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Nel silenzio di piazza Anita Garibaldi l’aria è rimasta ferma. I minuti scorrono lenti come il sangue che esce dalla ferita alla nuca e la vita ha esattamente quel residuo di ritmo e di gocciolante consapevolezza. Sono secondi di assoluta e tremenda lucidità.
Cinque sono le cose che un uomo rimpiange quando sta per morire. E non sono mai quelle che consideriamo importanti durante la vita. Non saranno i viaggi confinati nelle vetrine delle agenzie che rimpiangeremo, e neanche una macchina nuova, una donna o un uomo da sogno o uno stipendio migliore. No, al momento della morte tutto diventa finalmente reale. E cinque le cose che rimpiangeremo, le uniche reali di una vita.
La prima sarà non aver vissuto secondo le nostre inclinazioni ma prigionieri delle aspettative degli altri. Cadrà la maschera di pelle con la quale ci siamo resi amabili, o abbiamo creduto di farlo. Ed era la maschera creata dalla moda, dalle false attese nostre, per curare magari il risentimento di ferite mai affrontate. La maschera di chi si accontenta di essere amabile. Non amato.
Il secondo rimpianto sarà aver lavorato troppo duramente, lasciandoci prendere dalla competizione, dai risultati, dalla rincorsa di qualcosa che non è mai arrivato perché non esisteva se non nella nostra testa, trascurando legami e relazioni. Vorremmo chiedere scusa a tutti, ma non c’è più tempo.
Per terzo rimpiangeremo di non aver trovato il coraggio di dire la verità. Rimpiangeremo di non aver detto abbastanza “ti amo” a chi avevamo accanto, “sono fiero di te” ai figli, “scusa” quando avevamo torto, o anche quando avevamo ragione. Abbiamo preferito alla verità rancori incancreniti e lunghissimi silenzi.
Poi rimpiangeremo di non aver trascorso tempo con chi amavamo. Non abbiamo badato a chi avevamo sempre lì, proprio perché era sempre lì. Eppure il dolore a volte ce lo aveva ricordato che nulla resta per sempre, ma noi lo avevamo sottovalutato come se fossimo immortali, rimandando a oltranza, dando la precedenza a ciò che era urgente anziché a ciò che era importante. E come abbiamo fatto a sopportare quella solitudine in vita? L’abbiamo tollerata perché era centellinata, come un veleno che abitua a sopportare dosi letali. E abbiamo soffocato il dolore con piccolissimi e dolcissimi surrogati, incapaci di fare anche solo una telefonata e chiedere come stai.
Per ultimo rimpiangeremo di non essere stati più felici. Eppure sarebbe bastato far fiorire ciò che avevamo dentro e attorno, ma ci siamo lasciati schiacciare dall’abitudine, dall’accidia, dall’egoismo, invece di amare come i poeti, invece di conoscere come gli scienziati. Invece di scoprire nel mondo quello che il bambino vede nelle mappe della sua infanzia: tesori. Quello che l’adolescente scorge nell’addensarsi del suo corpo: promesse. Quello che il giovane spera nell’affermarsi della sua vita: amori.
Don Pino non rimpiange nessuna di queste cose. Le ha avute tutte nell’amore. Per lui era già tutto reale, per questo sorride nell’attraversare la soglia. Ha solo un rimpianto, ed è quello di lasciare la sua città, il suo quartiere, i suoi amici, i suoi bambini. Ha nostalgia dei loro volti e pensa al dolore che provocherà andandosene così, senza dire niente: Maria, Lucia, Francesco, Totò, Federico, Dario, Serena, i suoi vecchi alunni e quelli che avrebbe avuto quell’anno e tutti gli altri, i cui nomi adesso si confondono, perché il cervello brucia come un incendio e l’amarezza tenta di ghermirgli il cuore. Ma sente una luce farsi strada pianissimo, nella morsa della morte. L’amore che ha dato rimarrà intatto e continuerà per sempre, indistruttìbile, perché quell’amore non originava da lui, lo attraversava come un canale pulito. Ricorda la frase che ha scritto in cima alla prima pagina, nel quaderno di massime negli anni degli studi: “Sacerdote: anello di congiunzione tra Dio e l’uomo”. Una congiunzione che gli ha slogato le membra che ora a poco a poco si allentano, mentre cerca di richiamarle a sé, invano.
L’ultima cosa che sente è la voce del mare, e l’odore che impregna la città che ama. Deve lasciare quelle strade come quando - aveva sei anni - le bombe crivellavano Palermo. Tuttoporto e spasimo. È arrivato anche lui a destinazione o sta partendo di nuovo, è lo stesso. Il cuore rallenta. E il suo spasimo scolora.
Lui adesso entra nel luogo in cui ogni paradosso è sciolto.
Entra in Dio e nel suo abbraccio, dove ogni desiderio è possesso e ogni possesso desiderio. Senza dolore. Ogni partenza è arrivo e ogni arrivo partenza. Senza dolore.
I granelli di sabbia finiscono. Finisce la paura.
Non può rimpiangere nulla: ha dato e ricevuto tutto.
Ha cercato di far nascere l’acqua nelle vie dell’arsura, l’albero nel cemento della città, il cielo nella strada, il paradiso nell’inferno.
Rivede il volto della madre e quello del padre, che gli sorridono e lo prendono per mano e lo fanno dondolare, come quando era bambino.
Lo fanno dondolare ogni volta più in alto.
Finiscono lo spettacolo del mondo e la risata dell’inferno.
Si placa l’avvicendarsi di sogni e sangue.
Si compiono la storia e i suoi istanti.
Morire all’improvviso è l’unico modo di portarsi avanti con gli addii. E a Dio affida tutti quelli che restano.
L’ultimo sguardo è per un cielo trafitto di stelle. Corrono veloci le galassie verso le mani del Creatore, tanto che la luce non fa in tempo a raggiungere i nostri occhi. Apre le braccia, sfinito.
Adesso tutto quello per cui ha spasimato è per sempre, ed è suo.