15

Il passaggio a livello si solleva. La bicicletta sussulta sui binari e fende l’aria densa di Brancaccio. Ha studiato bene la strada. Ci sono luoghi in cui non bisogna mai mostrare insicurezza. La saliva non inumidisce più le sue labbra, e fra poco la secchezza raggiungerà anche la bocca. La calura fiacca le ginocchia e brucia i polmoni. La paura dell’ignoto fa il resto. Ma ha il coraggio innocente e selvatico dei ragazzi convinti che i luoghi corrispondano alla loro stilizzazione sulle cartine. Come quelli che vanno in Islanda e poi scoprono che sulla cartina non si vedeva che lì è buio per metà dell’anno. La luce uniforme degli atlanti, delle mappe, è qualcosa a cui non credere fino in fondo: questo ragazzo lo scoprirà oggi.

Trovo la chiesa. Mentre lego la bicicletta a un palo, mi guardo intorno. Il sole impasta l’asfalto che cede sotto le suole. L’aria è stantia. Occorrono movimenti pacati per non soccombere. Qualche raro passante gravato dalla canicola mi fissa. Ho l’impressione di essere un turista, eppure sono nella mia città, a pochi chilometri da casa, ancora meno da scuola. Sento occhi conficcarsi nella schiena, qualche persiana schiudersi curiosa. Cosa mi è saltato in mente di venire fin qui, e per di più in bicicletta? Un carrarmato ci voleva. Tengo la testa china e non mi guardo troppo intorno, per dissimulare la mia clandestinità, tipo quando a scuola si cerca qualcosa nello zaino al momento dell’interrogazione, come se guardare altrove rendesse invisibili. Entro nella chiesa, i muri ingialliti nel sole quasi prendono fuoco. All’interno l’ombra mi accoglie e per un attimo rinfranca. Ma anche qua dentro l’aria è torrefatta. Non si fugge ai giorni di calura. Solo ogni tanto uno strappo di vento dal mare permette di sperare che la vampa finirà. Tufo imbiancato. Intonaco calcinato. Lumini rossi.

La chiesa è vuota. Il tetto è sostenuto da un ponteggio e la zona sottostante transennata. C’è solo un uomo con una camicia nera seduto al primo banco. La testa piegata. Temo di calpestare questo silenzio surriscaldato e avanzo felpato.

Don Pino ha gli occhi chiusi. Il respiro pesante lo tradisce. Dorme.

Mi siedo vicino e lo scricchiolio della panca lo risveglia. Mi guarda e sorride, come nel sogno di qualche ora fa.

«Che fa, dorme?»

«Eh… cu è? Sei venuto! Sono contento.»

«La disturbo?»

«Provavo a pregare, ma devo essermi addormentato.»

Si avvicina e mi abbraccia.

«Grazie. Quando parti per l’Inghilterra?»

«Domenica prossima. O venivo oggi o non riuscivo più.»

«Bene! Ti godrai anche un po’ di fresco. Lì piove sempre…»

«Qui invece si muore sempre di caldo.»

«Qui si muore sempre di altre cose, purtroppo.»

«Come posso aiutarla?»

«Adesso, se hai pazienza, stiamo ancora un po’ qui in silenzio, poi ti faccio fare un giro.»

«Va bene.»

Intorno a me, statue di santi senza rughe. Sotto un crocifisso slogato e non del tutto proporzionato c’è una scritta: “Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.

Fisso don Pino: occhi chiusi, immobile e sorridente. Le mani poggiate sulle gambe e la schiena leggermente incurvata. A chi sorride?

Apre gli occhi e mi guarda come se mi vedesse attraverso.

«Sono proprio contento che tu sia qui. Oggi mi sentivo solo. Avevo bisogno di aiuto.»

«Sono qui apposta» rispondo in imbarazzo: lui ha bisogno di me.

«Vado a trovare una famiglia, mi accompagni?»

«Lei mi aveva detto di venire a dare una mano. Ed ecco la mano…» Gli mostro un palmo. Don Pino ci appoggia la sua per un attimo.

Poi camminiamo per le strade cotte del quartiere, lentamente, rasentando i muri, anelando un riparo che non c’è. Le case sono basse, palazzine di uno o due piani. È tutto molto diverso da via Notarbartolo, coi suoi palazzi e i suoi squarci di verde. Qui zampilla dai davanzali, in cespi di basilico, prezzemolo e menta indispensabili per sughi succulenti. Ma nulla più.

Entriamo in un vicolo in cui i cassonetti traboccano di sacchi: l’aria intrisa di umidità fa tremare i contorni delle cose e ne liquefa i profili. Ci sono piccole costruzioni simili a garage.

Don Pino si dirige verso una saracinesca semiaperta. Gli sto accanto e cerco di farmi scudo con la sua figura minuta.

«Permesso?»

«Don Pino!»

«Scusate il ritardo.»

«Quando mai è arrivato puntuale? Tanto lo sa, qui siamo sempre aperti…»

Una donna sta sistemando qualcosa in un angolo che assomiglia a una cucina. L’aria è compressa, ma profumata. Sugo. Origano. Vimini. La dignità supera la frugalità e la trasforma in grazia.

Io ho una stanza tutta per me con i miei dischi, le mie cassette, i miei cd, i miei poster, i miei libri. Qui invece c’è tutto di tutti. Sul divano nell’angolo opposto tre bambini guardano la televisione. Su una sedia un vecchio fa lo stesso da par suo: lo sguardo è inebetito, a differenza di quello ipnotizzato dei bambini.

Quella stanza è tutto, o quasi. Disseminata di letti, qualche sedia sbilenca e un grande armadio a muro. Un tavolo vicino alla cucina coperto da una cerata a fiori arancioni inumiditi da gocce disegnate.

«Che le posso offrire?»

«Un bicchiere d’acqua. Si muore oggi…»

«Non si saluta, bambini?»

«Ciao, don Pino» rispondono in coro senza smettere di fissare lo schermo.

Rimango sulla soglia. Non so cosa fare, né come farlo. A casa dei miei amici a certe stanze corrispondono certi comportamenti, qui non so che posizione prendere, ci sono troppi luoghi contemporaneamente. Non so neanche dove mettere le mani e dove guardare. Le tasche mi tornano utili per nasconderci le mani.

«Vieni, ti presento Gemma. E questi delinquenti davanti al televisore che neanche salutano sono…?»

I bambini si presentano in ordine urlando il proprio nome.

«Domenico.»

«Caterina.»

«Massimo.»

Don Pino gli si avvicina e bussa sulla testa di ciascuno. I bambini si difendono e ridono.

«E questo è il signor Mario. Amico caro dei miei genitori, il signor Mario. Vero è?» dice alzando il tono della voce e scandendo le sillabe per farsi sentire.

II signor Mario annuisce e scopre gengive nude di denti. La bocca si apre in un sorriso storto ma autentico e gli occhi umidi che hanno i vecchi si illuminano. Un filo di bava gli cola da un lato della bocca mentre bacia la mano di don Pino, che la ritrae con delicatezza e gli dà una carezza sulla guancia.

Mi decido a entrare e stringo la mano alla signora Gemma, poi rivolgo un cenno ai bambini e al signor Mario, la pelle pizzica come durante l’attesa del nome in un’interrogazione.

«Che cosa ti va?»

«Anche per me un bicchiere d’acqua, grazie…»

«Di cannolo, solo di cannolo noi l’abbiamo, l’acqua.»

«Certo, certo, va bene.»

Gemma riempie una brocca di acqua del rubinetto, dopo averla fatta scorrere un po’.

«Tiepida esce, c’è troppo caldo. Mi spiace.»

Ci sediamo attorno al tavolo con lei.

«Come va?»

«Come va, don Pino. Ci difendiamo. Giuseppe lavora in cantiere. E ora anche Giovanni gli dà una mano.»

«E Lucia?»

«Lucia ha finito la scuola e mi aiuta in casa. Poi cerca qualche famiglia per tenere i bambini. E legge tutti quei libri… io non so come fa. Manco so leggere, e ho una figlia che legge pure quelli che avrei dovuto leggere io…»

«Posso vedere se trovo qualche coppia che ha bisogno di qualcuno che badi ai figli. I libri glieli presto volentieri, lo sai. Ne ho troppi… Lucia all’università deve andare, Gemma.»

«Hai ragione, speciale è quella ragazza. Beato chi se la piglia.»

Ascolto la conversazione come uno che guarda un documentario su un Paese esotico. Gemma ha gli occhi buoni e il viso stanco di chi non si è tenuto niente per sé nella vita.

Bevo per tenere occupata la bocca. Non so cosa dire. Ho perso le parole, io che ne ho sempre in svendita. Neanche Petrarca mi viene in aiuto.

I bambini ridono e commentano le disavventure di Tom e Jerry.

«E tu cosa fai?»

«Io… studio. Sono un alunno di don Pino, al liceo Vittorio Emanuele. Vicino alla cattedrale.»

«Miii, sei fortunato. Don Pino sa tutto. E ha un cuore quanto un palazzo.»

Don Pino sorride.

«Sempre più piccolo del tuo è. Non c’è una mamma come Gemma, in tutta Brancaccio. E poi come fa la salsa lei? Nessuno! E tuo padre come sta?»

«Lo vedi, è come un bambino. Certe volte mi fa uscire pazza…»

«Come i bambini.»

«Sì, è come avere un figlio in più. Di ottant’anni.»

Gemma si alza e asciuga la bava a Mario.

In quel momento entra una ragazza, sui sedici anni. Ha una gonna a fiori e una canottiera bianca sottile. I capelli neri le scendono a onde sulle spalle. La pelle è scura e gli occhi verdi scintillano dentro l’ovale brunito del viso. Mescola decine di stirpi normanne e arabe. Uva. Topazi. Datteri. In lei rivivono secoli di Mediterraneo. Mi lascio sempre prendere dalle parole quando vedo una ragazza che mi piace, forse solo per renderla meno inaccessibile.

«Don Pino! Come sta?»

Si muove con delicatezza. La sua presenza non corrisponde a quel luogo. Sembra superarlo.

«Bene. E tu, Lucia? Hai finito il libro?»

«Sì, me ne deve dare un altro.»

«Qui ce l’ho.»

Don Pino apre il borsello che porta sempre con sé e le porge un romanzo. Lucia lo prende con trepidazione. Poi si precipita in un angolo della stanza e afferra un libro che restituisce a don Pino, lasciandosi dietro il vortice di seta dei suoi capelli.

«Tienilo pure.»

«Davvero posso?»

«Sì, te lo regalo.»

«Mi è piaciuto moltissimo Dickens, sembra di girare per le strade di Londra.»

Le brillano gli occhi come si smeriglia il sole del mattino sul mare. Tra pochi giorni sarò in quella città e mi chiedo, valutando la mole, se le abbia prestato Oliver Twist o David Copperfield.

«Lui è un mio alunno.»

«Ciao.»

«Piacere.»

La pelle del viso mi si scalda di un grado ulteriore rispetto a ciò che è dovuto al caldo e all’imbarazzo precedente, e spero che la penombra della stanza lo nasconda. Ha la mano esile, Lucia, ma la stretta è sicura.

«E cosa studi?»

«Vado al liceo classico, ho finito il quarto anno.»

«Sono tutti perfettini quelli del classico. Si sentono i migliori.»

«E tu?»

«Io faccio le magistrali.»

«Vuoi fare la maestra?»

«Anche. E tu?»

«Non lo so. Mi piacciono le parole…»

Ci sono cose che non capisci bene come ti escano dalla bocca. La mia risposta la fa sorridere, in una istantanea di luce.

«Di cosa parla? In che città ti porta?» fa Lucia indicando il libro a don Pino.

«Di un ragazzo che vive da solo in una città dove i tramonti non finiscono mai, perché la luce del sole in primavera non finisce mai. San Pietroburgo. La città in cui è nato Dostoevskij: la amava più di ogni altro luogo al mondo. Una sera quel ragazzo incontra su un ponte una donna che piange. Parlano fino a notte fonda, che notte non è, c’è questa luce che non va mai via. E decidono di incontrarsi su quello stesso ponte ogni sera per parlare. Lui si innamora perdutamente di lei, o almeno così crede, e…»

A rispondere non è stato don Pino, per dovere di cronaca, ma sono stato io, in preda ai sintomi di una grave malattia che una mia compagna mi ha attribuito: la sindrome di Petrarca. Il nostro professore ci ha ammorbato per ore e ore sull’atteggiamento del poeta nei confronti dei libri. È stato uno dei primi ad avere una sua biblioteca privata che si portava sempre dietro, e alcuni dei suoi libri erano dei veri e propri pezzi unici a quel tempo. Io non vado mai in giro senza un libro e la mia stanza è una biblioteca senza criterio. Se devo spendere dei soldi, lo faccio per un libro nuovo, anche se non lo leggerò mai. C’è una gioia nel possesso dei volumi che io chiamo “libridine”, un eros sollecitato dalla presenza del tomo e della sua facile raggiungibilità coniugata a una distanza, proprio perché non lo si è ancora letto.

«E…?» chiede Lucia, guardandomi stupita.

«Leggilo…»

«Questo è peggio di te, Lucia» si inserisce don Pino.

«Dov’è questa città?»

«In Russia» rispondo.

«E come si pronuncia il nome dell’autore?»

«Dostoieski.»

«Lo conosci?»

«È uno dei miei preferiti.»

«Perché?»

Ripenso all’estate tra la quinta ginnasio e la prima liceo, durante la quale, a forza di sentirmi dire che al triennio ci sarebbe stato un salto di qualità e di difficoltà, in una giornata in cui mi annoiavo come una medusa in mare aperto, ho afferrato l’edizione di Delitto e castigo che abbiamo a casa. E il salto di qualità c’è stato. Non al liceo, ma grazie a quel libro. Un romanzo che mi ha sequestrato per diversi pomeriggi, in modo totalmente diverso dai libri che avevo divorato fino ad allora, tipo Il Signore degli Anelli e La storia infinita. Delitto e castigo non mi seduceva, anzi, mi respingeva, mi faceva paura. Lo leggevo proprio per la sua asprezza, una trasgressione non dolce, ma pericolosa. A ogni pagina mi aspettavo di scoprire l’ennesimo corridoio nel labirinto del cuore umano. Non credevo che in un’anima ci potessero stare così tante cose, oscure e luminose al tempo stesso. Poi avevo letto Le notti bianche perché era breve e perché quel personaggio mi sembrava il mio alter ego letterario, chiuso nella sua soffitta a sognare di amori tanto perfetti quanto irraggiungibili.

«Non lo so.»

«Non sai un sacco di cose, anche se fai il classico. Però ti piacciono le parole e i libri. Io amo quelli che descrivono altri posti, città lontane.»

Lucia lo dice con un sorriso, sembra abituata a esprimere quello che pensa, senza remore.

«Come procedono le prove di Orlandino?» chiede don Pino.

«Benissimo. Ma ci manca Carlo Magno.»

«Vedrai che lo troviamo.»

«Come faccio a fare la regina senza il re? E poi ho dei problemi sul testo. Non trovo le parole giuste, a volte.»

«Posso venire a giocare a pallone da te, don Pino?» chiede d’improvviso uno dei bambini.

«Pure io, pure io!» parte in automatico l’altro, senza aver capito di cosa si parla.

«Certo, venite con Lucia. Così lasciate un po’ in pace vostra madre.»

«Solo se fanno i bravi a casa…»

«Noi facciamo sempre i bravi…»

«Sei sicuro?»

«Solo un poco facciamo i cattivi. Ma solo un poco. Facciamo di più i bravi. Più minuti.»

«Ah, allora va bene…»

Ridiamo. Guardo Lucia ridere. E il profilo di lei in quella stanza piccola e sovraffollata sembra un porto. Non so perché, ma vorrei leggere ad alta voce Le notti bianche a quella ragazza che non conosco neanche e che con me non ha niente in comune, se non un libro.

Al ritorno una donna ferma don Pino.

«Parri’, gliela dà una benedizione a mio figlio, così magari trova lavoro?»

«Ma lui lo cerca sto lavoro?»

«No.»

«E allora gli do un calcio nel sedere, non una benedizione!»

Camminiamo nell’aria spugnosa di giugno e la strada inghiotte i piedi. Ho una frase che mi rovista il cervello.

«Che vuol dire “dare la vita per i propri amici”?»

«Difenderla e arricchirla con la propria.»

«Come?»

«Con il proprio tempo.»

Mi guardo intorno senza mettere a fuoco nulla, incastrato nel traffico interiore: troppi pensieri parcheggiati alla rinfusa.

«E con il gelato» aggiunge don Pino sorridendo.

«Non credo di aver mai detto di no a un gelato nella mia seppur breve vita. Potrei quasi metterlo sullo stesso piano dei libri» rispondo dosando le pause e sottolineando le parole più importanti con uno sguardo molto serio.

«E qui a Brancaccio c’è uno che fa un gelato capace di resuscitare i morti.»

«Detto da un prete…»

«Ti ricordi la gita a Monreale?»

Una delle cose per cui l’anno scolastico non è stato del tutto inutile. Le cose migliori si imparano sempre fuori da scuola. Ci avevano accompagnati 3P e il professore di arte, un uomo magrissimo ed evanescente, capace di farti entrare dentro un quadro come in Sogni di Kurosawa, che proprio lui ci aveva fatto vedere, con conseguenze devastanti su tutta la classe.

«Dopo Santa Sofia a Istanbul è la superficie musiva più grande del mondo. La più grande d’Occidente, quantomeno. Seimilaquattrocento metri quadri di tessere suddivisi in centotrenta enormi scene tematiche e figure singole, immerse in un mare d’oro che spoglia la pietra di ogni consistenza e trasporta lo spettatore nella luce paradisiaca di Dio. Il duomo è stato costruito come grande teologia della luce. È fatto in modo da seguire i fenomeni luminosi stagionali. Ha il suo culmine di luce interna il 21 dicembre, con l’inizio del solstizio d’inverno, e il minimo il 21 giugno, con quello d’estate. Tutto l’anno è scandito dalla luce fisica e metafisica, perché si depositi sull’oro bizantino dei mosaici, illuminando la scena corrispondente alla festa dell’anno liturgico» ci aveva spiegato il professore.

«Che cos’è l’anno liturgico?» mi aveva chiesto Gianni.

«Che ne so. Sarà qualcosa di Chiesa.»

«Là dove passa la luce, il mondo è salvo. Riscattato dalle tenebre. Niente è lasciato al caso, in questo edificio. Purtroppo le finestre schermate non permettono di goderne la precisione scientifica. Quando sentirete qualcuno parlare di Medioevo in termini dispregiativi, potrete rispondere che nessuno oggi è capace di tanta maestria scientifica, tecnica, teologica. Era il 1174 quando fu posta la prima pietra di questa allegoria della luce.»

«Allegoria della luce? Ma cosa sta dicendo?» era intervenuto di nuovo Gianni, che mi ritiene (a ragione) il più grande esperto dell’inutile enciclopedia delle figure retoriche situata alla fine del libro di letteratura.

«Che attraverso la luce si dice qualcos’altro rispetto alla luce stessa.»

«E cosa si dice?»

«Forse, se stai zitto e ascolti…»

Gianni aveva alzato il dito medio, e non si trattava di un’allegoria.

«Il duomo di Monreale, la cattedrale e San Giovanni degli Eremiti hanno in comune l’allineamento astronomico alle due date del solstizio. Il tempio doveva essere la rappresentazione concreta di ciò che insegnava nelle immagini: Dio è creatore e architetto del mondo e l’uomo è chiamato a fare altrettanto. Distinguere tenebre e luce e ordinare il caos. Le leggi matematiche della costruzione erano il linguaggio che Dio aveva utilizzato per la creazione. Chi entrava doveva compiere un cammino di purificazione nella luce e le storie sulle pareti scandiscono questa progressione, culminando negli occhi del Cristo Pantocratore da cui tutto scaturisce e a cui tutto ritorna, come nei versi del Paradiso di Dante: La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove» aveva aggiunto don Pino.

«Dante proprio non lo sopporto» aveva ricominciato Gianni. «Ancora ancora l’Inferno, ma il Purgatorio è una supposta di noia. Chissà cosa sarà il Paradiso…»

«Meglio Petrarca, lo so.»

«Petrarca è un lassativo.»

Don Pino mi strappa al libero e anarchico corso dei ricordi, capace di sottrarmi al presente senza alcuna soluzione di continuità.

«Pensa alle tessere che compongono quei mosaici. Prima sono milioni separate le une dalle altre, ciascuna con il suo colore, la sua forma, le sue imperfezioni. Poi tutte vanno a comporre l’immagine. L’immagine di Dio. Noi siamo come tessere che, disposte una accanto all’altra, insieme realizzano la polifonia di Dio nel mondo.»

«Ma a me non importa tanto essere parte di una polifonia, io vorrei capire qualcosa della piccola tessera.»

«E come puoi se non consideri l’insieme?»

E io che pensavo di assolvere il mio compito andando a Brancaccio, ora me ne sto qui sul letto a pensare che devo tornare, perché don Pino me l’ha chiesto. Io dovrei pensare alle vacanze, al mare, all’Inghilterra… non a quel prete. E nemmeno a Lucia. Ma ci sono pensieri che non pensiamo, sono loro che pensano noi, come le parole delle canzoni che tornano in mente senza averle evocate. Sono i pensieri che temo di più, navi che attraccano in porto senza preavviso, e chissà cosa portano e da dove.

Manfredi entra in camera, come sempre senza bussare.

«Poeta, che cos’è tutta questa malinconia nella stanza? Sembra di entrare nella soffitta di uno di quei bohémien morti giovani, di tristezza e di tisi.»

«Da quando lavori nell’ufficio “affari altrui”?»

«I poeti muoiono di tisi o d’amore. Quale delle due?»

«A volte muoiono semplicemente dalla voglia di spaccare la faccia a qualcuno.»

«Sei tutto chiacchiere e distintivo. Chiacchiere e distintivo» ribatte Manfredi atteggiando la mandibola come De Niro negli Intoccabili e fingendo che qualcuno lo trattenga dal saltarmi addosso. È fissato con quel film, apprezza soprattutto la scena del pranzo e il cervello sparso sulla tavola con una mazza da baseball.

«Lasciami stare.»

«Che hai, fratello?»

«Niente, niente.»

«I tuoi niente contengono molta più roba di quanto tu voglia farmi credere. Lo sai.»

Ha ragione, ma questa volta il mio niente non è un modo per alludere a qualcosa che non vedo l’ora di raccontargli per avere un consiglio. È solo che ho bisogno di valutare ciò che mi sta succedendo, prima che qualcuno lo interpreti per me. Per una volta voglio arrivare io per primo all’appuntamento con me stesso e non farmi precedere da qualcun altro, anche se si tratta di Manfredi. «Ci vieni al concerto con noi?»

«Certo che ci vengo.»

«Bene, allora datti una mossa.»

Mi ero dimenticato del concerto di stasera. Ecco di cosa è fatta l’estate, e io me ne ero dimenticato. Non mi riconosco più.

Ciò che inferno non è
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