Cronache del 1909
Il signor Giovanni Scalia conobbe per un caso il signor Lorenzo Sciacca. La notte, lo Scalia, quando tutti erano andati a letto nell'unica stanza di sopra, scendeva nell'unica stanza al pianterreno ove, in mezzo ai mobili da salotto, uno specchio, due divani addossati al muro, un tavolinetto confinato in un angolo, veniva ritirato il tassì di proprietà del cognato; e acceso un lume, continuava il suo lavoro di poeta. Scriveva una tragedia di argomento classico, coi cori all'antica e orribili delitti che poi non lo facevano dormire. (Dopo il lavoro, egli dormiva entro il tassì e pronunciava di tanto in tanto a voce alta il nome di Clitennestra.)
Una notte, mentre lavorava, sentì che due persone s'erano fermate nella strada, vicino alla porta, e s'erano messe a discutere di un libro. Il discorso, strascicato e a voce alta, rintronava nella stanza. In fondo, si trattava di questo: che l'uno doveva restituire un libro all'altro; e quest'altro ribatteva che non aveva più speranza di riceverlo, se, da un anno, ogni mattina lo aspettava invano per la sera. E quello ripeteva che, questa volta, glielo avrebbe veramente restituito.
Il signor Scalia, perduta la pazienza, aprì la porta e disse ai due che non era quello il modo di parlare nel cuore della notte. Non l'avesse mai fatto! Da allora, ogni notte, per un mese intero, i due vennero alla sua porta, puntualmente all'una e trenta, e continuarono il discorso sul libro. Insieme a questi due, che sostenevano il dialogo, era tutta la "Compagnia di San Giorgio", una strana comitiva che andava per le strade reclutando attori falliti, inventori, poeti, dalle cui manie, con cure abili e accorgimenti da "maestri del cuore umano", cercava di ricavare quanto più si potesse di pazzie.
Il signor Scalia, una notte, non ne poté più e uscì gridando, in camicia, con la propria tragedia Agamennone in una mano e il bastone nell'altra. Fuori di sé, nel delirio della collera, rivelò tutto quello che i due avevano disturbato e offeso coi loro discorsi inconcludenti: la sua missione di poeta, il suo sogno di una tragedia all'antica da recitarsi nel teatro greco di Taormina, le sue sofferenze, le sue fatiche, la solitudine e povertà.
Invece di una lite, seguì una scena commovente. Il signor Lorenzo Sciacca, capo della "Compagnia", abbracciò il nobile poeta, gli disse la sua ammirazione, gli rivelò che anche i suoi amici avevano sogni d'arte. La comitiva fu ammessa nella stanza a pianterreno; ascoltò rispettosamente l'Agamennone; giurò che avrebbe compiuto ogni sforzo perché il magnifico lavoro venisse recitato nel teatro greco di Taormina.
Da allora, si misero all'opera. Il signor Sciacca era del parere che alcune parti dovessero venire affidate non ad attori di professione, sibbene a personaggi della città che avessero una figura "adatta" Quando la comitiva incontrava un tipo "adatto", senza domandarsi chi fosse, cercava con tutti i mezzi di reclutarlo. Così, si tentò di rapire anche il poeta Rapisardi. Due giovani piombarono mascherati nella camera da letto dell'on' De Felice per convincerlo che la sua vera parte era quella di Agamennone. La figlia di un farmacista, tutta presa da questo "sogno di bellezza classica", lasciò la casa paterna insieme a un attore che sposò in fretta davanti alla cappella di Sant'Agata, e si diede a provare, insieme ad altri, in una specie di catacomba scavata nei pressi del Banco di Sicilia... Ma alcuni ladri, che meditavano un colpo contro le casseforti del Banco, apparendo loro in forma di spettri, li costrinsero a sloggiare.
La "Compagnia di San Giorgio" partì per Taormina, ove del resto era tempo di recarsi, per adattare lo spettacolo alle misure del teatro greco. Provò di notte, fra le vecchie pietre, al lume di una sola fiaccola che diede alle scene un aspetto terrificante. Si convenne che mancava una bella e disinvolta ragazza che facesse la parte della dea Venere.
I primi giorni a Taormina furono difficili. La "Compagnia", per guadagnarsi da vivere, fu costretta a cantare nei caffè, dalle cinque alle otto del pomeriggio, canzoni siciliane. Il signor Scalia, del tutto inadatto a questo ufficio, andava per la strada e i corridoi degli alberghi, ove in verità veniva ammesso con molta diffidenza. Non era ancora vecchio; il suo sogno di poeta stava per avverarsi; e non era insensibile alla bellezza femminile, di cui s'innamorava in una forma rovinosa, segreta e timidissima.
Un pomeriggio, a Taormina, capitò nel salone dell'Albergo San Domenico, ove gruppi di giovani catanesi, arrivati con macchine velocissime, fingevano di parlare, bere, giocare, pensare ad altro, ma in realtà si muovevano insensibilmente, spostando le poltrone in cui erano seduti, in modo da avvicinarsi in cerchio a una signora forestiera di cui evidentemente la fama correva da parecchi giorni. Vecchie signore danesi e professori tedeschi col colletto duro e la giacca estiva, disseminati nelle poltrone, assistevano senza capire. La forestiera si mostrava svogliata e distratta.
Solo l'ingresso del signor Scalia, coi pantaloni rimboccati, il collo magro e gli occhi azzurri, suscitò in lei una certa attenzione. Il signor Scalia andò a sedere davanti a un tavolinetto, e si diede subito a scrivere appunti. E poiché l'attenzione della forestiera era visibilmente rivolta su di lui, i giovanotti cominciarono a odiarlo. Fingendo di tirarsi delle sedie in seguito a un diverbio, cercarono di colpirlo; ma la forestiera fece intervenire i camerieri che scacciarono con le buone i giovanotti.
Il signor Scalia rimase solo nel salone pieno di poltrone, divani e tavolinetti. La forestiera passava pigramente dall'uno all'altro balcone, grandi tutti come porte di chiese, e guardava il paesaggio. Finalmente si avvicinò al poeta, che cominciò a battere pian piano i denti. La forestiera si chiamava Elvira; soffriva di uno strano dolore allo stomaco, nelle sere di luna; adorava l'arte; e aveva una gran voglia di assistere alle prove notturne nel teatro greco...
Poche ore dopo infatti, Elvira, avvolta in un mantello di velluto nero, sedeva tutta sola sulle gradinate dell'anfiteatro, e assisteva alla recita. Il signor Scalia, sdraiato con la testa sopra un sasso antico, perché già prostrato dall'amore, mormorava al signor Sciacca di pregare Iddio perché la forestiera si degnasse di assumere la parte di Venere.
E Dio non fu pregato invano dal signor Sciacca. L'indomani, Elvira lanciava nell'aria della notte la sua voce di dea. Seguirono giorni deliziosi e terribili per il poeta Scalia: passeggiate in due per i giardini dell'albergo, sogni di trionfi poetici, complimenti da parte del sindaco.
Ma quando le prove furono terminate, giunse a Taormina, preceduto dalla banda, il sottosegretario all'Istruzione Pubblica, che era poi il marito di Elvira. In una camera dell'Albergo San Domenico, ignorando che, prolungati dai binocoli, arrivavano, dagli alberi del giardino, sguardi di giovanotti catanesi e messinesi, Elvira gettò la maschera: aveva conosciuto un pazzo, raccontò al marito, aveva anche recitato; che egli assistesse, quella notte, a una prova.
Il marito assistette alla prova, ma invece di ridere dello spettacolo, fu preso da un solenne sogno d'arte. Egli curvò la testa sulle mani: in quella testa, così curvata, nasceva la prima idea delle recite classiche nei teatri antichi di Sicilia.
Lentamente, con un giuoco perfido e insensibile, il sottosegretario all'Istruzione Pubblica sostituì al dramma del signor Scalia l'Agamennone di Eschilo. Attori nuovi, con la scusa di aggiungersi ai filodrammatici, ne prendevano il posto. Ai soliloqui del signor Scalia, sotto specie di aggiunte e correzioni, succedevano i soliloqui di Eschilo. Una folla singolare di traduttori, attori e musicisti circondava la brigata catanese, che, pur entrando in uno stato di disagio, non si rendeva conto di quel che avveniva. Il signor Scalia era il più illuso di tutti: gli riusciva impossibile immaginare la perfidia nella persona di Elvira.
Ma d'un tratto i sospetti divennero certezza: un giornale di Messina pubblicò l'annunzio che, fra sette giorni, si sarebbe recitato l'Agamennone di Eschilo, con nomi di attori che non somigliavano in nulla ai nomi della brigata catanese. Si tentò di convincere il signor Scalia che il nome di Eschilo sarebbe servito come pseudonimo al posto di Scalia. Egli si convinse debolmente: ma i suoi amici caddero in uno stato di tale prostrazione che, la sera, recitando in un caffè la parte dei maffiosi che rissano, scoppiarono a piangere come bambini.
L'indomani arrivò la carovana degli "intellettuali europei" Le università mandarono comitive di professori.
La sera della recita, col favore del plenilunio, una folla elegante si mosse a piedi verso il teatro greco. Si mosse anche il signor Scalia, con un abito scuro e la morte nel cuore. Ma all'ingresso, fu respinto. (I suoi amici erano stati arrestati il giorno avanti, per paura che provocassero incidenti.) Solo, con un bastoncino, scese per la strada che porta da Taormina a Mazzarò, fra i giardini delle ville, ove le cameriere parlavano a voce alta dell'Agamennone. Giunto alla spiaggia di Mazzarò, si tolse le scarpe e si sdraiò sulla spiaggia. Una donna prendeva il bagno, completamente nuda. Scalia per un momento credette che fosse Elvira, in preda al dolore di stomaco che le dava il plenilunio. Ma uscita dal mare, la donna, prima di vestirsi, prese dal mucchio degli abiti gli occhiali a stanghetta, e li inforcò lentamente: era una vecchia americana.
Scalia, cedendo alla debolezza si sdraiò supino sulla sabbia. E in quella specie di carcassa abbandonata nel deserto, respirò pesantemente per molte ore il primo ideatore degli spettacoli classici nei teatri antichi. Il suo nome sarebbe stato per sempre ignorato.