Due dialoghi
Il grasso signor Bereni, caporedattore del giornale, si divertiva un mondo ai violenti alterchi del giovane scrittore Mario Teni col giovane redattore di terza pagina, Francesco Delluri. Sedeva al tavolo grande, vi allungava sopra le braccia, sotto le gambe, e dava con gli occhi il segnale dell'inizio. Ma egli era poi il solo, fra tutti coloro che ascoltavano, a sapere che quei due s'insultavano con sincerità, ma senza odio.
"Tu sembri un sacco rovesciato!" diceva Mario Teni. "Le parole ti cadono in bocca come capita... Fatti un ordine, una disciplina: sii mediocre, ma preciso!"
"Tu, tu parli di precisione? Lo scrittore più approssimativo che esista? Le ho lette, le tue novelle, mio caro... Una non era pessima. Ma, Dio mio, non vorrai negare che i tuoi dialoghi siano o realistici in modo indecente o approssimativi... Mai, dunque, precisione! Tu dovresti cominciare con l'attribuire alle cose il loro vero nome; sapere il valore che hanno le parole: tavolino, carta..."
"Ma codeste sono frottole, e di seconda mano. Tra l'altro hai il vizio di ripetere quello che vai leggendo nei giornali umoristici... Tu e i tuoi amici, per giustificare le mezze giornate che trascorrete nei caffè, avete inventato una coscienza artistica, non so che onestà, per la quale siete costretti a scrivere poco, a scrivere cose brevi. Ma, tutto sommato, non siete che dei cialtroni... Mi vuoi spiegare, adesso, in che consiste il tuo lavoro?"
"Il mio lavoro è molto semplice: io sono un cronista, niente altro che un cronista..."
"Però, lasci capire, con molta abilità, che sei un artista, forse un grande scrittore, rovinato dalla discrezione e dal disordine della vita. Sei un falsario, mio caro! Vivi con delle monete false. Tutti hanno in tasca delle cambiali sul tuo ingegno."
"Che immagini! Che chic! E' così che scrivi centinaia di pagine? Ti assicuro che è molto facile andare avanti in questo modo. Senti: io non sono che un cronista, ma ho il senso del bene e del male. E devi credermi se ti dico che sei uno dei soliti casi della letteratura di oggi: un caso di mediocrità che si è aggravato in tal modo da sembrare un fenomeno eccezionale, un fenomeno-prodige."
"Quello che dici è ripugnante, sciocco, vuoto. Ma non mi meraviglia affatto. Tu sei l'ultimo discendente di quei poetini da un verso l'anno e una pagina in tutta la vita; di quella gente che non aveva nulla da fare e dire; tant'è vero che sono morti prima dei quarant'anni. E che Iddio li benedica."
"Eccolo l'artista umano, di cuore! Si parla così, dunque, di gente che ha riconosciuto che aveva poco da dire ed è morta in pace, prima dei quarant'anni?"
"Mi vuoi far capire ch'è morta per un senso di responsabilità? Ma sei un pulcinella, mio caro! Dunque, aspettiamo da un momento all'altro le tue dimissioni dalla carica di un uomo vivo."
"Forse aspetterai a lungo. Perché io ho qualche cosa da fare, piccola, limitata, ma vera: il cronista. Il mondo ha bisogno di un cronista, come di una formica; ma ne ha bisogno... Tu, piuttosto, sei un cadavere che si muove; un cadavere allegro, un cadavere sfrontato... Basterà che qualcuno, passando, ti abbassi le palpebre e ti aggiusti la bocca, perché tu ti riveli per quello che sei: un morto."
Il grasso Bereni alzò la bocca verso il soffitto e sbadigliò.
"Volete vedere," disse poi, "che la morte diverrà la prova del fuoco della giovane letteratura? Che scapestrati, per Dio!"
"Ad ogni modo," gridò il piccolo redattore politico, che portava sempre una fascia al collo e fra poco, con l'avvicinarsi della primavera, sarebbe partito per Davos, "vedremo chi di loro morirà prima dei quarant'anni. Noi siamo qui, per vedere."
Non morirono: invecchiarono tutti e due, Mario Teni e Francesco Delluri. E - come accade a chi invecchia - nello stesso giorno e nella stessa ora, dopo anni in cui ciascuno era andato per conto suo, si trovarono nello stesso luogo di riposo. Mario Teni era seduto al balcone di una piccola casa infiorata, dalla quale, cinque minuti prima, i due grandi alberghi monumentali, che le stavano accanto, avevano ritirato la loro ombra. "E' tramontato il sole!" pensava egli, ormai nudo di aggettivi, come un albero che ha perduto le foglie. Questa sua povertà era stata notata anche dal piccolo Ninì, il figlio della figlia. "O padre di mia madre," diceva quell'omino da un soldo, col suo parlare biblico, "com'è questo mare?" "Va bene, Ninì," rispondeva egli. "Ma com'è: bello o brutto?" Ed egli, fingendo di seguire il piccino nello scherzo, ma in realtà impaurito anche da un aggettivo così ingenuo, mormorava: "Non lo so."
Adesso Ninì stava, con la madre, nel balcone che dava sull'altro versante. Ed egli sedeva solo, con la giacca sbottonata sul petto nudo, dinnanzi a un mare, a un cielo, a dei colli, a dei giardini, ai quali si contentava di attribuire le qualità della reclame: luoghi deliziosi, aria balsamica, vista meravigliosa. Erano, almeno, qualità che risultavano nei conti degli alberghi e dei caffè, e avevano un costo, dunque una precisione.
Ed ecco che, nella piazza sottostante, con una camicia alla robespierre, testa nuda, alto, le mani dietro la schiena, si ferma un vecchio signore: è Francesco Delluri!
Né gioia, né meraviglia, né disagio nel cuore dei due che si rivedono dopo tanto tempo. La vecchiezza ha ridotto le emozioni di questi incontri a un interesse, molto tranquillo, per il modo con cui il coetaneo porta gli anni.
"Stai bene, dottore?" dice, dal basso, Francesco Delluri.
"Bene."
"Da quanto tempo sei qui?"
"Da un giorno."
"Sali, dottore!"
Si chiamano l'un l'altro: dottore, e poco dopo sono seduti accanto, con le mani sulla ringhiera del balcone.
Già nella piazzetta c'è ombra; e i fari non si accenderanno prima delle otto. Passa qualche straniero; Ninì ride nell'altro balcone; e le stelle che nascono agli stessi punti del cielo di primavera, ma assai diverse da ieri, con una diversità che non sfugge a questi due vecchi lupi della contemplazione, dicono che la breve vita è al suo termine.
"Mio caro," mormora Teni, appoggiando una mano sul ginocchio dell'amico, "non scriverò più nulla. Finalmente, ho scontato la mia pena: ho finito. Sono un uomo come gli altri."
"Va là, va là, vecchia volpe! Non mi fare il malinconico a buon mercato! Hai scritto da riempire una biblioteca."
"Sì, sì, ho scritto, ho lavorato molto, ma adesso che ho posato la penna e rileggo i miei libri, da semplice lettore, da lettore che non scriverà più; adesso è molto penoso, caro dottore!"
"Penoso, perché?"
"Nella fretta, o nel gran piacere di scrivere, m'è sfuggita una nota alta, volgare, stonata. E non me ne sono mai accorto. L'ho sentita adesso, rileggendo il mio primo libro. Speravo che, nel secondo, fosse sparita, o almeno, attenuata... Per nulla! L'ho trovata nel secondo come nel primo, e nel terzo come nel secondo e nell'ultimo, nell'ultimo, in quello che ho pubblicato due anni fa... Già, a pensarci, non è nemmeno una nota: è un rantolo, un rantolo odioso che compromette tutta la mia opera dinanzi all'Eternità."
"Ma se nessuno l'ha mai notato? I libri di critica, che escono a due l'anno su di te, parlano della tua onestà, della tua purezza di artista, della tua umanità..."
"Oh, lo so! Quelli non si accorgeranno mai di un difetto così essenziale."
"E allora? Temi i posteri?"
"No, per carità! I posteri sono dei veri innocenti. Ed io credo che un equivoco di oggi possa continuare, indisturbato, nei secoli. Sarà possibile che di questa paurosa stonatura, che è in fondo alla mia opera, non si accorgerà mai nessuno... Ma c'è qualche cosa, dinnanzi alla quale io mi sento ridicolo e colpevole. Io non so bene che sia, ma la chiamo, così: l'Eternità. Ti invidio, caro dottore."
"Me, me invidii?" e il vecchio Delluri ebbe una smorfia singolare, in cui mostrò che voleva ridere e che aveva pochi denti.
"Sì, la tua opera è breve: entra tutta in un volume; ma è pura, è pura..."
"Vuoi divertirti alle mie spalle, volpe antica? Opera, la chiami quella lì? Ah, ah, opera! Quella, caro dottore, non è che esercitazione letteraria, giuoco freddo, vigliaccheria, e basta! Io sono un esteta: e te lo vorrei dire a bassa voce, ora che siamo vecchi. Così come si dice: Io sono un ladro!"
"Esteta, esteta: va bene anche così... La Bellezza, la precisione..."
"Che precisione; non mi far crepare dalle risa! Io sono stato preciso nel tenermi lontano dall'arte... Eccola, l'Arte dov'è." E chinatosi a terra, il vecchio Delluri raccolse da un vaso decrepito un pugno di polvere. "Qui è l'Arte, nella polvere, nella banalità. La sua scintilla bisogna cercarla qui. Io avevo le mani troppo curate per farlo."
"Occhio per occhio, dente per dente, caro dottore! A questo punto, io devo dirti quello che tu hai detto a me..."
"La critica mi elogia come un poeta limpido ed efficace, lo so. Ma questa volta le tue parole, che un giorno mi sarebbero parse volgari e roboanti, sui posteri e l'Eternità, mi sono piaciute."
Qui cadde una pausa.
"E tua figlia?" domandò Teni.
"E' morta, cinque anni fa. In che mondo vivi? Mi hai scritto una lettera in quell'occasione."
Il vecchio Teni curvò il capo fra le mani: "Il mio cervello va male, caro dottore! Io dimentico i nomi degli amici e confondo i morti coi vivi."
I due trascorsero una buona mezz'ora ad esaminarsi l'un l'altro la memoria, qualche volta con effetti divertenti, qualche altra con effetti assai tristi, quasi lugubri. Non era, infatti, piacevole, dopo avere scambiato il nome di Maria con quello di Tullio, e Valencia con la febbre spagnuola, accorgersi che Tullio fu un piccolo bambino, figlio della figlia di Delluri, un piccolo bambino biondo morto nella epidemia del '18. Quando Delluri si alzò per andarsene, il vecchio Teni lo guardò negli occhi.
"So che vuoi dirmi," fece Delluri. "Che non bisogna comunicare a nessuno quello che ci siamo confessati oggi. Hai ragione! Una certa complicità ci vuole. Se noi non diremo niente, essi non si accorgeranno di niente. Ce la caveremo splendidamente, in saecula saeculorum. Addio. Un giorno, tutto questo mi avrebbe fatto schifo."
Teni accompagnò l'amico fin sulla scala. Poi tornò al balcone; e lo vide attraversare la piazza, alto, bianco, dritto. Allora, tolse dal taschino il suo vecchio quaderno di appunti e scrisse per l'ultima volta un pensiero: "La vecchiezza è immorale"