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Sono bambini come tutti i bambini, ma hanno il ghigno involontario dei randagi nelle notti di scirocco. Francesco li guarda. Ridono e ride anche lui, ma per finta, per non sentirsi solo.

Il cane ha una zampa frantumata, un occhio svuotato e il fianco impregnato di un liquido nerastro. Per mugolare così deve avere qualche altro squarcio nascosto e chiuso dentro il sacco di pelle. È un cane grosso come un pastore tedesco ma bastardo come pochi, lo tradisce la mescolanza incerta di colori e forme che si porta addosso. Da quella palazzina da sempre in costruzione e abbandonata per sempre, con i materassi e le siringhe, si vedono i tetti delle case e pezzi uniformi di cielo. Tutto è arrugginito e tagliente come i tondini che escono dai piloni di cemento, simili a cespugli di ferro.

Trascinano il cane sul bordo di quella che nel migliore dei mondi possibili sarebbe stata la stanza dei giochi di un bambino, dove il cane se ne sarebbe stato accucciato, a sognare cacce e carne. Francesco vorrebbe essere a scuola, ma sua madre stamattina non ce lo ha portato, e non gli ha neanche detto di andarci da solo. Non si è alzata. E quando è così a lui non va di fare nulla se non mordere la strada. La scorsa notte l’ha sentita ridere sino a tardi. E poi singhiozzare quando è rimasta sola. Lui la notte apre gli occhi e sente sua madre e gli uomini che ridono con lei. Poi li chiude e li riapre per vedere se sogna, ma i rumori anche nel buio rimangono lì. Così al mattino si è vestito da solo e ha seguito la strada. La strada prima lo ha portato alla macchina di don Pino e poi incontro a Nuccio e dopo dove vuole lei, dove dice lei, dove finisce lei.

Ora Francesco vorrebbe essere a scuola, con la maestra Gabriella, lei ha un buon profumo. In quell’aula piccola ci sono pareti colorate e non si sentono scricchiolare le ossa di un animale vinto in un duello tra cani mentre gli uomini scommettono sul loro dolore, di notte, negli scantinati di via Hazon. Quel cane non ha nome. Non ha nessun nome un cane da duello.

Sulla parete della classe c’è un cartellone con la lettera C grande e c’è disegnato un cane senza sangue e senza zampe spezzate. Un cane intero e pulito, come devono essere le cose. Un cane con gli occhi contenti. Ma si sa, a scuola ti insegnano le cose come devono essere, non come sono. Francesco vede la bava rossa colare dai denti mutilati del cane senza nome. Chiude gli occhi e li riapre, ma quella è rimasta lì, sgocciola. Non esistono miraggi, incubi, né tantomeno miracoli. Tutto è reale a Brancaccio, nel bene e nel male. Vorrebbe chiamare quel cane con un nome da cane, ma lui non li sa i nomi dei cani, sicuramente don Pino sì. Lo ripete dentro di sé, come se lo potesse sentire, il primo nome che gli viene: Cane. Vorrebbe vederlo rialzarsi sano come quello del cartellone della scuola. Ma un cane non sente se lo chiami solo Cane. Potrebbe provare con Carlo Magno, come quello dei Franchi. È un nome perfetto per un cane.

Sui cartelloni a scuola tutto è perfetto come deve essere: ciliegie, gnomi, farfalle, pesci, bottiglie… La maestra Gabriella conosce storie bellissime sulle figure disegnate, come quella del bambino che nuota così bene che sembra un pesce, e infatti lo chiamano Colapesce. Un giorno rimane dentro il mare per andare a cercare il fondo e tutti ancora aspettano che torni. Lui quando va al mare ha paura di trovarselo davanti, Colapesce. Di vederlo uscire dall’acqua. Per questo non si allontana mai dalla riva. Poi c’è la storia della sirena che vuole diventare ragazza e le spuntano le gambe, ma le fanno malissimo perché non le ha mai usate. A Francesco piacciono quelle storie in cui uomini e pesci si mescolano e non si sa più se uno è pesce o uomo o tutti e due. Il mare gli piace soprattutto quando ci va con sua madre, e lei si mette il costume verde e ha i capelli belli e sciolti. Andare sott’acqua, aprire gli occhi e vedere tutte le cose confuse come si vedono sott’acqua. E poi gli bruciano gli occhi. Ma gli piace il silenzio che c’è sott’acqua e anche andare dentro le onde, sotto le onde, con le onde. Solo il mare e la sua classe gli piacciono. A parte sua madre, le cose fuori dai cartelloni sono brutte. Le case non hanno il tetto e il fumo bianco che esce dal camino. I cani hanno la schiena spezzata e l’occhio svuotato. Le ciliegie non le ha mai viste e le bottiglie servono solo a essere rotte con le pietre.

E lui ha paura. Soprattutto quando fuori c’è il vento che fa sbattere le finestre aperte per il caldo, ma non ha il coraggio di alzarsi per andare a chiuderle, perché magari il vento lo cattura e lo fa volare via. E non ha un padre che lo vada a cercare e lo riporti a casa.

I suoi amici danno calci al ventre del cane, che incassa con un suono acquoso e sordo, poi mugola e striscia i denti contro i denti. Gli rompono le costole. Francesco non sa come ripararlo un cane rotto. Non gli resta che romperlo anche lui, perché non rimanga nulla di vivo e sofferente, che è peggio di morto.

Gli tira un calcio sul muso, che scricchiola. Il tremito gli si propaga dalla punta del piede fin dentro alla testa, come una frustata: per scrollarsi di dosso quell’angoscia dà un altro calcio e un altro ancora, sempre più forte. E l’inferno è quando non senti più il dolore del frantumare, non lo senti più nella spina dorsale, nel midollo, nella testa, nel cuore. L’inferno è l’anestesia di non sentire più vivere ciò che è vivo. Ma Francesco ha qualcosa che resiste dentro, anche mentre sferra calci contro la carne molle e sconnessa.

Ripassa le cose sui cartelloni, come la maestra chiede loro. Ripetiamo insieme. Per la lettera A l’ape che una volta lo ha punto; per la Z la zebra che gli ricorda la Juve e Roberto Baggio e vuole diventare come lui, anche se c’è chi continua a preferire Schillaci; il quadro della Q con quel paesaggio che ci vorrebbe andare dentro e l’uovo della U, che gli piace quando la mamma gli fa lo zabaione con lo zucchero. Non si ricorda il disegno della I. Non se lo ricorda proprio. E allora dà altri calci e sembra tutto tranne che un bambino. Lui e i suoi amici si dissetano con quel rompere, ferire, distruggere. L’occhio smarrito del cane si apre a ogni colpo, più vacuo.

Poi spingono giù la carcassa ancora ansante, cercando di centrare uno dei piloni con i tondini sporgenti. Il cane ci finisce di lato e uno dei pezzi di ferro arrugginito lo perfora, lacerandolo come la carta. Guaisce un lamento roco, poi rimbalza sul terreno, e gli si spappola il ventre, libero di riversarsi fuori. Un’ultima convulsione decreta la fine dell’istinto di sopravvivenza.

I bambini gridano. La bestia è morta. Chi perde se lo merita di morire. Ridono. Esultano come folli che conoscono solo il gioco di sacrificare al dio senza volto del disamore.

Francesco riapre gli occhi che ha chiuso per la paura, ma le cose stanno sempre lì e vede il sangue sparso come un fuoco d’artificio attorno al cane e le mosche e le vespe già fioccare. Continua a non ricordare il cartellone della lettera I. Esulta anche lui, non sa che altro fare, la follia del branco lo possiede e sente l’ebbrezza della distruzione nelle braccia esili.

Può essere solo la I di inferno. Però l’inferno non sta nei cartelloni dei bambini di prima elementare, al massimo c’è il fuoco alla F, ma inferno e fuoco non c’entrano niente, l’inferno è pura sottrazione, è togliere tutta la vita e tutto l’amore da dentro le cose.

Ciò che inferno non è
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