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«Mi racconti la storia di Turiddo?»
«Di nuovo?»
A don Pino piace raccontare storie. È il modo migliore di insegnare, lo dice spesso ai suoi alunni: parlare viene da parabolare, raccontare storie. Insegna ininterrottamente, e da quindici anni anche a scuola, sebbene negli ultimi tempi abbia dovuto diminuire le ore per occuparsi del quartiere. I ragazzi che ha incontrato nelle aule scolastiche in questi quindici anni sono migliaia. Diciotto ore in diciotto classi diverse di un liceo pubblico affollatissimo. In ogni classe ha avuto ogni anno tra i venti e i trenta studenti. Sono quasi diecimila gli studenti a cui ha sorriso in quindici anni. E lui sa quanto può fare almeno un sorriso alla settimana nella vita di un ragazzo. Non lascerà mai l’insegnamento. Chissà se alla fine della vita arriverà a centomila alunni. Ci si cambia una nazione con centomila ragazzi. Ma anche diecimila possono bastare per una rivoluzione. Ogni insegnante è il potenziale bellico più pericoloso di uno Stato, fusione capace di innescare reazioni atomiche insospettate.
Un tempo era sua madre a raccontargli le storie, quando non avevano il televisore, e nemmeno la radio. Erano storie della tradizione popolare, che a Palermo si infilano nei vicoli e vi rimangono incastrate come un’ancora. Un popolo che non perde i suoi racconti ha qualche speranza di salvezza.
«Allora?»
Francesco con le dita a forma di becco rovesciato fa quel tipico gesto che in Sicilia si usa per chiedere qualcosa, facendo scattare due o tre volte la mano con le dita raccolte a punta verso il proprio petto, come a bussarci contro.
«C’era una volta un ragazzo di nome Turiddo…»
«No, no. Me la devi raccontare con prima il pezzo di tua madre, che era una sarta e aveva le mani velocissime…»
«Testa dura sei.»
«Come te.»
«Un giorno mia madre, che era una sarta e aveva le mani velocissime quando cuciva i vestiti, mi disse che Dio è come una madre per la sua misericordia e come un padre per la sua forza, l ì io che capivo la forza, ma non la misericordia, le chiesi di spiegarmi. Lei era una donna semplice, senza tanti studi, ma sapeva raccontare storie per spiegare le cose complicate. E mi raccontò la storia di Turiddo.»
Gli occhi di Francesco si dilatano, nell’attesa che, una volta di più, una favola gli sveli i segreti del mondo. Non c’è distrazione che tenga quando una storia è buona. Spariscono i pensieri inutili e persino i dolori più nascosti. Svanisce tutto. Entra in scena Turiddo.
«C’era una volta una madre che aveva perso il marito e i figli a causa della peste. Gliene era rimasto uno solo, di nome Turiddo, il suo preferito. E per tirarlo su come si deve la povera donna doveva spaccarsi la schiena giorno e notte. Lavava i vestiti alla gente ricca, così poteva comprare i fichi d’india al bambino e farlo crescere bene. Gli piacevano tanto, soprattutto quelli rossi, come i suoi capelli. Così poteva crescere bene. E infatti si fece un ragazzo robusto e pieno di sogni. Ma cominciò a frequentare amici con l’anima color della notte che passavano tutto il tempo a giocare a carte. Un po’ vinceva, ma era più quello che perdeva. La madre lo aspettava sempre, anche fino all’alba, seduta in cucina. E gli faceva trovare un piatto di fichi d’india rossi e freschi. Lui li mangiava senza dire niente, ma dentro di sé giurava che avrebbe cambiato vita.
Un giorno Turiddo perse gli ultimi soldi che gli erano rimasti e impegnò quelli che avrebbe guadagnato in futuro. Doveva pagare il suo debito, altrimenti i compagni di gioco lo avrebbero ammazzato di legnate, impiccato o annegato come un asino vecchio. Allora fuggì nella notte e si sedette su un muretto con la testa tra le mani e il dolore tra le costole. I cani abbaiavano e la luna per la paura era quasi scomparsa. Poi qualcosa si mosse. Era il gigantesco mantello di un uomo con un cappellaccio più buio della tenebra, così grande che gli copriva anche il volto. Turiddo si spaventò.
“Chi sei?”
“Io posso aiutarti” rispose quello.
“Come?”
“Vieni domani a mezzanotte al Bivio dell’impiccato con il cuore di tua madre e io ti darò i soldi che ti servono.”
“Ma tu chi sei?”
Non ci fu risposta e il mantello venne inghiottito dalla notte.
Turiddo si disperò ancora di più. Non poteva fare del male a sua madre, che aveva sofferto tanto per farlo diventare un bravo ragazzo. Ma l’abbaiare dei cani gli ricordò che lo aspettava una morte atroce se non pagava il debito. E così la notte successiva mentre dormiva le squarciò il petto con un coltellaccio e le strappò il cuore. Lo avvolse in uno strofinaccio e si avviò di corsa al Bivio dell’impiccato. La notte era più scura del buio. Le stelle erano sparite. La corsa di Turiddo era folle e affannata, tali erano la paura e la rabbia per ciò che aveva fatto. Ma soprattutto perché il cuore della madre, stretto sotto al suo braccio, non cessava di battere e somigliava tanto a quei fichi d’india che lei gli faceva sempre trovare. Voleva liberasene quanto prima e l’ora dell’appuntamento stava per scoccare. La strada era accidentata e Turiddo nella foga della corsa inciampò. Il cuore che ancora batteva, tutto inzuppato di sangue, uscì dallo straccio e rotolò lungo il sentiero. Turiddo sentì fuoriuscirne una voce sottile. Si credette pazzo, ma quando si chinò per raccoglierlo, la sentì nitida, accorata e lacerante, quella voce nella notte muta: “Figghiu miu, sangu miu. Ti struppiasti?”.
Quel cuori- chiedeva al figlio, al sangue del suo sangue, se si fosse fatto male.»
Francesco ha la bocca aperta, meraviglia e silenzio sono la verità di una storia. Se, una volta finita, si torna ai pensieri di prima o si prende subito la parola la storia è una cattiva storia, o è cattivo il narratore. Se chi ha ascoltato o letto rimane in silenzio, magari a bocca semiaperta, si può stare sicuri che quella è una buona storia e finirà col liberare qualcuno dalla prigione della disperazione o della noia, che sono la menzogna della vita. Per questo solo i bambini sanno ascoltare una storia, anche quando la storia è sempre la stessa, perché ad ascoltare la verità loro non si stancano mai.
«Turiddo pagò il debito. E quando tornò a casa trovò un piatto di fichi d’india freschi sul tavolo e pianse tutte le sue lacrime… Mia madre mi disse che Dio è come quella madre. Un figlio per lui resta sempre un figlio.»
«Perché ti piace tanto questa storia, don Pino?»
«Perché mi ricorda mia madre. È lei che mi ha insegnato a perdonare.»
«Ma poi a Turiddo come gli andò a finire?»
«Non lo so. Mia madre non me lo ha raccontato. Chissà, magari si è pentito.»
«O è andato all’inferno…»
«Con una madre così?»
«Se uno ha una madre buona non ci va all’inferno?»
«No.»
«Anche se lui è cattivo?»
«Anche se lui è cattivo.»
«Tu ci sei mai andato all’inferno?»
«Ogni tanto.»
«E com’è?»
«Qual è la cosa più brutta che hai fatto, Francesco?»
«Non lo so.»
«Pensaci. Quella che dopo avevi un dolore terribile e non sapevi come scappare.»
Francesco esita. Si tormenta le mani, chiude gli occhi e ce le mette sopra.
«Quando ho preso a calci il cane.»
«E perché è stato brutto?»
«Perché non aveva fatto niente.»
«Ecco, quello è l’inferno. La solitudine che hai provato dopo aver preso a calci il cane. L’inferno è tutte le volte che decidi di non amare o non puoi amare.»
«E quindi io andrò all’inferno?»
«No. Se chiedi perdono.»
«A chi?»
«A Gesù, e poi al cane.»
«E come si fa?»
«Confessandogli la solitudine che hai provato dopo aver fatto l’inferno. È come raccontargli una storia e a lui le nostre storie piacciono sempre, anche le più tristi.»
«E come fa a sentirmi?»
«Se tu lo dici a me, poi ci penso io.»
«Allora te lo dico bene.»
Francesco racconta del cane, e poi di quella volta che ha sputato al suo amico Antonio, di quando ha dato dei pugni a sua madre, ha rubato la bicicletta, ha bruciato due lucertole e la coda di un gatto, ha tirato le pietre a quelli dell’altra squadra e ha rotto la testa a un bambino, di quando…
Don Pino lo ascolta a occhi chiusi e annuisce. Quando Francesco ha finito li apre, gli rivolge un sorriso.
«Solo questo?»
Francesco, con il fiatone di chi ha percorso tutto il suo male, si tranquillizza.
«Solo questo.»
«E io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito santo.»
Gli guida la mano per fare il segno della croce. E poi gli dà un abbraccio.
«Che hai fatto?»
«Io niente. Dio ha cancellato l’inferno. Quelle cose non sono mai esistite, cancellate.»
«E allora posso andare in paradiso?»
«Sì. Però in paradiso non ci si va, Francesco.»
«No?»
«In paradiso o all’inferno uno c’è o non c’è. Non ci va.»
«Cosa vuol dire?»
«Che sono dentro di noi, dipende dallo spazio che lasciamo all’uno o all’altro.»
«Come?»
«Se dai un calcio a un cane lasci spazio all’inferno. Se gli dai una carezza lasci spazio al paradiso. Se ne ammazzi uno è inferno. Se ne salvi uno è paradiso. Scegli tu.»
«Io adesso sono contento. Contentissimo.»
«Ecco, allora sei in paradiso.»