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La valigia aperta. Niente è più temibile dopo il drago dello Hobbit. Ha fauci ampie e divora tutto, se solo sapessi cosa metterci… Io resto stabile ventidue minuti, l’ho detto. Che ne so cosa mi servirà in Inghilterra per quarantacinque giorni.

Comincio a buttare dentro cose in base a un criterio puramente poetico: i libri che voglio leggere in lingua originale; gli occhiali da sole di Manfredi che se n’è comprato un nuovo paio, anche se non so bene da quale sole mi proteggeranno in Inghilterra; uno o due paia di jeans e una trentina di magliette, un coltellino multiuso che porto con me in ogni viaggio da quando me lo hanno regalato a nove anni, senza mai usarlo; qualche fumetto se dovessi ammalarmi. Questa è la mia valigia poetica.

Tanto poi mamma controlla e rifa tutto da capo.

Devo riprendere fiato, troppo futuro mi spossa. Inizio a sfogliare il mio atlante, la copertina ormai è consunta. È un atlante fatto solo di isole. In prima elementare non facevo altro che disegnare mappe del tesoro su isole inventate, così i miei mi regalarono un atlante con tutte le isole del mondo.

Su quelle pagine ho scavato tesori, sono stato catturato da creature chimeriche, ho conosciuto pensieri di uomini molto diversi da me, alcuni con quattro orecchie, altri con la testa all’altezza del petto o braccia lunghe fino a terra. Su quell’atlante ho imparato che la mappa è più importante del tesoro. A me piaceva cercare e cercare e cercare. E magari quando trovavo uno scrigno dentro non c’era che un’altra mappa che rimandava a un’isola qualche pagina più avanti. Così il viaggio riprendeva. Avevo una nave capace di solcare tutti i mari. Negli atlanti sono uniformi: cambia solo il blu della profondità ma sono sempre calmi, e la mia nave, che si chiamava Magellano, scivolava su quel blu e attraccava in baie semicircolari a forma d’abbraccio, in fiordi acuminati come ricci di mare, in spiagge lunghissime e deserte. Credo che la mia vocazione ai sogni sia cominciata lì.

Ribattezzavo le isole con nomi inventati da me. Questa è l’isola del Paradiso, la mia preferita. L’avevo chiamata così per il desiderio di dare forma a un mio personalissimo paradiso. I tesori dell’isola infatti contenevano un’apoteosi di ciò che amavo e una promessa di ciò che mi mancava. Alla prima categoria appartenevano per esempio riserve infinite di pongo, lego, soldatini. Alla seconda una piscina, un lupo, un cappello che rende invisibili. Il tesoro era l’isola stessa, capace di generare a ogni avventura gli elementi del mio desiderio. Era da un po’ che non la guardavo e se ne stava lì, ferma ferma nel blu di carta.

Che cosa ci metterei adesso?

Delle cose che amo vorrei un’apoteosi di libri.

Di quello che non ho vorrei l’amore, il coraggio e tutte quelle stelle marine rigettate in mare.

L’Inghilterra sarà l’isola in cui troverò tutto.

Domani si parte.

È finito il tempo delle isole immaginarie.

Ciò che inferno non è
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