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Mimmo, il poliziotto, osserva dal balcone la folla di persone che presidia piazza Anita Garibaldi. È una pallida immagine del corteo funebre che ha sfilato per le strade attonite di Brancaccio, intimidendo chi sa e tace e chi non sa e tace lo stesso.

È un poliziotto con la panza, ma ha la testa fina come l’ispettore Colombo. E come lui fuma sempre. La sua testa gira e rigira come una trottola.

Sono accaduti due fatti contraddittori.

Il corpo di un ragazzo, bruciato e quasi irriconoscibile, è stato trovato quella mattina all’alba a un isolato di distanza dalla piazza dell’esecuzione. Nella semantica mafiosa significa che è il colpevole dell’omicidio. Non si ammazzano i preti, la mafia non li ammazza. Anzi, la mafia rimette tutto in ordine. D cerchio si chiude: il borsello rubato, la rapina, la 7.65 richiedevano una mano sprovveduta. Non sono riusciti a identificare il ragazzo, aveva il volto sfaldato e la carne troppo bruciata, sarà stato un ladro di autoradio e macchine senza permesso a Brancaccio, o un tossico disperato. E così questo delinquente qualunque adesso è il colpevole della morte di don Pino.

Ma lui, Mimmo, non ci crede. L’arte della simulazione è raffinatissima da queste parti. Il messaggio è chiaro: dove non arriva lo Stato arriva la Mafia. Ancora una volta ci si può sentire al sicuro, mangiano e fanno mangiare. Come Dio. Pure meglio di Dio, perché il pane quotidiano a volte Dio te lo fa sudare troppo.

Poi è successo qualcos’altro, che lo ha definitivamente convinto che l’esecuzione del ragazzo è una mascherata. In via San Ciro, dove è passato il corteo, sulla porta della bottega di un corniciaio è apparsa la fotografia di un uomo grasso e sorridente seduto a tavola durante una riunione familiare. In quel caos funebre nessuno s’è dato pensiero di guardarla attentamente, ma la foto ritrae Totò Riina insieme a una nota famiglia di Brancaccio. L’ordine è tornato e il suo santo protettore, dal santuario del carcere, è in mostra nelle vie del quartiere.

I due messaggi sono antitetici.

La foto in via San Ciro è una confessione dissimulata. La vedrà chi la deve vedere.

II corpo bruciato del ragazzo è una confessione simulata. La vedrà chi la deve vedere.

In realtà non c’è contraddizione.

Nel discorso di commemorazione per don Pino qualche politico locale, abile con le parole, meno coi fatti, ha citato la risposta tutta Sicilia data da Gaspare Uzeda a Cesare D’Azeglio. Nel romanzo I Viceré, Uzeda è uno di quei signori della “roba” che sono i nonni dei mafiosi, e alla frase “Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani” aveva risposto: “Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri”.

E ci aveva visto giusto. Gli italiani infatti sono tuttora da fare, invece gli affari propri sono belli e fatti e prosperano, soprattutto in Sicilia.

Mimmo fuma tranquillo, mentre i pensieri corrono come pipistrelli: ciechi e tuttavia sicuri nei loro movimenti notturni.

Vorrebbe sentire cosa ne pensa don Pino, ma non è più possibile.

Non è uno che piange, però questa volta ha gli occhi rossi. L’aria è stantia e malinconica, le voci dei ragazzi che presidiano il posto dove don Pino è caduto la attraversano come un vento fresco. Mimmo li osserva, radunati attorno alle macchie di sangue rosso-viola, che qualcuno ha tentato di lavare ma è stato cacciato via in malo modo, proprio da quei ragazzi. Come se l’amico fosse lì ad ascoltarlo, gli dice: «Di qualcosa bisogna pur morire, parri’, ma una cosa la so: tu hai trovato di che morte non morire».

Il tempo che resta è colonizzato dai bambini. Il mondo degli adulti prima o poi si spegne, esausto. Loro invece somigliano a germogli di grano che danno spazio alla possibilità di essere un giorno il pane di altri.

Per le strade di Brancaccio vagano, torme in cerca di giochi. Uno di questi è salire sul muretto che delimita la ferrovia e colpire i cani attirandoli con esche di carne marcia, rubata dal secchio di qualche macellaio. Chi sfracella la testa al cane vince, ma anche a chi lo prende sul corpo o sulle zampe vengono assegnati dei punti.

Francesco, in piedi sul muretto, ha una pietra in mano e sta per scagliarla contro il muso del cane. Non può essere da meno degli altri, che hanno già lanciato i loro proiettili senza esito. Il cane abbaia e cerca di addentare la carne, mentre latra contro i bambini-diavolo. Francesco scende dal muretto e gli si avvicina piano. Gli altri lo aizzano a colpire più da vicino.

È un bastardo e ha una delle zampe davanti ripiegata all’interno, come Nino lo sciancato, che chiede l’elemosina fuori dal super-mercato. Nero con le chiazze bianche a neve, sembra che qualcuno gli abbia spruzzato la candeggina addosso mentre lui cercava di scappare. Tra il cane e Francesco c’è il pezzo di carne. Il bambino si avvicina con il braccio sollevato, stringendo nel pugno la pietra, e il cane non sa decidere tra il pericolo e la fame. Sceglie la fame e si avventa sulla carne, ma l’altro è più veloce. Afferra il boccone e lo lancia lontano. Il cane si ferma, incerto, poi corre zoppicante nella direzione del cibo. Il branco urla inferocito e curioso. Francesco allora lo segue con la pietra carica in mano finché quello, mugolando, non sparisce dietro una macchina.

«Vattene, vattene via!»

Il cane lo fissa e abbaia.

Francesco finge di scagliare la pietra, lo mette in fuga. Gli altri bambini lo hanno perso di vista, gli dicono di tornare. Lui grida che il cane è scappato. E poi se ne va.

Lo trova dietro l’angolo a leccarsi la zampa, in attesa di tempi migliori per cercare la carne. Francesco prova ad accostarsi lentamente, gli si accuccia vicino.

«Hai fame?»

Il cane lo guarda, è mite solo perché disperato.

«Vieni con me.»

Il cane sa che quella è la sua ultima speranza.

«Come ti chiami?»

Lo annusa senza risposte.

«Se ti chiamo Pipino ti va bene?»

Continua ad annusare.

«Vieni con me, Pipino. Adesso ci penso io a te.»

Gli da una caramella che ha in tasca e quello gliela prende di mano, con delicatezza insospettata. Poi lo segue.

Temer si dee di sole quelle cose
c’hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, ché non son paurose.
I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.

Ricordo la volta in cui don Pino, per parlarci della paura, ha citato queste parole di Beatrice nell’Inferno dantesco. Solo ora le capisco fino in fondo. Il sacrificio di don Pino non è la sua morte, quella ne è la conseguenza. Il suo sacrificio è ciò che la parola sacrificio dice: fare sacre le cose. Don Pino rendeva sacro ciò che toccava, lo difendeva come la cosa più preziosa: bambino, ragazzo, uomo che fosse. Da qui derivava il suo coraggio. Leggo questi versi e li prendo come un testamento: non ho più bisogno delle parole-àncora di Petrarca, ma di parole-prua che contengano tutto il coraggio che serve per affrontare il mare aperto. Non è importante quanto il labirinto sia complesso, ma quanto forte il filo che ci lega all’amore.

La bambina. Dov’è finita la bambina? Mimmo ha un solo indizio: la bambola. Questa volta ha deciso di abbandonare i pensieri inerti, anche se perfetti, e mettersi per strada come quando era giovane e meno appesantito. La madre la cerca, è sparita. Mimmo ha raccolto testimonianze, idee, indizi. E l’ha trovata in ventiquattro ore, addormentata accanto ai binari.

La riconosce. Ha i vestiti lerci, le braccia e le gambe graffiate.

«Come ti chiami?»

Non risponde e cerca di scappare. Ma lui la tiene ferma con un abbraccio e le mostra la bambola. A poco a poco lei si lascia vincere da quella forza dolce.

«La tua bambola ti cerca, l’hai lasciata sola.»

Ha seguito i binari finché la stanchezza dell’infinita linea ferrata ha vinto le gambe di bimba. Si consegna al pianto impaurito dei bambini, quando cercano un appiglio.

«Mi sono persa.»

«E dove stavi andando?»

«Da mio padre.»

«E dove abita?»

«Alla fine.»

«Di che?»

«Dei binari.»

«E come si chiama?»

«Donpino.»

Ciò che inferno non è
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