Postilla & ringraziamenti

L’adolescenza assomiglia, con il passare del tempo, a un cane che abbaia nella direzione del padrone che s’allontana nel tentativo di abbandonarlo ma poi non ha cuore di lasciarlo e torna indietro, sempre. E c’è la volta che sembra quasi fatta, ma il segugio ritrova la strada e s’accuccia davanti alla porta di casa ad aspettare che il padrone esca di nuovo, perché lui, il cane, possa rientrare in silenzio e occupare il posto che gli spetta: fare la guardia ai ricordi dell’età che segna la fine dell’inconsapevolezza. Età drammatica ed esaltante, di ricordi dolci e amari, con le credenziali della verità delle “prime volte”, i connotati di giorni e notti in cui un amore, un dolore fanno tremare la carne e la incidono a fondo. Per questo, dopo anni, amo ripercorrere le strade di questa storia, e a ogni passaggio qualcosa di più chiaro emerge dal porto sepolto dei ricordi, a cui quel cane fa la guardia.

Anni fa qualcuno mi raccontò di un uomo. Quando doveva risolvere qualcosa di difficile andava in un punto preciso del bosco, accendeva un fuoco, recitava le preghiere rituali a Dio e i suoi desideri si realizzavano. Il suo segreto a poco a poco si perse. Una generazione dopo, un altro uomo si recò in quel luogo, non sapeva più accendere il fuoco, ma ricordava le preghiere. E tutto andò secondo i suoi desideri. Una generazione dopo, un altro uomo dimenticò anche le parole delle preghiere, ma bastava trovarsi nel luogo giusto. E infatti i suoi desideri si realizzarono. Poi venne dimenticato anche il posto.

A Palermo il posto custodito dal cane fedele ai ricordi è per me lo Spasimo, una chiesa abbandonata e a cielo aperto, nei pressi della Cala. Costruita su quel confine tra mare e terra dove bambini e padri innalzano torri di sabbia, a difesa dei loro sogni. Lì restano le pareti dello Spasimo, come se un’ondata l’avesse quasi strappato alla città. Tra queste mura metà di luce e metà d’ombra, sotto un cielo ritagliato in comici di pietra gialla come oro, volte e archi si aprono su un purissimo azzurro. Quando non so più accendere il fuoco o non ricordo le parole delle preghiere, ho bisogno del posto giusto per evocarli.

Qui ho trovato la risposta che molti cercano: luogo e data di nascita della mafia sono qui.

Ed è tutta colpa di Raffaello.

Egli dipinse un quadro i cui colori somigliano a smalti di luce e i corpi sono statue greche un attimo prima di prendere il volo nella bellezza assoluta. Eppure è un quadro di tenebre. Cristo e Maria hanno volti apollinei contratti in un dolore dionisiaco. Come ogni uomo e ogni donna chiedono: perché? Non sembrano saperne più degli altri uomini e delle altre donne. Non hanno magie da fare. Cristo si dirige sul Monte dei Teschi schiacciato dalla Croce: ha l’inferno sulle spalle, levigato ad arte da uomini capaci di raffinata razionalità quando il fine sono la guerra o la tortura. Lo aspetta l’inferno ligneo della crocifissione. Un soldato lo minaccia con una lancia e un altro lo trascina con una corda. È immerso nell’inferno degli uomini e piange sul loro inferno. Soltanto un altro uomo lo aiuta, uno passato lì per caso, il Cireneo, con quel poco di pietà che resta agli ignari non conniventi con lo spettacolo. Cristo passa e ovunque ha bisogno di cirenei, fosse anche solo per qualche metro di strada. La madre piange il figlio. Il figlio piange perché, come ogni uomo, non tollera il dolore della madre che a braccia aperte vorrebbe riprenderselo in grembo. Difficile dire se in quel gesto materno ci sia più l’arrivo o la partenza, il ricevere o il donare, il porto o lo spasimo.

Quel quadro, l’Andata al Calvario, noto come lo Spasimo di Sicilia, era giunto a Palermo, in quella chiesa a cielo aperto, nel 1517. Un quadro che, a raccontarne la storia, ce ne vorrebbe un’altra. Durante il XVII secolo - in circostanze poco chiare, sembra per opera di un borghese locale -, con un sotterfugio fu regalato prima al viceré spagnolo e poi al re di Spagna, in cambio di favori, rendite e titoli: un “don” davanti al proprio nome e monete sonanti.

La mafia è nata quel giorno.

Dal giorno in cui al labirinto della città è stata sottratta la chiave, l’intangibile bellezza dello Spasmo di Raffaello, in cambio di un buon nome, di una carica, di una raccomandazione, di un favore, la città non può più decodificare se stessa: la chiave è smarrita. Anche se quell’assenza potrebbe aiutarla a comprendere, come accade con le statue greche delle quali è rimasto solo il busto, capace di evocare la bellezza dei pezzi mancanti. Se il quadro fosse qui, forse Palermo capirebbe: ma il quadro è in un museo lontano, in un’altra terra.

Bisognerebbe dirlo agli abitanti della città che ciò che a loro manca per salvarsi è lo Spasimo. Roma ha la Pietà di Michelangelo. Firenze l’Annunciazione di Simone Martini. Napoli le Sette Opere di Misericordia di Caravaggio. Milano la Cena di Leonardo. Venezia l’Assunta di Tiziano. Palermo? Ebbe lo Spasimo di Raffaello. “Ebbe”, come i tanti passati remoti che ancora si usano nella mia città: Raffaello barattato con un po’ di potere. Se riavesse quel quadro e quel luogo, Palermo potrebbe tornare alla sua vocazione di Perla del Mediterraneo?

Non lo so. Ciò che so è che quel posto non c’è più.

O forse sì. Perché quando l’uomo del bosco dimenticò anche il luogo, scoprì che bastavano i desideri. E il posto in cui stavano era il cuore.

Un posto dove scappare dentro. È ciò che cercava don Pino insieme ai bambini e ai ragazzi. Li aiutava a scoprire quello spazio dentro di sé, solo così la violenza poteva incontrare un ostacolo. Soldi, rispetto, forza? Bisognava arrivare prima di questa trinità profana. Anche per questo ho deciso di fare l’insegnante e lo scrit-tore: per dissotterrare ogni giorno quel posto, prima in me, e poi nei ragazzi, per non smettere di cercare le parole necessarie a tirare fuori la vita dalla vita, per trovare il fuoco del coraggio di non barattare la Bellezza con il Compromesso. E rimanere fedeli ai propri desideri, nel tempo.

Per questo il primo grazie va ai miei genitori, che in questa città mi hanno regalato la luce, ai miei fratelli (Marco e Fabrizio) e sorelle (Elisabetta, Paola e Marta), che di questa città sono le mura di carne e ossa. A Marta devo un grazie in più per le sue foto (copertina del libro e ritratto personale). Quando le ho accennato gli ingredienti del nuovo romanzo, ha creato uno scatto perfetto in uno dei luoghi più affascinanti della Sicilia: castello Tafuri a Portopalo di Capo Passero, la punta più a sud della Trinacria e dello Stivale. Capolavoro liberty costruito con il marmo dell’antistante isola delle Correnti, accanto all’antica tonnara, con una loggia poligonale aperta in modo incomparabile sul Mediterraneo. Divenuto un albergo, nel 1998 venne abbandonato, saccheggiato e utilizzato per riti satanici. Manifesta la luce e il lutto di questa terra, che a volte non sa prendersi cura della sua Bellezza, e addirittura arriva a sfregiarla. Come avvenne al famoso quadro di Caravaggio Adorazione del Bambino coi santi Lorenzo e Francesco, sparito da Palermo in una notte di tempesta del 1969. Secondo la testimonianza di Gaspare Spatuzza, uno dei due assassini di don Pino, era stato sottratto per essere appeso come simbolo di potere nelle sale dove si tenevano i summit mafiosi. E finì poi per essere dimenticato in una stalla e divorato da maiali e topi.

Grazie ai professori e compagni degli anni di liceo al Vittorio Emanuele II.

A chi ha seguito passo dopo passo queste pagine con passione e professionalità: Valentina Pozzoli, Antonio Franchini, Marilena Rossi, Giulia Ichino.

Ai miei alunni, ai loro genitori, ai colleglli di scuola, tutti sulla stessa barca ad affrontare le tempeste di questi nostri tempi incerti.

Ai miei amici e amiche più cari, che non nomino perché non basta lo spazio: come diceva don Pino, la speranza è la risultante dell’amicizia, ed è dall’amicizia che traggo tutte le forze che ho.

Ai responsabili del premio intemazionale Pino Puglisi, che nel 2013 hanno voluto donarmi un ulteriore segno della presenza di don Pino nella mia vita, proprio mentre scrivevo queste pagine; a Francesco Deliziosi per il suo bel libro dedicato a padre Puglisi e a Roberto Faenza per il suo film. Mi sono stati d’ispirazione.

Ai lettori dei miei precedenti libri, in particolare professoresse, professori, ragazze e ragazzi, incontrati in questi anni in giro per il Bel Paese e oltre. A molti di loro chiedo scusa, perché non sempre riesco a rispondere a lettere, mail, richieste, commenti sul blog, anche se leggo tutto.

Dulcis in fundo, ringrazio te, lettore, che hai impegnato il tuo tempo per ascoltare queste parole. Spero che le ore che hai dedicato a questa storia siano state riempite da quel che ho ricevuto io nello scriverla: un coraggio più grande verso la vita, anche quando pare ci ferisca a morte. E magari un posto dove scappare dentro, quando si spengono fuoco e parole. Per scoprire che erano intatti, covavano come brace sotto la cenere, insieme ai nostri desideri più grandi.

***

Negli scantinati di via Hazon, murati pochi giorni dopo il delitto ma ben presto riaperti a colpi notturni di piccone, i lavori di bonifica sono iniziati solo nel 2005.

La scuola media di Brancaccio, intitolata a don Giuseppe Puglisi, è stata inaugurata il 13 gennaio 2000.

 

 

Ciò che inferno non è
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