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L’inferno ha una sua unità minima, uno stato molecolare identificabile: è l’interruzione del compimento, la compressione della vita, non la sua comprensione. Tutto ciò che la sporca, ferisce, chiude, interrompe, distrugge, e ogni possibile variazione sul tema dell’interruzione, è inferno. Per opporvisi occorre riparare, riannodare, restaurare, ricominciare, riconciliare…
Don Pino sa che l’inferno opera più efficacemente sulla carne tenera: i bambini. Bisogna difendere la loro anima prima che qualcuno gliela sfratti. Custodire ciò che hanno di più sacro.
Sa che solo i bambini entrano in cielo, o chi torna a essere come loro. Ma non perché siano buoni. Nemmeno lui era buono da piccolo. A messa non ci voleva andare e preferiva giocare, picchiare gli altri maschi e tirare le trecce alle femmine. Anche lui tormentava le lucertole e rubava le mele al fruttivendolo. Il cielo appartiene a loro perché dipendono. Sanno solo ricevere. Chi sa ricevere amore come un bambino dai suoi genitori abita il cielo, e ha sempre un posto in cui scappare, dentro. Dove quell’amore va a stanziarsi, senza poter più essere cacciato.
Don Pino sa che deve proteggere quel posto dentro ogni bambino, quel pezzo di bene che esplode come un seme, quel pezzo di anima che, se rimane intatto, può salvare. Prima è piccolo, piccolissimo, poi diventa radici, stelo, fusto, foglia, fiore, frutto.
A Brancaccio troppi bambini sono come semi nelle tenebre. Semi al rovescio. Non c’è lo spazio per un sogno, per la bellezza, per l’immaginazione. Troppi sono condannati a morire da vivi, troppi sono interrotti prima ancora di allungarsi verso la felicità.
Uno di questi è Giuseppe.
Don Pino ricorda tutto di quel ragazzino di tredici o quattordici anni, che aveva sorpreso a scassinare un’auto parcheggiata vicino alla sua.
«Che fai?»
«Che te ne fotte?»
«Quella è la macchina di un mio amico.»
«Peggio per lui.»
«Lascia stare la radio.»
«Sennò che fai, chiami gli sbirri? Panino amico degli sbirri. E sbirro pure tu.»
«Lasciala stare. Che te ne fai?»
«Di questa niente, però se la vendo mangio.»
«Lasciala stare.»
«E glielo dici tu a mio padre? Vieni tu a farti dare le cinghiate?»
«Te li do io i soldi per mangiare. Quanto tempo ci metti ad aprire una macchina e prendere l’autoradio?»
«Cinque minuti.»
«Saresti un bravissimo operaio, con le mani così veloci. Mio padre era un calzolaio e io lo aiutavo a riparare le scarpe. Tu saresti bravissimo.»
«Io non lo voglio fare il cazzolario.»
«Calzolaio, non cazzolario.»
«Io non voglio lavorare.»
«E che vuoi fare?»
«Quello che mi dice mio padre.»
«E se ci vengo io da tuo padre?»
«M’ammazza. Non ci devo parlare con gli sbirri. Mai.»
«Perché non mi vieni a dare una mano a fare il presepe? Serve uno con le mani buone.»
«Non ci vengo in chiesa.»
«Non devi venire in chiesa, devi venire a fare il presepe. A costruire le case con il legno, il polistirolo, il saldatore…»
«Che?»
«Vieni e vedi?»
«E quanto mi paghi?»
«Quanto ti danno per l’autoradio.»
«Non mi conviene. Ci vuole molto più tempo…»
«Ma non fai del male a nessuno.»
«Peggio per chi se l’è comprata, vuol dire che i soldi ce l’ha e se ne può accattare un’altra.»
Il proprietario della macchina era arrivato e il ragazzino era corso via, senza autoradio, scagliando una bestemmia contro Dio e un insulto a don Pino che gli aveva urlato la sua, di sfida:
«Ti aspetto per il presepe! Vediamo se te la fidi.»
Giuseppe si era presentato, attentissimo a non farsi vedere da persone che potessero riferirlo a suo padre.
«Che ci fai qui?»
«Sono venuto a vedere.»
«Ma non mi avevi mandato a quel paese?»
«Era per scherzo.»
«Su certe cose non si scherza. Come ti chiami?»
«Giuseppe.»
«Allora prima di fare il presepe bisogna chiedere scusa.»
«A chi? A te?»
«No, a Dio.»
«Perché, tu sei Dio?»
«No, ma tu gli hai detto quella malaparola. E gli devi chiedere scusa.»
«Ma perché, Dio ci sente? E come fa? Mica c’ha le orecchie.»
«E tu che ne sai? Guarda qui», don Pino aveva indicato le sue orecchie.
«Ma quelle sono le tue.»
«Appunto, le mie sono al servizio di Dio, per questo sono belle grandi. Lui fa così, chiede alle persone di prestargli orecchie, occhi, mani…»
«Sempre sbirro sei, anche se fai lo sbirro di Dio.»
«Per esempio, tu vuoi usare le mani per fare il presepe? Se lo fai, le tue mani diventano quelle di Dio.»
«Seee, vabbè…»
«Devi provare, e vedrai di cosa sei capace. Quando Dio usa una parte di noi, facciamo cose divine. Siamo come i pennelli nelle mani di un gran pittore.»
«Ma chi? Quello che dipinge le pareti? No, io non voglio essere un morto di fame.»
«Guardati le mani. Con quelle tu puoi far scendere Dio sulla terra.»
Giuseppe si era guardato le mani e gli erano sembrate quelle di sempre, ma ci aveva provato.
E il presepe del Natale 1992 era stato il più bello mai fatto a San Gaetano. Il ragazzino si era persino lasciato scappare che da grande avrebbe fatto quello che costruisce le cose di legno: il falegname.
«Anche Gesù faceva il falegname. Era stato suo padre a insegnarglielo, e si chiamava Giuseppe, come a te.»
«Ma Gesù quale?»
«Gesù, quello del presepe che hai costruito. Il figlio di Dio.»
«Miii, ma se era Gesù che bisogno aveva di lavorare?»
«Per te l’ha fatto.»
«Per me?»
«Per farti capire che il falegname è un lavoro che a Dio piace.»
Gli occhi di Giuseppe si erano accesi.
A don Pino era sembrato uno di quei fili d’erba che appaiono tra le fessure del cemento. Così sono tutti i bambini di Brancaccio: vengono iniziati all’inferno organizzando duelli alla morte tra cani randagi, seviziando gatti da gettare in pasto a quegli stessi cani da guerra o da impiccare. Poi ci sono lo spaccio, i furti, le botte, la prostituzione… La luce si oscura e viene sostituita dalla rabbia di chi distrugge e non sa neanche il perché, di chi impara a dominare pri ma di amare, di chi non sa che amare aggiunge qualche cosa alla vita e invece odiare lo toglie, ma odiare è più facile e immediato. È una sorta di anestesia che non fa sentire la vita e la luce. Molti di loro poi subiscono violenza sessuale dai ragazzi più grandi, così si abituano a essere sottomessi. E chi è dominato non sa più come si fa ad amare, perché non sa più come si fa a essere amati. Erano stati dei bambini a gridare: «Viva la mafia, la mafia vince!» quando Falcone era stato ammazzato.
Don Pino aveva cominciato a preparare Giuseppe per la prima comunione, ma quando gli aveva spiegato i dieci comandamenti, lui aveva protestato che non poteva. Il settimo non lo poteva rispettare: non rubare.
«Perché?»
«Perché se torno a casa senza niente mio padre mi prende a cinghiate.»
Giuseppe era sparito, non l’aveva più visto. Era ritornato nel cemento. Sì, in quello blindato del carcere minorile di Palermo: il Malaspina.
Oggi va a trovarlo. Il Malaspina è incastonato in un bel quartiere alla fine di via Notarbartolo, come una fortezza di rinnegati. Gli porterà anche un regalo. Prima però vuole chiamare Federico per sapere come sta.
«Bene, il labbro non mi fa più male. Lei?»
«Chi m’ammazza a me? Senti, oggi passo dalle tue parti.»
«Come mai?»
«Vado al Malaspina a trovare Giuseppe.»
«Chi è?»
«Un ragazzino che è finito lì per dei furti e che conosco bene.»
«Ma lei come fa a ricordarsi di tutti?»
«Dài, anche tu ti ricordi delle persone a cui vuoi bene, senza sforzarti.»
«Insomma… Ho fatto un macello a casa, don Pino.»
«Se vuoi ne parliamo. Mi accompagni da Giuseppe e poi mi racconti. Così ci salutiamo meglio, l’altro giorno è stato tutto un po’ confuso.»
«Va bene. Ma io posso entrare nel carcere?»
«Portati un documento e niente addosso. Se sei con me non ci sono problemi.»
«Speriamo.»