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Credo sia la quindicesima volta che rileggo la stessa pagina. A volte ho il cervello così prigioniero che neanche i libri riescono nel loro incantesimo. In mezzo alle parole stampate se ne inserisce continuamente una che mi fa perdere il filo. O mi fa prendere il filo che porta al centro di me stesso? Lucia. Io adesso devo leggere questo libro interessantissimo, mentre la musica in sottofondo attutisce i rumori della strada. Devo sognare il viaggio in Inghilterra e concentrarmi sulle cose da mettere in valigia. Lucia. Devo smetterla di perdere il controllo delle parole che penso. Devo trovare il modo. Lucia. Devo trovare. Lucia. Devo. Lucia. Adesso basta!
Benché io sia una serie di benché, non ho che pensieri d’amore, perché forse è l’amore che unifica le tessere, i pezzi, i frammenti e li fonde nell’oro. E l’amore è in agguato sempre sul far della sera. Amore con la maiuscola, come lo scriveva Petrarca, come un dio in incognito che all’improvviso ti ritrovi in stanza a scombiccherare tutto, ti rimescola le viscere e non puoi far altro che startene sdraiato a guardare il soffitto, mentre dalla radio viene fuori la voce malinconica di Battiato.
Man manu ca passunu i jonna
sta frevi mi trasi ’nda ll’oss
ccu tuttu ca fora c’è ’a guerra
mi sentu stranizza d’amuri… l’amuri…
Come fanno gli scrittori a pensare i nostri pensieri? Forse siamo noi a pensare i loro? Lucia abbassa il libro di cui ha letto solo le prime parole -… il cielo era stellato, sfavillante, tanto che, dopo averlo contemplato, ci si chiedeva involontariamente se sotto un cielo simile potessero vivere uomini irascibili -, si avvicina alla finestra aperta da cui si vede una scaglia di cielo e appoggia le braccia al davanzale. Pensa ai suoi fratelli. Ai suoi genitori. Ai bambini del centro di don Pino e allo spettacolo che stanno preparando. Pensa a tutto il bene e a tutto il male che ci sono sotto il cielo. Proprio sotto quel cielo ci sono uomini che fanno il male, nonostante quel cielo. Per un attimo vorrebbe fuggir via dai suoi sedici anni, averne il doppio ed essere chissà dove, sotto un cielo altrettanto bello, ma tra uomini più miti. Ripensa al ragazzo che ha conosciuto per caso, così ingenuo rispetto al suo quartiere e al suo mondo.
Suo padre si affaccia nella stanza e la trova lì. Le poggia la mano callosa da muratore sul capo e le offre una carezza discreta per dirle che è tardi. Lei appoggia la guancia e si abbandona, come se il padre potesse cullarle il volto.
«Che fai ancora sveglia?»
«Leggevo, e poi mi sono venuti dei pensieri.»
«Che pensieri?»
«Niente, pensieri.»
«Stai tranquilla, va tutto bene. Ora riposati.»
«Come lo sai?»
«Cosa?»
«Che va tutto bene.»
«Se uno fa il bene, va tutto bene. E tu sei una ragazza buona. Il resto si risolve.»
Lucia sorride con gli occhi screziati di malinconia. Vorrebbe credergli, ma conosce troppo bene i limiti del mondo che le è toccato in sorte. Non basta essere buoni in quella città.
Sognare è un lusso che può permettersi solo leggendo.
Vorrei leggere un milione di libri, visitare migliaia di città, imparare centinaia di lingue e cogliere l’essenza delle cose. La verità, se ce n’è una. Voglio essere forte, coraggioso, come Falcone e Borsellino, o almeno come Manfredi. Ma dove lo trovo il coraggio? Forse dovrei fare due chiacchiere con don Pino, ma ho paura che poi mi parli di Dio e di Dio non ne voglio sapere, perché voglio essere un uomo libero, senza dieci comandamenti, sette sacramenti e non si sa quante beatitudini. A me basta un po’ di verità. Una donna da amare e qualcosa di buono da fare per i miei amici. Non c’è bisogno di Dio per queste cose. A Dio ci penserò da postumo. Postumo è una parola che mi affascina: l’essere pubblicati da morti, come il mio amato conterraneo Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che mia nonna vedeva tutte le mattine far colazione con la granita e la brioche mentre scriveva già nuove pagine, alla faccia di quelli che gli rifiutarono il romanzo più bello del Novecento. Postumo.
Se i miei pensieri risuonassero fuori dalla mia testa credo che finirei in ospedale psichiatrico. Non mi consola la cosa che mi ha spiegato Manfredi: i pensieri ricorrenti sono solo i nostri circuiti più utilizzati, i percorsi noti, le sinapsi oliate. Io ho oliato gli ingranaggi inutili. La scienza spiega il come, e non mi basta.
L’unica materia scientifica che mi piace è la chimica, soprattutto la tavola periodica. Assomiglia alle lettere dell’alfabeto, deve essere per quello. Come le parole, la tavola periodica mi tranquillizza. Nonostante l’apparente molteplicità, c’è un elenco finito di elementi, posizionati in ordine. La nostra professoressa ci ha spiegato i più importanti e i più strani. Quello in cui mi riconosco è il francio. La sostanza più instabile della tavola periodica: ventidue minuti. La sua consistenza non supera i ventidue minuti, se va bene. In questo preciso momento sulla faccia della terra sono presenti soltanto ventotto grammi di francio, poi decade.
Mi assomiglia il francio. Le mie certezze decadono continuamente. Non durano più di ventidue minuti, e hanno all’incirca la consistenza di ventotto grammi. L’ho ribattezzato federicio, perché devo essere io il portatore di quei ventotto grammi.
Vorrei essere più stabile, come il carbonio dei diamanti, ma a me è toccato il trancio, anzi, il federicio.
Sono ragazzi che pensano i pensieri muti della notte. E i ragazzi, a differenza del mare, comprendono sempre tardi le novità che accadono dentro di loro.