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L’aggressione della luce si scioglie solo verso sera, nel mare. Questa è l’ora di resistere e restare, ma come fa a restare e resistere chi vive a riva? L’acqua salmastra, pur nella sua abbondanza, non serve a spegnere l’arsura dell’assetato e ogni uomo si scopre un’immortalità ferita.
Il ragazzo spasima per tutto e per niente. Don Pino spasima per la giustizia. Lucia spasima per la bellezza intatta di qualche sogno. Francesco spasima per i giochi con un padre. Maria spasima per un po’ di tenerezza di uomo. Manfredi spasima per una brillante carriera. I genitori per un figlio realizzato. Il Cacciatore spasima per una vita felice per i suoi figli. Nuccio spasima per il consenso dei suoi capi. Dario spasima per un po’ di purezza. Totò spasima per una bacchetta da direttore d’orchestra. Riccardo spasima per qualche spicciolo facile.
Sono tutte creature della vita. Tutte creature impastate di amore e di dolore. In loro si agita il Dio di ogni spasimo.
Il cuore impara a volere ciò che è oltremare per chi è nato qui. Si slancia in estasi continue, esce fuori di sé. Questo desiderio infinito che costringe il cuore a spezzarsi, se necessario, i più lo chiamano vuoto e lo risolvono con l’amore. Ma a Palermo ha un nome ben preciso: spasimo, per eccesso di mare da guardare, di viaggi da incominciare.
Per chi arriva, Palermo è tutto porto. Ma per chi vi è nato: tut-ta partenza, tutto desiderio, tutta fuga. In cerca di quello che c’è dopo, mai soddisfatti nel tempo del mai.
Da Tuttoporto originano infiniti viaggi reali e immaginari. È il debito da pagare alla città, ma ne è anche la dolce malia: il richiamo verso qualcosa che è sempre dietro l’orizzonte.
“A mmari a nnome ri Ddiu.” Così un pescatore inizia la sua giornata gettando le reti: “A mare nel nome di Dio”. Il Mediterraneo è il dono più fecondo della deriva dei continenti. Non c’è spazio più sacro e intriso di memoria di quel mare. Raccoglie il sudore dei pescatori ora, un tempo le lacrime degli eroi.
“A mare” e “amare” hanno lo stesso suono, e tutto ciò che è ambiguo qui è vero: il cuore spasima la vita e la vita non lo accontenta mai.
Il ragazzo, stranamente sprovvisto di libri, legge direttamente le pagine del mare e l’orizzonte somiglia all’ultima riga. Occhi e cuore prendono il largo: l’infinito non sta solo nei libri e nelle biblioteche. È in ogni quartiere. È in ogni vita che cerca il suo significato.
Più tardi si lascia il porto alle spalle e lentamente rientra nel ventre della città, dietro al porto. Nel quartiere della Kalsa: al-Khàlisa, l’eletta, dove abitava il sultano con la sua corte, perché le acque dolci del fiume Oreto risalivano verso il centro. Superato ciò che resta del fiume, si aprono quelle che nel tempo del “c’era-una-volta” erano le feconde terre di Brancaccio. Lì vicino ci sono il mercato, il palazzo e museo più bello di Palermo, l’orto botanico e la chiesa della Magione, dove un giorno si erano sposati i suoi genitori. Risale lungo via Romano Giuseppe. Via Santa Teresa. Via dello Spasimo. Sì, c’è una via a ridosso del mare che ha il nome del sentimento che prova chi si lascia il mare alle spalle. Ci sono città in cui le vie rendono il pellegrino della loro stessa sostanza, che lo voglia o no.
E c’è una chiesa in quella via, non dedicata a un santo o a una santa, ma a quel sentimento. Quella chiesa porta sì il nome di Maria, ma nessuno lo sa, tutti la chiamano: lo Spasimo. Ha il soffitto che non c’è, e dà sul cielo, come un porto dà sul mare. E per un attimo sembra che Dio possa scendere di nuovo in terra da quel soffitto che non c’è, come un marinaio che torna dalla sua spasimante.
Tutto porto per chi arriva. Tutto spasimo per chi resta. Città costruita sul paradosso, città in cui si è sempre in arrivo e in attesa.
Il ragazzo si siede sotto quel cielo ritagliato dalle mura della chiesa e fissa l’azzurro bruciato dalla luce.
Del sole lo sa. Ma dove sorge l’amore cambia sempre.
Proprio lo spasimo salva tutte queste vite? O le condanna?