I due paraninfi
Dieci anni fa, una sera d'estate, Lia tornò da un collegio di Firenze, ove aveva compiuto la sua educazione imparando il francese e l'inglese, il ballo e il ricamo, il piano e le preghiere.
Il padre, dal modo com'ella scese dal calesse e gridò papà, e alzò il braccio guantato, capì che tutto quanto egli stimava di più al mondo, cultura, belle maniere, grazia, vivacità, prontezza, era andato a rifugiarsi nella persona ch'egli amava di più al mondo. Subito, il suo pensiero rispose no! a cinque o sei giovanotti che gli avevano chiesto la mano della figliuola. Nessuno di quei cinque era degno di lei! Ci voleva ben altro!
Appoggiata al braccio del padre e a quello della madre, con una stanchezza anch'essa "adorabile", Lia salì le scale, dicendo cose graziose al portinaio, alla cameriera, al cane, e perfino ai nuovi mobili che uno zio scapolo aveva lasciato in eredità. Entrata nel salotto, Lia si guardò allo specchio con un sorriso stranamente ironico, quasi a lei sola riuscisse facile scherzare su tanta grazia e bellezza. Ma come una lampada, che riceva nuova luce dal proprio riflesso, Lia, davanti allo specchio, parve dorarsi, scintillare, e alla fine velarsi di una sottile ombra turchina. Assistendo a queste vicende di "luce e armonia", il padre respinse col pensiero altri cinque pretendenti. Adesso coloro, a cui il vecchio ingegnere diceva mentalmente no!, erano nobili, ricchi, e due di essi anche colti.
Ma quando Lia, sdraiata sopra un divano, confidò che, in collegio, era diventata amica della principessa ereditaria di Spal, il padre non riuscì a trattenere con le dita il tagliacarte con cui si baloccava. "Vedrai - disse, dopo un minuto, cercando di riprendersi e augurandosi con tutto il cuore di avere torto - che la signorina principessa dimenticherà presto la signorina figlia dell'ingegnere!"
La prima sera, Lia andò a letto presto: in seguito, padre e madre si abituarono a sentirla, nel cuore della notte, voltare la pagina di un libro e respirare fortemente. I segni di lei s'impressero in tutta la casa: come quando in un branco di piccoli animali irsuti arriva un pettine o una mano che li accarezzi nel giusto verso, i due gatti Soria e Lamento, il cane Napoleone, i verdoni Rosario e Celeste cominciarono ad ingrassare, a cantare, a dare nell'occhio per le loro forme. Alcuni piccoli mobili, trascurati per l'innanzi, risposero alle cure di Lia con una sorta di lucentezza che somigliava ora a un lampo d'occhi ora a un gaio sorriso. Già ai balconi di case lontane si affacciavano punti neri di giovanotti; ed era noto in città che i figli del barone Randazzo e del cavaliere Lucania avevano acquistato due grossi binocoli, due veri spazzacampagna, per avvicinarsi il più possibile a Lia.
La casa parve piena di sguardi di giovanotti: padre e madre camminavano impacciati per le stanze, rovesciando sgabelli e inciampando nei tappeti: Lia raddoppiò le tendine ai balconi e alle finestre. La casa cadde allora in una penombra azzurrognola, entro cui navigavano quelle forme di leoni, angeli e palmizi ch'eran ricamate nelle tende di Cabessa.
L'ingegnere non vedeva di malocchio né il figlio del barone né il figlio del cavaliere; eran tutti e due abbastanza giovani e ricchi, e poco li menomava l'unico torto di ricordare troppo spesso episodi di viaggi ad Abbazia e a San Remo. Egli tornò a chiudere la porta sorridendo, la volta che sorprese Lia, dietro il balcone, mettere l'occhio in un punto a giorno della tendina e guardare, così riparata, verso quei due giovanotti che andavano aggiustando i loro cannocchiali.
Ma il caso volle che, quando il barone salì sulle scale per chiedere la mano di Lia, fosse già arrivata, da tre ore, una lettera della principessa ereditaria di Spal. La lettera, lunga e affettuosa, ballava nella mano sinistra dell'ingegnere che, con la destra, si ravviava i capelli, in un gesto, ch'era di meraviglia e gioia, ma pareva quasi di disperazione. L'ingegnere non seppe dire subito sì alla richiesta del barone; la lettera della principessa gli scottava la mano, e gli consigliava di trattare con molta cautela il destino di Lia. Il barone se l'ebbe a male, e parlò stranamente di questo rifiuto, al Circolo dei Nobili. L'ingegnere si irritò e, quasi per vendicarsi, rispose subito no al cavaliere che, due giorni dopo, ripeteva per il proprio figliuolo la gentile domanda del barone. L'ingegnere aggiunse che "in quel paese" non c'era un giovanotto degno di Lia! Queste parole, ripetute e riferite in ogni dove, imbrogliarono le cose. I forestieri, i funzionari di prefettura e di questura, si sentirono incoraggiati a farsi avanti. Il telefono portò voci misteriose di milanesi e di toscani che chiedevano della signorina, e, quando Lia rispondeva per caso al telefono, dicevano in fretta complicati elogi alla bellezza, alla cultura e all'educazione che s'impartisce nei collegi di Firenze. Lia si divertiva un mondo, e riferiva tutte le frasi, che gli uomini le rivolgevano, alla principessa ereditaria di Spal. Sua Altezza Reale rispondeva, ogni volta, con lunghe e affettuose lettere, che andavano a porsi l'una sull'altra nel cassetto di un mobile antico, collocato in un angolo del salotto. Fu tirando quel cassetto, e guardando in quei fogli coperti di scrittura, che il padre si sentì irresistibilmente portato a dir no a tutti coloro, che, dopo il barone e il cavaliere, domandarono la mano di Lia per i loro figliuoli o per se stessi.
Così passarono alcuni anni, fra questi no e queste lettere. Il viso di Lia continuò a rilucere, al barlume verde della lampada quand'essa leggeva un romanzo consigliato dalla principessa, o in mezzo al vapore dell'acqua calda quando serviva il caffè alle amiche. Un giorno, la principessa comunicò che avrebbe sposato un principe dell'Europa orientale; tre giorni dopo, la notizia apparve sui giornali; e tre mesi dopo, la "Lettura" fu piena d'immagini della principessa in abito da sposa, del principe che sorrideva alla folla, di cortei, palazzi e interni di templi.
Con la rivista in mano, Lia fissò a lungo la strada deserta, ove il più modesto dei suoi pretendenti s'era fermato a guardare, con l'occhio privo di speranza di chi pensa al proprio passato, verso il punto in cui stava lei, riparata dalle tendine di Cabessa.
Dieci anni fa... Una sera d'estate...
Lia tamburella con le dita sui vetri del balcone. La luna nuova scintilla, con la chiara e debole luce di una stella, sul mucchio scuro del paese. Dieci anni: una giornata! I gatti Soria e Lamento, i verdoni Rosario e Celeste, e il cane Napoleone sono morti, poiché la vita degli animali è meno lunga di quello che Lia chiama una giornata. Altri cani e gatti si aggirano sui tappeti della casa, nella tenebra delle stanze in cui nessuno ha ancora girato il tasto della luce. Lia ha trent'anni; e ogni volta che ripete mentalmente queste due parole: trent'anni, le sembra che il destino, cortese come un nobile cavaliere alla fine di un ballo, le metta sulle spalle accaldate un manto gelido come la neve.
Dal giorno in cui la principessa mandò l'ultima lettera, a questo in cui Lia nuota, con le caviglie assottigliate entro scarpine dal tacco basso, son passati sei anni. Per tutto questo tempo, le proposte di matrimonio hanno taciuto.
Lia manda lo sguardo verso le finestre e i balconi illuminati. Conosce bene quale riquadro rosso corrisponda a un giovanotto da marito e quale a un vedovo con due figli. Fra quelle pietre nere, ancora abitate da scapoli, si aggirano due piccoli vecchi in giacchetta di fustagno, che parlano di lei. Il caso ha fatto sì ch'ella ascoltasse, non veduta, uno di questi discorsi. Il vecchio aveva condotto nell'angolo più riparato del salotto da ballo un grosso signore, e gli diceva a bassa voce: "Una signorina da leccarsi le unghie... Le regine le danno del tu... Buona, casalinga, modesta, una donna non una bambina... E voi, cavaliere, non siete più un ragazzo! Le galline vi hanno camminato sugli occhi! Avete quarant'anni, passati forse. Fra poco, ne avrete cinquanta. L'uomo cinquantenne noi diciamo: cinquantino, lascia la donna e piglia il vino! Che farete, cavaliere? Vi metterete a bere, solo solo, nella vostra casa di scapolo? E se cadrete sotto il tavolo, chi vi alzerà e porterà sul letto? Forse la cameriera? Eh, quella, signor mio, penserà anche lei a far ballare il mento! S'invecchia, cavaliere! E poi, quando si muore..." "Ma siete lugubre!" rispondeva l'uomo grasso. "Tocco ferro!"
Inutilmente l'ingegnere ha minacciato questi due vecchi di arresto, confino, bastonate, se continueranno a parlare in tal modo della figlia! Quei due piccoli pazzi si son messi in testa che sposeranno Lia con un "buon partito" I loro discorsi, da quello che si sa, diventano sempre più violenti e irritati. E a quell'ora, essi parlano di lei, chissà dove e con chi, e pretendono ch'ella venga sposata subito, in nome della Vecchiezza, della Solitudine e della Morte.