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Vento e luce al mattino frustano le strade di Brancaccio, quartiere fatto di case simili alle squame di un pesce in una città che sussulta al sole sempre più lentamente, mentre muore, spasimando acqua e vita. Zona oscura del porto senza fine che è Palermo, con il mare alle spalle, Brancaccio sorge sui detriti che ogni mare abbandona sulla costa. Su quei frantumi il Cacciatore cammina.
È un uomo di quasi trent’anni. Avrebbe anche un nome, quello che gli ha dato sua madre quando è nato e che hanno ripetuto in chiesa quando l’hanno battezzato. Adesso però il suo vero nome è questo. Il nome il Cacciatore se l’è procurato grazie alla sua silenziosa determinazione nel fare quello che si deve fare, perché uomo è chi fa quello che un uomo deve fare. Per lui la realtà si divide in predatori, a cui appartiene, e prede: annusate, riconosciute, braccate, uccise. Cammina a testa alta e lo sguardo non deflette mai dalla traiettoria: fissare è segno di forza, senza deflettere. Ha tre decadi ed è già rispettato, come un padre dai figli. E figli suoi ne ha, tre. Poi ci sono tutti gli altri, a cui assicura un futuro ampio quanto basta per accontentarsi e obbedire. Il Cacciatore.
Insieme a lui c’è Nuccio. Di anni ne avrà una ventina, il naso lungo come un becco, le labbra sottili, la notte appena trascorsa ancora incastrata fra i denti come la sigaretta sempre accesa. Gli occhi sono tristi, e non perché sia triste, ma perché la tristezza ha dato forma ai suoi connotati. Come due lupi che controllano il territorio, vagano apparentemente senza meta nel labirinto di scirocco del quartiere.
Le saracinesche si alzano e svelano attività multiformi dietro la scritta che le accomuna tutte: “Lasciare libero lo scarrozzo 24 ore su 24”. Sì, perché un tempo erano le carrozze a uscire dalle case. Quarti di bue appesi a ganci mostrano senza vergogna la loro carne e le interiora molli. Motorini in riparazione sporchi di grasso. Forme di pane con la crosta ricoperta di semi di sesamo. Scope, detersivi, profumi, giocattoli, palloni. E chissà cos’altro. Sedie di vimini e di legno sono ancora vuote, pronte davanti alle botteghe per i momenti di pausa tra un cliente e l’altro. Qui l’inverno dura tre, quattro mesi se va male, per il resto si sta fuori.
Gli occhi del Cacciatore lanciano rapide occhiate intorno per poi tornare fermi e fissi, ha tutto sotto controllo, anche quando non sembra. Sputa per terra e la saliva si mescola alla polvere della strada, intasata da macchine parcheggiate in seconda fila e da cassonetti in fermento nella calura già violenta delle prime ore del giorno. L’odore acre delle cose marce si mescola con quello della mattina intrisa di mare, nel dolceamaro che è la sostanza olfattiva del quartiere e dell’intera città: il paradiso su una strada e l’inferno girato l’angolo.
Una signora stende le lenzuola pigre nell’aria quasi immobile. Ha una vestaglia e i bigodini. Bande di bambini si aggirano in cerca di cani, gatti, lucertole da torturare, in cerca di pezze d’asfalto per una partita di calcio da strappare al cemento e alla noia, con un pallone di cuoio consunto sino quasi a toccarne l’aria, in cerca di avventure tra le cose abbandonate dai grandi.
Salutano il Cacciatore, che sorride come un padre ai suoi figli.
«E tu come ti chiami?» Nuccio si rivolge a uno dei bambini.
«Francesco» risponde quello, impettito per essere stato interpellato.
«Bravo, bravo. La verità a me la devi dire sempre. Agli sbirri?»
«Mai.»
«Bravo. E quanti anni hai?»
«Sette. Quasi.»
«Sotte, e sei già così alto? Miii, fra poco lo puoi pure uccidere uno sbirro…»
«E come?»
«Con la pistola… come sennò?»
«Ma io non ce l’ho…»
«Quando servirà ce l’avrai.»
Nuccio si allontana e gli occhi dei bambini, calamitati da quella sicumera, sono tutti su di lui: chi ha una sigaretta e una pistola è un eroe. Francesco vuole essere come lui, con la camicia bianca aperta, la sigaretta in bocca e l’aria seria.
Il Cacciatore intanto è andato avanti. Nuccio lo guarda da dietro e vorrebbe già essere altrettanto potente, per questo lo segue e impara. È la catena alimentare del rispetto. Il Cacciatore ha i capelli incollati alla testa, arricciati come quelli di un arabo. Come sa benedire lui con la pistola ce ne sono pochi a Brancaccio. «Quello che si deve fare si fa.» Glielo ripete sempre. È la cosa giusta. La famiglia non fa nulla che non sia giusto e garantisce l’ordine in una città in cui il caos è solo un tipo diverso di ordine. Se non ci fossero loro, Nuccio si annoierebbe, non avrebbe i soldi per le sigarette e dovrebbe anche cercarselo, un lavoro. I suoi genitori glielo hanno detto mille volte, ma lui non vuole spaccarsi la schiena come suo padre e sua madre per tutta la vita. E per cosa poi? Per spaccarsi la schiena, appunto. No, lui ha vent’anni e altri progetti. Vuole farsi una villa al mare e portarci la sua ragazza. Gliel’ha promesso, quant’è vero che si chiama Nuccio: nato, cresciuto e non ancora morto a Brancaccio.
Il Cacciatore si ferma davanti al banco del pescivendolo e saggia col dito la testa di uno spada che lo guarda con l’occhio bianco e stralunato dal suo letto di ghiaccio. I pesci senza palpebre la natura li ha condannati a vedere tutto pure mentre muoiono. Non dice una parola il Cacciatore. I gesti bastano per chi ha potere e le parole non si mettono di mezzo se non sono necessarie. Febbrile, un uomo con un grembiule sporco di sangue e squame, un coltello largo due spanne, taglia un trancio di pescespada e lo avvolge nella carta. Lo mette in un sacchetto. Ci fa scivolare dentro una busta. Lo porge al Cacciatore, senza guardarlo negli occhi.
Il Cacciatore controlla il contenuto. Nuccio osserva quella consapevole freddezza. Poi sputa il mozzicone di sigaretta e ne accende un’altra. Sbuffa nell’aria estiva e il fumo sosta sopra di lui in un’aureola non del tutto effimera. Sarà una giornata calda. Quando il fumo resta sospeso e fermo va a finire sempre così.
«Com’è» Nuccio fa un segno della croce nell’aria madida, per indicare “mandare al cimitero” «un uomo?»
«Normale.»
«Normale come?»
«Normale.»
Questo ragazzo deve imparare a non fare due volte la stessa domanda. L’occhio urlato fuori dall’orbita del pescespada ricorda al Cacciatore lo sguardo della sua prima vittima. Una pallottola è un destino rapido. Gli occhi della preda si svuotano subito, non come quelli dei pesci, che ci mettono troppo a morire. Tanto tutti dobbiamo morire prima o poi, il come è solo un capriccio. Le cose che si devono fare si devono fare. Ha una famiglia da mantenere, tre bambini meravigliosi che ama come le sue pupille. E i cinque milioni mensili che gli danno sono pane e futuro, e più di ogni altra cosa salute. Se c’è quella, c’è tutto.
Uccidere non provoca tutti i rimorsi che dicono nei film, ed è molto più facile che nei film. Il lupo deve garantire il pasto al branco. E a questo mondo c’è chi nasce preda e chi cacciatore. È la natura che decide dove metterti, il resto è coerenza. Uccidere è solo equilibrio. Sbirri, rivali, traditori. Sono animali umani. E se per colpirli schizzi sangue intorno non è colpa di nessuno: la vita è fatta con il sangue. Destino? Caso? O come minchia si vuole. I suoi figli vanno difesi e cresciuti per bene. È per loro che il Cacciatore è diventato il Cacciatore, sin dalla prima rapina.
Era stufo di sentire i suoi amici vantarsi di azioni mai compiute e aveva bisogno di soldi. Era un giorno qualunque, s’era messo un passamontagna e aveva rapinato la gioielleria. Punto. Non c’era altro da aggiungere. Così a poco a poco, colpo dopo colpo, preda dopo preda, ha conquistato il suo vero nome: il Cacciatore. Pianificare e agire con freddezza, come un serpente. Il segreto è che ricevere l’ordine ed eseguirlo sono la stessa cosa. L’obbedienza è l’unica forma di fedeltà richiesta, la devozione dovuta agli dèi del quartiere, perché la loro volontà si compia.
Nessuno deve venire a turbare l’equilibrio voluto da Madre Natura, non devono venirci gli sbirri nel quartiere, a cercare i latitanti, a controllare, come fa quel panino di San Gaetano che riempie di bambini, di ragazzi, di sbini la chiesa e il centro che ha aperto accanto, il Padre Nostro. Amen. Lo deve tenere d’occhio. Possono succedere cose brutte là dentro. Vengono persone pure da Palermo, dai quartieri dei ricchi. Arrivano lì con i loro vestiti alla moda e credono di poter insegnare a quelli di Brancaccio come si vive. Parlano l’italiano, loro. Una volta suo figlio è andato a giocare a calcio al centro Padre Nostro e lo ha dovuto prendere a legnate per fargli dimenticare che si era divertito. Gli ha fatto bucare le ruote dei motori di quei ragazzi che parlano in italiano. Ha dato l’incarico a suo figlio e ad altri due, di quelli che stanno per strada in attesa di qualcosa da fare. Dopo la quinta elementare è normale a Brancaccio. A scuola i bambini ci vanno quando vogliono, i compiti ci pensano loro a darglieli.
Anche lui è andato a scuola fino alla quinta elementare, poi la scuola è diventata la strada. Quello che si vuole basta prenderselo con le mani, o con gli artigli che ti spuntano presto se non arrivi al pezzo di carne che ti spetta, come succede ai lupi. A furia di afferrare, gli artigli spuntano per forza.
Nuccio non ha ancora ucciso nessuno. Aspetta il suo momento. Quando glielo chiederanno, lo farà e basta. Sa che quella è la prova dell’obbedienza che serve a fare camera. Per ora si occupa di spaccio, di riscuotere il pizzo e di alcune buttane. Sa già il mestiere suo e anche di più, perché è capace di farci la cresta per qualche capriccio, anche se questo il Cacciatore non lo sa.
Il Cacciatore guarda la strada assolata. La strada è ciò che serve a un uomo per essere uomo. Conoscere la strada e le sue regole. Chi non lo fa, muore come un pesce che vuole respirare fuori dall’acqua perché gli sembra sporca. Quella è l’acqua in cui sei nato ed è in quell’acqua che devi nuotare. Dominare per non essere dominati. Non è questione di bene e di male. Quel prete non lo vuole capire. È questione di dignità.
«Portalo a Maria» ordina a Nuccio mettendogli in mano il pacchetto con il pesce.
«Va bene.»
Non chiede di meglio, Nuccio. E insieme al sacchetto col trancio di spada arriva la risposta alla domanda che gli ha posto prima:
«È come mettere un pezzo di ferro in un pezzo di carne. Né più, né meno.»
Nuccio entra nel cortile di una palazzina coi balconi screpolati e le persiane rose dal sole. L’odore di verdure bollite cala come un sudario in quello spazio, da cui il cielo si vede bene. Che giornata meravigliosa: luminosa e calda, da fare il bagno a mare. Prima di salire guarda nel sacchetto e vede che c’è anche una busta. La apre e ci sono duecentomila lire per Maria. Si mette la busta in tasca e sale. Suona e una ragazza con gli occhi scuri da principessa araba e le occhiaie blu da prostituta schiude uno spiraglio di porta.
«Questo è per te.»
«Grazie.»
Maria allunga la mano per prendere il sacchetto senza aprire di più, ma Nuccio la spinge indietro con rapace delicatezza.
Entra in cucina e butta il trancio di pescespada sul tavolo. Si volta e fissa Maria. Si avvicina e le poggia il dito sulla striscia di mascara che le macchia la guancia, premendo la pelle del viso di lei, poi le stringe la bocca tra pollice e indice e si prende quello che gli è dovuto.
E Maria sente l’inferno entrarle dentro. Ha gli occhi dei pesci scaricati sulla battigia: cercano l’acqua e inarcano il dorso convulsamente, frustando l’aria fino a spezzare, in quello sforzo estremo, il residuo di vita a cui erano ancora aggrappati.
Un pezzo di carne in un pezzo di carne può ferire altrettanto.