31

Il giorno del compleanno si festeggia il fatto che non siamo immortali.

A vent’anni - qualcuno dice - hai ancora la faccia che ti hanno dato, ma a cinquanta hai quella che ti sei meritato. Lui ne compie cinquantasei e il suo volto ha una geografia molto chiara: le depressioni scure delle occhiaie scavate dalla stanchezza e i rilievi morbidi e diffusi del sorriso. Solo questo: amore e dono. Per il resto la sua è ancora la faccia di un bambino.

Il 15 settembre è un giorno di luce perfetta, non lascia scampo alle cose oscure. Ci sono, ma sono parvenze, ombre forti destinate a consumarsi. È per sottrazione di luce che vincono le tenebre, vittoria apparente e temporanea.

L’azzurro brilla nell’oro “meravigliosamente”, come scrisse il primo dei poeti di una terra dai colori folli che qui sono naturali: amaranto, arancione, vermiglio, avorio, lilla, mandorla, menta, corallo. Ma a guardar bene nella città degli uomini smalti e macerie si sovrappongono, come paradiso e inferno. E mentre una madre dà una carezza a un bambino e uno sposo dà un bacio alla sua sposa, altri massacrano i volti, le schiene, le vite.

Nel pomeriggio Lucia e i bambini sono impegnati nelle prove generali dello spettacolo. Eccitazione, paura, concentrazione si sommano sul palco generando lo stesso smarrimento di chi crede di aver dimenticato tutto ciò che ha studiato, subito prima di un esame. Ma quando ci sono dei bambini finisce per prevalere sempre l’allegria di un gioco libero dal giudizio e dalla prestazione: ciò che conta è essere lì, tutti insieme. Tutti in attesa della pizza per festeggiare don Pino, dopo lo spettacolo.

«Gli facciamo una sorpresa. Andiamo sotto casa sua e gli cantiamo “tanti auguri a te”» spiega per l’ennesima volta Francesco agli altri, che lo sanno benissimo, ma gli piace rigirarsi le sorprese in bocca, come le caramelle.

«Mi raccomando, però, non dovete dirgli niente» ribadisce Lucia.

A me oltre alla parte di Carlo Magno tocca quella del mago Pipino, alias don Pino, che poi la interpreterà a sorpresa.

Con la sua spada finta Totò ne annuncia l’ingresso.

Orlandino urla come un disperato:
il malvagio Gano lo ha rinchiuso
nella torre del castello abbandonato,
quel cornuto traditore e fituso!
Dispera ormai di essere salvato,
morirà di fame in quel pirtuso.
Ma una luce risveglia il paladino
e d’incanto appare il mago Pipino.

Entro in scena con una barba finta che mi fa sudare anche i denti e un cappello da mago Merlino che mi cade sugli occhi. E scoppio a ridere.

«Non ce la faccio. Mi viene troppo da ridere con sto mago Pipino.»

«Sì, è un nome strano!»

«Ma dài, è per prendere in giro don Pino.»

«Appunto.»

Lucia rimprovera i bambini e loro subito tornano sull’attenti.

«Riprendi dagli ultimi due versi, Totò. E non ti ci mettere pure tu!» mi apostrofa.

Ma una luce risveglia il paladino
e d’incanto appare il mago Pipino.

Cerco di trattenere il riso dandomi un pizzicotto sulla coscia.

«Non aver paura, ragazzino. Ci sono qua io.»

«E chi sei tu, non ti conosco. Mi vuoi uccidere?»

«Ma che uccidere! Ti sembra che uno con questa barba possa fare qualcosa di male?»

«Io non so se fidarmi di una barba.»

Orlandino tocca la barba del mago, che si è chinato su di lui.

«Sono qui per liberarti dalle grinfie di Gano.»

«Ma anche se esco e mi salvo la vita, dovrò andare via.»

«No, se avrai coraggio e ti farai aiutare dai tuoi amici. Insieme a loro metterai in trappola Gano e potrai essere il vero e unico erede di Carlo Magno.»

«E come?»

«Avvicinati.»

Orlandino gli porge l’orecchio e il vecchio Pipino gli dice qualcosa che il pubblico non può sentire. Il volto di Orlandino si illumina, ma in quel momento entra Gano e ingaggia un terribile duello con il mago.

«Scappa, Orlandino, scappa. Non ti preoccupare per me. Io ci sarò sempre.»

Orlandino è titubante.

«Vai! Non rendere tutto vano e fai quello che ti ho detto.»

Orlandino esce di scena.

Il duello contìnua e Gano trafigge il vecchio, armato solo di un bastone che nulla può contro l’acciaio del cavaliere.

Gano si lancia all’inseguimento di Orlandino imboccando la stessa uscita.

Il corpo del mago rimane inerte al centro del palco.

I bambini lo fissano in silenzio, come se fosse morto davvero.

«Benissimo! A questo punto calano le luci. Pipino esce di scena. Tocca a Orlandino chiamare a raccolta i suoi amici e confidare loro ciò che gli ha detto il mago. Tutti lo seguono pieni di stupore ed entusiasmo. Così il pubblico è sempre più curioso di conoscere il piano.»

Quando un branco di lupi non riesce a trovare più prede, a far bottino, ad azzannare e nutrirsi, quando un branco di lupi perde il proprio territorio di caccia, le tane, la forza, reagisce massacrando il più debole del branco. Si nutre della propria carne. Gli uomini-lupi fanno allo stesso modo, sacrificano chi gli è vicino per sentirsi forti. E scelgono il più debole. Così recuperano controllo e potere. Ma tra gli uomini accade che proprio il sacrificio del più debole risvegli chi se ne stava in disparte, indifferente o impaurito. Il suo sangue nutre loro più dei lupi che lo hanno divorato. Il 15 settembre un branco di lupi affamati si aggira per Brancaccio senz’altra meta che la fame.

Don Pino arriva in ritardo, le coppie del corso prematrimoniale sono lì ad attenderlo da una mezz’ora. È una giornata come tante altre, ha celebrato due matrimoni e ha partecipato a una riunione a palazzo delle Aquile per l’ennesima richiesta dei locali in via Hazon. «Scusatemi.»

«Ma anche quando è nato è arrivato in ritardo?»

«Tu scherzi, ma sai che all’anagrafe mi hanno segnato per errore il 24 settembre, e io invece ero nato il 15? Ho nove giorni di bonus, per quello arrivo sempre in ritardo.»

«Mi sa che il bonus lo ha esaurito da un pezzo…»

Don Pino li guarda con calma e gratitudine. Li ha seguiti in quei mesi per condurli al sacramento del matrimonio, ormai imminente. Poi, assorto, dice: «La cosa importante non è l’abito, né il ricevimento. La cosa importante è che in due diventate Cristo. La vita di Cristo entra in voi e da quel momento il vostro amore risorge ogni volta che muore. Non è una magia, è ciò che accade realmente se gli date spazio nelle e con le vostre vite».

I futuri sposi lo ascoltano con gli occhi di chi sogna un amore che non si stanca.

«Se vissuto così l’amore umano - con le debolezze, le imperfezioni, le cadute - può essere un vero angolo di paradiso. In tanti stanno nel matrimonio come all’inferno… ma non sarà il vostro caso. L’inferno è se non vi amate. Me lo promettete?»

«Certo, sennò venivamo qui?» dice un ragazzo. Si avvicina a don Pino e gli parla all’orecchio, facendo scivolare una busta nella tasca della giacca: «Questo è il nostro contributo per il centro Padre Nostro. Non è tanto, ma è quello che posso fare col mio lavoro».

Don Pino lo abbraccia.

«Grazie, figlio mio. A forza di cose piccole ne stiamo facendo una grande. Riusciremo a trovare questi trecento milioni, un pezzettino alla volta, come il mosaico di Monreale.»

«Ma a che punto siamo?»

«A più di metà. Però i lavori in chiesa sono bloccati. Mi sa che la ditta si è piegata a qualche pressione. Come si deve fare?»

Le parole rimangono sospese e le spazza via l’improvviso coro di auguri di buon compleanno da parte di quelle giovani coppie per le quali don Pino non ha risparmiato sforzi, sorrisi e qualche rimprovero. A loro si aggiungono gli amici più intimi con un vassoio di cannoli e cassatine, su una delle quali è infilata una candela. Don Pino la fissa con un sorriso che è un porto accogliente.

Li guarda.

«Grazie.»

E spegne i suoi cinquantasei anni.

Non c’è un centimetro di luna nel cielo. Il giorno seguente sarà luna nuova. C’è spazio solo per le stelle e la luce dislessica dei fanali in quel buio non ancora compiuto. La notte già inchiostra il mare e con calma accarezza l’immenso porto, le cui luci fanno eco alle prime stelle. Sembra che possa accadere qualunque cosa, una creatura uscire da quel liquido nero sotto forma di sirena, di tritone, di mostro marino.

E dalla notte escono in quattro, come lupi affamati, cavalieri di un’apocalisse provinciale. Un branco di demoni gobbi nel buio che acceca. Corrono a pagare i loro debiti con il dio dello scirocco. Il mare rallenta e quasi diventa di marmo, si dispone ad ascoltare il sabba di demoni tra le strade deserte di Brancaccio e il passo lieve di un uomo piccolo. I lampioni ingialliscono il buio senza riuscire a rapirgli un senso. E i demoni avanzano per interrompere, ostacolare, frantumare, calpestare, schiacciare, perforare Dio e scompaginare i suoi piani. Spezzargli le ossa. Slogargli i muscoli. Cavargli gli occhi. Mettergli il ferro nella carne. Chiudergli la bocca. Fermargli il cuore. Fargli la festa di compleanno.

Una sigaretta tira l’altra, per stemperare la tensione. Devono solo annusare le tracce di quel prete, seguirle, afferrarne i movimenti per colpire quando sarà il momento opportuno. Ma il momento opportuno è subito perché quei movimenti, quei passi, quelle tracce non hanno niente di speciale: il prete se ne torna a casa da solo per le strade del quartiere, poi entra in una cabina telefonica.

«Facciamolo subito» dice ’u Turco.

«Senza moto?» chiede il Cacciatore.

«E che bisogno c’è? Quello è solo. Deve sembrare una rapina.»

Si precipitano al magazzino. Il Cacciatore vaglia le armi. Basta una calibro 7.65. Non servono i soliti fucili a pallettoni, o una calibro.38, o una.357. Per un compleanno basta una candelina piccola piccola.

A sparare sarà lui.

Per un attimo si chiede perché, e la risposta è una sola: perché gli è stato ordinato.

Non prendono neanche le macchine rubate, ma quelle che usano abitualmente. Sarà un gioco, persino troppo facile per il gruppo di fuoco più spietato della storia della mafia, cos’è mai questa debolezza contro cui stanno per scagliarsi come una folla inferocita?

«Maria, ascoltami. Devi trovarti un lavoro. Te li do io soldi per ora, ma tu promettimi che smetti di prostituirti. No, Maria, me lo devi promettere. Adesso, sì, adesso. Fallo per Francesco. No, non piangere. Ascoltami! Vai in quel centro che ti ho segnalato. Puoi stare là, mangiare là, ti aiuteranno a trovare qualche lavoretto. Ho ricevuto una donazione per te. La prossima volta ti porto la busta, I soldi saranno sufficienti intanto che cerchi un lavoro. Ce la fai, tu sei una ragazza forte, sei una madre splendida con un figlio splendido. Ora ti saluto. Non piangere. Io ci sono sempre. Vedrai che andrà tutto bene.»

Esce dalla cabina e si avvia verso casa. L’ultimo che incontra è Riccardo, gli fa gli auguri di compleanno e gli dà due baci.

«Don Pino è fatto vecchio!»

«Ma che dici, ancora un ragazzino sono.»

«Buon compleanno, parri’», gli strizza l’occhio e si allontana di corsa.

Lo aspettano con due macchine, le braccia penzolano fuori a lasciar svaporare il fumo e cadere la cenere, una coppia in una e una di appoggio nell’altra. I due che non guidano scendono contemporaneamente. Ormai vicino al portone, don Pino cerca nel borsello le chiavi, ma non fa in tempo ad aprire.

Un uomo che non ha mai visto gli sbarra la strada. Sta per chiedergli se gli serve qualcosa, ma quello lo precede.

«Parri’, questa è una rapina!»

«Me l’aspettavo.» Gli sorride, don Pino.

Il Cacciatore, che intanto si è portato al suo fianco, gli spara da venti centimetri come l’ultimo dei traditori, che non ha il coraggio di guardare in faccia l’avversario. Ma quella posizione di tre quarti gli basta a vedere il sorriso.

Le ultime parole di un uomo sono ciò che conta.

Sono il sigillo della sua vita.

Lui dice: “Me l’aspettavo”.

Lui dice che era pronto, alle 20.40 del 15 settembre 1993.

E sorride.

Questa è l’ultima parola.

Aspettava la morte.

L’aspettava come chi va a un appuntamento o riceve una visita a lungo attesa.

Lui muore con un sorriso.

E non vede i suoi due assassini ma due figli: li aspettava, con un sorriso, come un padre che corre incontro al figlio lontano da tempo. Vede attraverso di loro, vede oltre loro. E in quello sguardo loro vedono se stessi com’erano da bambini, il Cacciatore aveva un altro soprannome: Ricciolino. Era il nomignolo con cui lo chiamava sua madre. Quel sorriso lo riporta lì, quel sorriso gli dice: non sai quel che fai, tu sei altro. Quel sorriso è il castigo peggiore che possa capitare a un assassino, e il Cacciatore non potrà più dormire la notte. Ci sono delitti che cercano i loro castighi e finiscono col trovare solo il loro perdono.

Don Pino ora vede chi lo aspetta.

Vede chi ha sempre visto in tutte le cose.

Sente il peso che lo schiacciava farsi slancio, come le ali immense di un re delle altezze.

Vede Dio. Faccia a faccia. E gli sorride.

La Beretta semiautomatica calibro 7.65 silenziata spara a venti centimetri dalla sua nuca. È una pistola da ladro di basso livello, da dilettante. Ma da così vicino basta e avanza.

Il colpo esplode sulla nuca e segnala all’anima la via da cui uscire.

Don Pino cade, e con le labbra bacia la strada. Il sapore amaro del sangue si mescola a quello della polvere.

Gli strappano via il borsello. Deve sembrare la conseguenza non cercata della rapina di un disperato.

Il corpo rimane per terra. Sono quasi le nove.

Il branco si rintana nel magazzino di un’impresa di trasporti e spedizioni, il posto migliore per chi spedisce le anime nell’aldilà. Al Cacciatore trema la mano. Mette via la pistola e apre il borsello del prete.

«Stavolta la benedizione gliel’abbiamo data noi.»

Trova la busta. Ci sono cinquantamila lire e un biglietto di auguri: “A don Pino, che ci ha trattati come un padre, quando gli altri ci giudicavano e basta. Auguri di buon compleanno”.

«Anzi, gli abbiamo fatto un bel regalo di compleanno. Guarda qua!»

C’è un’altra busta con molti soldi dentro. C’è scritto “Per Maria”.

Il Cacciatore la mette in tasca senza farsi vedere. 1 soldi del corso di inglese di Federico.

Non ci trovano altro. Niente biglietti segreti, nessuna traccia di collaborazione con gli sbirri, contatti con la polizia. Niente. Solo qualche banconota, la patente, e quella lettera di buon compleanno.

L’altro stacca le marche da bollo dalla patente.

«Queste possono sempre servire.»

Se le dividono tra loro, una ciascuno.

Ridono soddisfatti. Bevono una birra ghiacciata, che rilassa le fronti glassate dal sudore della tensione.

«Adesso tocca alla tabaccheria» dice il Cacciatore, preso da un tremore febbrile.

«Seratona! Che dobbiamo fare?»

«Bruciarla.»

D branco ha ancora fame. Troppo debole la preda appena sacrificata. E ne avrà sempre di più. Quel branco di lupi prepara un attentato mai compiuto nella storia della mafia: una macchina piena di tritolo davanti allo stadio Olimpico di Roma, da far esplodere all’uscita dalla partita. È il grande salto. Lo scacco matto a quell’idolo di cartapesta che è lo Stato, che, come dice la parola, è sempre un participio passato, mentre loro sono il presente e il futuro.

Ciò che inferno non è
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