Due nuvolette

 

 

Vuole, il direttore del film, che la natura serva ai suoi scopi artistici, e "faccia anche lei il suo dovere di comparsa" E siccome è un uomo di fantasia, al quale non difetta la violenza, egli tira fuori dalla tasca una manciata di soldi e li butta nell'aria. Ecco, così, pagata la natura: che faccia adesso il suo dovere!

Le duemila e cinquecento comparse, che sono allineate nella valle, in divisa di soldati borbonici e poggiate a grossi archibugi, non possono non ammirare il gesto del direttore. Infantili sorrisi e cenni servili delle labbra muoiono sotto gli enormi baffi, che il vento agita come piccole code di cavalli.

Fra poco, in quella vallata, si svolgerà la scena culminante del film: un soldato borbonico sarà fucilato per diserzione, sotto gli occhi dell'esercito. La scena non durerà più di sei minuti; ma tutte le forze dello spettacolo sono state concentrate in questo episodio.

Intanto sono le nove del mattino, e il sole non è più quel leggero tocco di rosa che, era, per le guance e le nuche, alle sette. Lo squadrone di cavalleria che, al primo mattino, si muoveva come un cavallone fra continui impennamenti, ora è fermo; e si ha l'impressione che, sui grossi cavalli, i piccoli cavalieri siano sudati.

Cosa si aspetta, infatti, per girare questo episodio culminante? Le duemila e cinquecento comparse sono allineate; la macchina da ripresa è piazzata; l'apparecchio sonoro scende da un arco altissimo, come un orecchio d'uomo scivolato giù per un filo. Tutto è pronto; tutto è preciso; tutto vuole partorire l'episodio culminante. Cosa si aspetta, dunque?

Si aspetta che le due piccole nubi, accovacciate a tramontana, salgano il cielo e raggiungano lo zenit. Ivi serviranno da sfondo alla scena della fucilazione. Il direttore le vede già, come una fumata misteriosa sulle lancie dei cavalieri. E non sa, d'altro canto, vedere la scena senza quelle due nuvole.

"Un cielo completamente deserto inghiotte le figure!" grida egli. "Sciupa, stanca, ammazza tutto. Del resto, io ho fatto i miei calcoli: data la velocità e la direzione del vento, quelle due nuvole saranno fra un'ora al loro posto... La natura deve servirci! Io l'ho pagata per questo: mi siete testimoni."

Un grido unanime si leva dai petti dei soldati borbonici. L'aiuto direttore, il professor Cerutti, che insegna matematica al liceo, si fa scuro in faccia, perché prevede che a Roma si tornerà dopo le due pomeridiane; la prima attrice, che in questo episodio non ha parte, ma che è venuta "soltanto per vedere", volge sul direttore uno sguardo di severa ammirazione, come se stentasse a perdonargli di essere un genio.

 

Ed ora lasciamo la terra e osserviamo il cielo. Cosa accade in questo spazio purissimo, ove si incrociano gli sguardi delle duemila e cinquecento comparse e un cannocchiale prolunga, rafforzata e trionfatrice, l'attenzione del direttore? Una maestà senza pari, un senso di fiducia eterna tiene immobile l'azzurro. Soltanto la stanchezza di tanta luce fa che gli occhi vedano dei corpuscoli, neri come formiche, brulicare nell'infinito; ma, in realtà, nulla turba la compatta immobilità del cielo, ove i millenni, se dovessero d'un tratto prendere forma, sarebbero come una miriade di violette.

Le due nuvole, accovacciate all'orlo dell'orizzonte, si sono addormentate per sempre. L'azzurro, che devono salire per raggiungere lo zenit, è ripido e deserto. E il vento pare un accidente che riguardi soltanto la terra.

Gli occhi delle duemila e cinquecento comparse errano in alto, senza lasciare alcuna traccia. Un vero esercito di sguardi sprofonda nell'infinito e si perde. Qualche volta, però, si ha anche l'impressione che gli ondeggiamenti della luce lascino qua e là scoperta una stella, e subito la ricoprano. In questo caso, il merito di avere "lavorato" il cielo di mezzogiorno così da farlo trasparire su quello di mezzanotte, non può che attribuirsi al direttore; primo: perché egli è fornito di cannocchiale, strumento che rende, come dice lui, lo sguardo roditore; secondo: perché egli ha sulla natura quei poteri che sappiamo.

 

Sono le tre del pomeriggio. I soldati borbonici non hanno fatto colazione e sbadigliano amaramente; un ufficiale ha chiesto e ottenuto per l'esercito la doppia paga. I cavalli prolungano il collo fino a terra, ed i cavalieri vengono di volta in volta invitati a far tornare le loro bestie nella forma in cui tutti hanno visto e pensato un cavallo. Ma i cavalieri, schiacciati dagli elmi come da piccole torri, hanno appena la forza di rispondere sì agli ordini diramati dal direttore.

Questi non ha ancora lasciato il suo cannocchiale; e agli increduli che denunziano l'immobilità delle due nuvolette, risponde, con un sorriso diabolico, che la natura "dovrà fare il suo dovere!" Non c'è verso di smuoverlo, non c'è modo di convincerlo. Il professor Cerutti esaurisce tutta la sua eloquenza per dimostrare che quelle due nuvolette non arriveranno prima del tramonto. Il direttore preferirebbe oramai riprendere una pura e semplice scena di nuvole che una scena di fucilazione senza quelle due nuvole.

La macchina da ripresa è stata spostata per seguire il sole; l'esercito borbonico ha dovuto fare una marcia, per rimettersi con la faccia alla luce; e i cavalli, svegliati dall'aria del vespero, nitriscono facendo dei volteggi.

D'un tratto, quando l'attenzione s'è allentata e non si pensa più alla prossima scena, le due nuvole, portate da un vento misterioso, si trovano proprio sulle lancie dei cavalieri. Urli di gioia; suono di trombe e di sirene; i megafoni annunziano che si gira; gli operatori saltano da terra; l'attrice si sveglia; e il direttore, con una serenità di grande eleganza, come se davvero quelle due nuvole fossero venute per lui, colloca il disertore che deve essere giustiziato e il plotone di esecuzione. Le due nuvole, basse come un tetto, pare stiano anch'esse posando.

E' a questo punto che il professor Cerutti dice qualche parola all'orecchio di un operatore, e questi all'orecchio di un operaio, e questi all'orecchio di un attore.

"Che c'è?" grida il direttore; ma anche lui, guardando le due nuvole, non può non vedervi una forma geometrica di gusto assai dubbio: un disegno da ragazzi maleducati, un'allusione, un'offesa...

Tutto l'esercito borbonico si volge a guardare, ma non comprende. Soltanto poco dopo, essendosi sparsa la voce di quel sospetto, l'allusione sembra assai chiara; tutti vedono distintamente il disegno.

"Che si aspetti! Fermi tutti!" grida il direttore. Ma la figura celeste si precisa sempre più; e il sole tramonta.

"Si torna a Roma!" grida allora un megafono.

L'esercito borbonico si rimette pesantemente in marcia. Il direttore, con le braccia dietro la schiena, segue a piedi la ritirata.

Sogno di un valzer e altri racconti
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