ma che cosa desiderano sapere, quest'informatori?" dissi io infastidito.
"Oh, non abbia paura! Essi riferiscono soltanto sulla moralità dei discorsi che si fanno! Quando lei racconterà qualche storia d'amore, prima di affrontare il punto scabroso si guardi intorno e abbassi la voce!"
Ringraziai lo sconosciuto che mi aveva fornito tante notizie, e, temendo vagamente che anche egli fosse una spia, cercai di fargli perdere le mie tracce.
A furia di allontanarmi da lui, mi ritrovai davanti alla porta dell'Albergo del Pellegrino. Erano già le otto di sera. Domandai al portiere se nelle vicinanze ci fosse un ristorante. Il portiere mi disse che tutti i locali chiudevano alle otto e mezzo, e mi consigliava di cenare in albergo.
"Non ci sono locali, non dico notturni," domandai, "ma serali?"
"La notte per noi," rispose il portiere, "comincia alle otto e mezzo, e di notte la gente deve dormire. Vedrà che anche lei si troverà bene!"
Accettai il consiglio del portiere, e cenai al refettorio dell'albergo, alla luce di alcune steariche. Alle otto e mezzo, tutte le campane e gli orologi della città suonarono, come un immenso unico carillon, una specie di ninnananna. Salendo le scale, udii gli altoparlanti trasmettere per l'ultima volta la solita voce: "Non fornicare!" seguita da un "Buona notte!" che, non si sa come, aveva l'aroma di una tazza di camomilla.
Presto anch'io fui sotto le lenzuola e mi misi ad ascoltare il silenzio. Per un'operazione simile a quella che ci fa riconoscere una strada lontana dal rumore di un tranvai, e un cortile ancora più lontano dal suono di una chitarra, e una piazza della periferia dai rintocchi di un orologio, e il cielo stesso dal ronzio di un'elica, io riconoscevo le strade della città dagli strati di silenzio più o meno densi in cui il mio udito penetrava con difficoltà nella ricerca di un minimo ronzio. Dalle strade ritenute miracolose, giungeva addirittura qualcosa come lo svenimento e l'incoscienza. E su di esse indugiai con l'udito, fino a imbevermi della loro quiete come di un etere. Ottenni subito di stordirmi il cervello e precipitare in un sonno come la morte.
L'indomani all'alba mi svegliai.
Subito corsi allo scrittoio, credendo che la mia mente avesse ricevuto da un sonno così compatto quel ristoro che da tanti anni le mancava. Spiegai un foglio bianco e intinsi la penna. Ma il sonno è padre del sonno. Mi risvegliai a mezzogiorno con la guancia sul tavolo: avevo dormito altre sei ore.