13

«Tu qui non ci devi venire, l’hai capito?» mi dice un ragazzo più grande di me.

Sono in due e mi spingono contro un muro. La strada è malinconicamente deserta, solo le televisioni mai esauste riempiono il silenzio. Il mare è lontanissimo e messo a tacere. La saliva si secca nella gola.

«Che faccio di male?»

«Che fai? Stai con quel parrino scassaminchia. E poi le ragazze di qui non le devi neanche guardare.»

«Ma di che parli?»

«Nuccio, questo fa il minchione.»

Un pugno mi raggiunge in faccia prima che io riesca a ripararmi. Per un attimo un lampo di luce mi brilla negli occhi, poi nero.

L’adrenalina esplode nelle gambe che si mettono a correre da sole sorprendendo gli aggressori. Ho la bocca piena di un sapore amaro e i polmoni che bruciano, ma corro come un dannato. Il vicolo che mi era sembrato piccolo, adesso è infinito. Sono più veloce di loro, se esco da qui mi posso salvare. Ma spuntano altri due e bloccano la via di fuga. Non riesco a frenare, finisco tra le loro braccia. Non c’è tempo per le parole, non servono a niente le parole.

Mi piego su me stesso e cerco di controllare la morsa che mi si stringe attorno, ma un calcio mi raggiunge al ginocchio e mi frusta per terra, non so se con la gamba tutta intera. Scalcio con l’altra gamba e un dolore di lama mi taglia la schiena, mentre colpisco il nulla. Qualcuno mi prende per i capelli e mi sbatte la testa contro l’asfalto, sangue sugli occhi. Un calcio nello stomaco, la saliva si trasforma in liquido denso e amaro.

«E ringrazia che non t’ammazzo. Non ti far vedere mai più» dice la voce di prima, resa opaca dal sangue che mi copre il viso.

Resto a terra, cercando respiro nei polmoni svuotati dalla paura. Quando vedo le ombre di quei quattro allontanarsi, apro le braccia per capire se sono ancora attaccate al corpo. E il corpo lo sento sparso dappertutto mentre fisso il cielo, con la gola di cuoio per l’arsura.

Adesso so cos’è la violenza.

Provo a sollevarmi, ma ho le ginocchia molli. E l’occhio si chiude da solo. Con una mano che quasi non mi appartiene tocco i capelli: sono umidi di sangue.

Mi tiro su a sedere contro il muro. Vorrei piangere, ma la rabbia e il dolore non lasciano spazio all’autocommiserazione.

Solo il mare adesso vorrei sentire sul viso, e il suo vento.

Vorrei essere in Inghilterra o da qualsiasi altra parte, non qui, all’inferno.

Passano i minuti, forse le ore. La strada è ormai quasi buia, se non fosse per la luce giallastra delle lampade appese a un filo tra le case. Se provo a muovermi il dolore mi squassa il petto.

A trovarmi è Lucia, ed è l’ultima cosa che vedo. Sento urlare parole confuse, poi le tenebre.

Ciò che inferno non è
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